«Le seduzioni della guerra»
Durante il mio primo viaggio in Afghanistan insieme alle truppe italiane, mi sono legato particolarmente a un plotone di venticinque soldati. Ho trascorso con loro due settimane in un avamposto isolato a sud del paese, tentando di amalgamarmi nella loro routine. Non è stato difficile. Erano all'incirca miei coetanei, ragazzi simili a me, insicuri e irriverenti, spesso più vicini all'adolescenza che ai lacci stretti della maturità. La sera, prima di coricarci presto, trascorrevamo un paio d'ore insieme in una baracca arredata con dei tavoli e delle panche, sorseggiando caffè solubile. Tutto intorno c'era una notte gelida e silenziosissima. I più disinvolti fra i soldati occupavano la scena, e uno in particolare, Tony, animava i discorsi. In Italia arrotondava lo stipendio come spogliarellista, mi mostrò delle fotografie in cui aveva il collo avvolto in un boa di piume fucsia, e una sera si esibì in un balletto acrobatico che io ripresi con il telefonino. Mi ero presentato al plotone come un inviato di Vanity Fair e mai scelta fu più vantaggiosa di quella: i soldati non vedevano l'ora di essere intervistati, e soprattutto fotografati, per una rivista che sarebbe finita in mano a tante ragazze. La vita normale, con le sue pesantezze, era distante migliaia di chilometri e il conflitto armato, sebbene ci fossimo in mezzo, sembrava altrettanto lontano. Io mi sentivo come sospeso. Invece di essere spaventato, ero straordinariamente vivo, scattante e leggiadro come non mi accadeva da lungo tempo. Il giorno in cui lasciai l’avamposto provai una fitta inaspettata di nostalgia. Me ne spaventai un po'. Da dove proveniva quell’attaccamento a una realtà che il mio essere razionale condannava senza mezzi termini?
Due settimane dopo il mio ritorno a casa, proprio l'ultimo giorno dell'anno, un ragazzo di quel plotone è stato ucciso da un proiettile. Ho visto la sua foto al telegiornale. Non era uno dei più appariscenti, ma me lo ricordavo. Il realismo più cruento irrompeva dunque in quella che per me era stata soprattutto un’esperienza sognante. Soltanto allora ho capito di che cosa si era trattato davvero: ho compreso l’origine del mio strano benessere in quel luogo assurdo e perché la guerra possiede e possederà sempre per l'uomo – anche in un mondo che si scopre via via più pacifista – un potenziale enorme di attrazione. L’energia che m’invadeva il corpo nell'avamposto afghano era nutrita soprattutto dalla prossimità inebriante della morte. Era un vero e proprio distillato di adolescenza e, come l’adolescenza, si svolgeva nel territorio strettissimo che separa l'esuberanza dal pericolo.
È in questo stesso territorio, credo, che germoglia la maggior parte delle narrazioni di guerra. Siamo abituati a trattare ciò che riguarda i conflitti armati come testimonianza o denuncia, ma spesso ci sbagliamo. L'ispirazione nasce lontano da lì, in uno strato più profondo e contraddittorio dell’anima, nell’eccitazione atavica dell’essere dei giovani uomini, tanti e insieme, che si spingono vicino alla morte, e la stuzzicano e la ammirano e la sbeffeggiano, come sciami di falene intorno al bulbo rovente di una lampadina. Non si scrive felicemente di guerra, ma se ne scrive pieni di vitalità, di una vitalità che è tanto più intensa quanto più si ha il coraggio di sporgersi sul precipizio.
Tempo dopo avere terminato il mio libro ho scoperto un saggio di James Hillman, dove tutto ciò viene descritto in maniera puntuale. Il titolo del saggio è provocatorio quanto il suo contenuto: Un amore terribile per la guerra. Hillman ha atteso di essere anziano per confessare e indagare con onestà l'afflato vergognoso che da sempre provava nei confronti dell'azione bellica, lui che sul campo di battaglia non era mai stato. Nonostante condannasse la violenza come ogni uomo di buon senso, il dio Marte e la sua terribile duplicità abitavano il suo cuore – una scoperta scomoda che è alla portata di ogni scrittore, e forse doverosa per ciascuno.
È in questo senso che la letteratura è anche un antidoto alla guerra. Non in quanto denuncia ma, al contrario, in quanto adesione e rimedio omeopatico. Cura il simile con il simile: la rabbia con una dose diluita di rabbia, il fanatismo con una dose diluita di fanatismo, l’atrocità con una dose diluita di atrocità. Non esiste altro modo efficace per opporvisi che garantisca al tempo stesso l’incolumità, perché non smetteremo di vezzeggiare costantemente ciò che ci spaventa e ci attrae, a meno che non troviamo il coraggio di attraversarlo.
Marguerite Duras scrisse: «Già si intravede la pace. È come un grande buio che cala. È l’inizio dell’oblio». Il momento peggiore di ogni conflitto, suggerisce paradossalmente, è proprio quando esso si conclude, quando la voglia di dimenticare torna a nascondere e a proteggere la furia che continua a esistere in ognuno di noi. Non esiste nulla di tanto pericoloso quanto una nazione che perde contatto con le proprie guerre, con il loro potere seduttivo: esattamente ciò che sta succedendo all’Europa, all’Occidente tutto, assopito in un'illusione di innocenza. Perciò, gli scrittori non la smettono di dare dei pizzicotti e di sussurrare nell'orecchio che non è finita. Che non sarà mai finita.
Pour citer cette ressource :
Paolo Giordano, Le seduzioni della guerra, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2014. Consulté le 30/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/le-seduzioni-della-guerra