Elena Ferrante, «I giorni dell'abbandono» (2002)
Elena Ferrante non ha più bisogno di presentazioni. Dietro questo nome, di cui non conosciamo l'identità ((Interessante, a questo proposito, l'indagine condotta dal Sole 24 Ore intitolata Ecco la vera identità di Elena Ferrante.)), si cela infatti una delle penne più apprezzate della narrativa contemporanea italiana e mondiale. Nonostante sia la quadrilogia L'amica geniale (2011-2014) il suo lavoro più riuscito e che condensa, sviluppandoli in un'opera di complessive 1728 pagine, i diversi temi già affrontati nei lavori precedenti, risulta interessante soffermarsi anche su quest’ultimi. La produzione narrativa anteriore, infatti, dimostra la capacità della scrittrice di entrare in maniera minuziosa negli angoli più reconditi della psiche femminile, tratto distintivo della sua opera.
Nel romanzo I giorni dell'abbandono, pubblicato nel 2002 dalla casa editrice E/O, adattato per il cinema nel 2005 da Roberto Faenza e da cui sarà a breve tratto un nuovo film con attrice protagonista il premio oscar Natalie Portman ((Voir l'article sur ANSA.it.)), assistiamo al crollo psicologico della protagonista, la trentottenne Olga, madre di Gianni e della piccola Ilaria, in seguito all'abbandono da parte del marito Mario.
Locandina del film I giorni dell'abbandono di Roberto Faenza
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Il romanzo si apre nel momento in cui la coppia, che si è trasferita a Torino da qualche anno, attraversa un’importante crisi. Nel capoluogo piemontese i due coniugi hanno cominciato a frequentare Gina e sua figlia, la sedicenne Carla. Più tardi verremo a conoscenza del fatto che Mario ha intrecciato con quest'ultima una relazione che i due decideranno di rivelare solo quando la giovane avrà venti anni.
Il baratro in cui sprofonda Olga comincia ad aprirsi proprio con le menzogne di Mario, che avanza il pretesto di “un vuoto di senso” per trascinare la coppia nella crisi coniugale. Olga apprenderà solo con il tempo dell'esistenza di un'amante e poi, progressivamente, la sua identità, soltanto dopo che Mario avrà abbandonato l'appartamento e i figli. Intorno ad Olga si innalza un muro che i suoi pochi conoscenti di Torino contribuiscono a costruire: nessuno infatti sembra voler dare alla donna indicazioni chiare per risolvere i dubbi che la attanagliano, forse nel goffo tentativo di proteggerla. Oltre al trauma di questo abbandono improvviso, inatteso e non compreso, la donna si trova a dover far fronte completamente sola a tutte le incombenze della quotidianità, compresa la cura dei figli e di Otto, il cane.
Comincia così un percorso profondo di autoanalisi in cui l'io narrante, che coincide con la voce della protagonista, entra in ogni angolo più recondito di sé, passando in rassegna la propria storia coniugale, la propria infanzia e il proprio ruolo di madre. Contestualmente a questo processo, assistiamo al cambiamento dell'aspetto fisico della donna, dei suoi comportamenti e del suo linguaggio. Si passa infatti da una Olga curata nell'aspetto e dai gesti contenuti e discreti (assecondando da una parte le aspettative giovanili della madre e dall'altra quelle del marito) ad una donna trasandata, irosa, violenta e dal linguaggio osceno.
L'umiliazione subita si somma al senso di frustrazione di una identità incompleta e sacrificata alle istanze della vita di coppia. Olga infatti è una scrittrice che si è ritrovata costretta ad abbandonare le proprie ambizioni per servire la vita familiare e seguire la carriera da ingegnere del marito attraverso il mondo. Proprio la scrittura diventerà il mezzo privilegiato a cui la donna tornerà a fare ricorso durante “i giorni dell'abbandono”, che le permetterà di ricostruire il filo della propria storia con Mario e di intraprendere quel lavoro di introspezione che in un primo tempo la inghiottirà, conducendola a perdere il contatto con la realtà, e in un secondo momento la restituirà a se stessa.
Elena Ferrante riesce magistralmente a condurre il lettore nel “vuoto di senso”, espressione a cui ricorre dapprima Mario per descrivere la propria crisi e poi Olga, per descrivere la sua. Tale vortice risucchia Olga fino a farle perdere il controllo di sé. Gli spazi fisici e la materia finiscono così per deformarsi, il tempo non sembra più sequenziale, il comportamento diventa incontrollabile. Il soggetto abbandonato finisce per autodefinirsi con l'azione dell'abbandono, per mettere in discussione ogni tratto fisico e psicologico di sé e per infliggersi un lungo percorso di disamina delle ragioni di questo abbandono, credendo di trovarle nei propri comportamenti e nella propria posizione all'interno della coppia.
Nonostante questo, il personaggio di Olga non viene rappresentato come passivo nel proprio dolore ma, al contrario, è dominato da un sentimento di rabbia: "Non ero la donna che è fatta a brani dai colpi dell'abbandono e dell'assenza, fino a impazzire, fino a morirne. Solo poche schegge mi erano schizzate via, per il resto stavo bene. Integra ero, integra sarei rimasta. A chi mi fa del male, reagisco restituendo la pariglia. Io sono l'otto di spada, io sono la vespa che punge, io sono la serpe scura. Io sono l'animale invulnerabile che attraversa il fuoco e non si brucia" (p. 83). L’ira nei confronti del mondo maschile (ma anche nei confronti degli amici e di Carla) è funzionale alla rivendicazione della propria identità ed è proprio questo sentimento che permetterà a Olga di affrancarsi dalla propria posizione di soggetto abbandonato, ai margini della propria vita, condizione a cui sembrava averla condannata la scelta di Mario.
Il tempo della narrazione si dilata nelle pagine che raccontano ciò che succede dopo la nottata che Olga trascorre con il vicino Carrano, guidata dal sentimento di rivalsa più che dal desiderio. L'acme narrativo viene raggiunto proprio nel racconto di questa giornata in cui la ragione della protagonista crolla di fronte alla febbre del figlioletto Gianni e alla morte di Otto: l'appartamento diventa una prigione da cui solo grazie alla ragione si potrebbe fuggire. La lucidità però è fortemente compromessa dal trauma, i gesti non rispondono più ai comandi forniti dal cervello e risultano temporalmente disordinati. Sono queste le pagine più lente ma allo stesso tempo più intense, dove il ritmo del racconto segue da vicinissimo i flussi di coscienza della protagonista, il tempo cronologico salta e si assiste ad uno scollamento tra intenzioni e gesti.
Mentre Olga affronta, sola, questo doloroso percorso, dall'altra parte troviamo dei soggetti maschili che fanno da corollario all'esperienza introspettiva, non sono soggetti attivi e, anzi, vengono rappresentati in maniera quasi ridicola: Mario, di cui ci viene restituita un'immagine di persona superficiale, passiva e insensibile alla sofferenza; Carrano, musicista cinquantenne che conduce una vita dimessa e, agli occhi di Olga, misera e priva di gioie e affetti; il veterinario di Otto che adduce pretesti piuttosto infelici per riuscire a rivedere la donna al di là degli orari delle visite in clinica.
L'identità di Mario, e ciò che l'uomo rappresenta per Olga, vengono dapprima idealizzati e poi decostruiti progressivamente, grazie anche a ciò che alcuni suoi amici e collaboratori riferiranno di lui. Dall'amore cieco si passerà così alla mancanza di stima più totale. Ne emerge che l’identità dell'altro, per quanto si creda di conoscerlo bene, può essere solo parzialmente compresa poiché sottoposta costantemente alla soggettività degli occhi di chi guarda. Proprio il contatto con uno sguardo esterno e dunque l'allontanarsi dalla propria visione permetterà ad Olga di ristabilire le responsabilità, di rimettere in ordine le caselle e di riprendere il contatto con se stessa, con la materia, con il tempo e con la società maschile. La vicenda con Carrano rappresenta la parabola ascendente del rapporto con l'alterità: in un primo momento approcciato per spirito vendicativo nei confronti del marito (rabbia, degrado psicologico) poi rifiutato malamente e in maniera offensiva (repulsione dell'alterità, volontà di solitudine), infine, grazie appunto ad uno sguardo più ampio, riavvicinato (riconciliazione). Tale processo di riappacificamento con l’altro viene avviato durante il concerto in cui Carrano si esibisce, occasione in cui Olga, che assiste da spettatrice, smette di guardare il vicino con gli occhi di sempre e vede per la prima volta l'interezza dell’uomo e le sue qualità artistiche. L'elemento musicale fornisce dunque un mezzo, una possibilità per ristabilire un contatto con l'ambiente esterno e la società. Tuttavia, non è l’unico: la morte del cane Otto, di cui Olga non conosce le ragioni e che finisce in un primo momento per attribuire a se stessa, svolge un ruolo-chiave nel superamento del trauma dell’abbandono. Se nell'umano non si trovano risposte e dall'umano si viene feriti, il contatto con il mondo animale può contribuire a rimettere la realtà nel proprio asse. Nel profondo del baratro, saranno infatti proprio gli ultimi respiri del cane che faranno riemergere in Olga l'istinto di sopravvivenza: "Quella prossimità di morte reale, quella ferita sanguinante della sua sofferenza, di colpo, insperatamente, mi fece vergognare del mio dolore degli ultimi mesi, di quella giornata sovratono di irrealtà. Sentii la stanza che tornava in ordine, la casa che saldava insieme i suoi spazi, la solidità del pavimento, il giorno caldo che si distendeva su ogni cosa, una colla trasparente" (p. 163).
Nella storia di Olga, nella sua persona e nel suo percorso attraverso il dolore non si rifletterà più solo Mario. La sua identità si intreccerà a quella della madre, a quella dei figli, a quella del cane e a quella della “poverella”, una donna conosciuta durante gli anni dell'infanzia a Napoli e abbandonata dal marito; lo spettro della donna, speculare al personaggio di Olga, apparirà in diversi momenti nella vicenda di quest’ultima. L’autoanalisi, inoltre, condurrà la protagonista a rimettere in discussione il proprio desiderio di maternità e il proprio ruolo di madre.
Il romanzo di Ferrante conduce il lettore a porsi i seguenti interrogativi: in che modo il proprio io si intreccia a quello dell'essere amato e, insieme ad esso, cambia? Dove si pone, nel rapporto di coppia, la frontiera tra sé e l'altro? In che modo cambiano nel tempo il proprio corpo, i propri gesti, il proprio linguaggio, fondandone un altro, nuovo, che non appartiene più esclusivamente a sé in quanto individuo ma appartiene a entrambi i membri della coppia? In che modo la propria vita e la propria identità di donna vengono sacrificate nella coppia, nel matrimonio e nella maternità? E quando si viene abbandonati, cosa resta in noi dell'altro? Anche volendo tagliare i ponti con la persona che è stata causa di sofferenza e ridare spazio alla propria personalità e i propri interessi, come definire la propria identità e ciò che ci appartiene veramente, se tutta la nostra esistenza, in fondo, si basa sull'incontro?
Pour aller plus loin
- Presentazione del libro e recensioni sul sito della casa editrice.
- Una recensione sul sito www.criticaletteraria.org
- Un articolo sul Corriere della Sera sull'identità di Elena Ferrante
Notes
Pour citer cette ressource :
Elena Perrello, Elena Ferrante, I giorni dell'abbandono (2002), La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2021. Consulté le 27/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/elena-ferrante-i-giorni-dell-abbandono-2002