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Dal viaggio immaginario alla fantascienza : Landolfi, Solmi, Zanzotto "In una rete di linee che si intersecano"

Par Rosanna Maggiore : Enseignante d'italien et docteure - Université de Bourgogne
Publié par Alison Carton-Kozak le 11/09/2015

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Dans cet article, Rosanna Maggiore montre de quelle manière le rapport entre le poète lunaire par excellence, Giacomo Leopardi, et les écrivains du XXe siècle change face à une nouvelle phase historique qui voit, entre autres, l’exploration de l’espace et la conquête de la lune. En littérature, on passe du mythe de la lune à sa parodie, du voyage imaginaire à la science-fiction. Les écrivains ne sauraient évoquer la lune chère à Leopardi, "vergine", "candida", "intatta", que de manière ironique, et pourtant la leçon du poète-philosophe demeure actuelle. Rosanna Maggiore s’interroge sur les raisons de cette actualité à travers le prisme de trois écrivains différents : Tommaso Landolfi, Sergio Solmi et Andrea Zanzotto.
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 […] ogni generazione di scrittori italiani si costruisce il proprio Leopardi, si definisce in rapporto a un’immagine di Leopardi.

I. Calvino, Il mondo incantato del signor Palomar, “Il Mattino”, 8 gennaio 1984

Introduzione

Comincerò con una provocazione. In un intervento poco noto del 1972, Sergio Solmi, uno dei promotori della fantascienza in Italia, afferma che la letteratura italiana dell’Ottocento non possiede né un Poe né un Hoffmann, e che

[p]er uno strano paradosso l’unico nostro scrittore fantascientifico è stato l’antiromantico Leopardi, il quale ha parlato di automi nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi e ha scritto un Dialogo fra la Terra e la Luna.[1]

Questa considerazione fa parte della risposta di Solmi a un’inchiesta sulla fantascienza, a cui partecipano Carlo Fruttero, Franco Lucentini, Italo Calvino, Primo Levi, Peter Kolosimo e Roberto Vacca. L’affermazione di Solmi suona provocatoria: il critico vuole sottolineare non tanto l’importanza di Leopardi come precursore della fantascienza, quanto l’assenza di una letteratura fantastica in Italia[2]. Da questa suggestione prenderò nondimeno le mosse per studiare un momento particolare della letteratura italiana del Novecento, quello degli anni Cinquanta, che tra le altre cose vedono lo sdoganamento della fantascienza e un rinnovato interesse per Leopardi.

Come vedremo, i due fenomeni non sono del tutto slegati: perché la fantascienza si afferma in Italia “attraverso filtri niente affatto popolari”[3], ma anche perché viene introdotta nel periodo delle imprese spaziali e ciò agevola il richiamo a Leopardi. Gli sputnik, i satelliti artificiali e le stazioni interplanetarie modificano infatti il rapporto con la tradizione “lunare” della letteratura e il primo poeta a essere coinvolto e spesso parodiato è proprio Leopardi. La sua lezione si rivela però anche profondamente attuale. Leopardi avverte il problema di fare poesia in un’epoca che sembra negarla, tratta il mito in modo ironico, si accosta al sapere scientifico, adotta una prospettiva cosmica, sgretola le più consolidate acquisizioni del geocentrismo e dell’antropocentrismo. Il suo pensiero risulta perciò congeniale a tutti quegli scrittori che nel Novecento sentono il bisogno di osservare la Terra da un’altra prospettiva, di rinnegare la chiusa configurazione del mondo tolemaico e ogni visione lineare, ascendente, dialettica e teleologica della storia umana[4].

Vedremo quindi in che modo la lezione di Leopardi viene ripresa negli anni Cinquanta,considerando tre autori molto diversi: Tommaso Landolfi, che già negli anni Trenta scrive alcuni dialoghi e falsi trattati di stampo satirico-filosofico, in cui non manca qualche trovata fantascientifica; Sergio Solmi, studioso di Leopardi e promotore della fantascienza in Italia; e Andrea Zanzotto, poeta particolarmente attento al lavoro di Solmi e di Landolfi, nonché fautore di una letteratura “megastorica”. Vedremo come questi tre autori, da posizioni, in modalità e per ragioni diverse, si interessino al viaggio immaginario e poi alla fantascienza, richiamandosi anche a Leopardi. I loro percorsi sono diversi, eppure non mancano punti d’incontro. Su questi punti fermeremo la nostra attenzione, convinti che i cambiamenti in corso negli anni Cinquanta sollecitino una letteratura “cosmica”, in grado cioè di dilatare l’idea di storia, di decentrare lo sguardo umano, di mettere in crisi abitudini percettive e categorie di pensiero.

1. La luna, l'operettismo e la fantascienza ante litteram di Tommaso Landolfi

Prima di occuparci del viaggio immaginario e della fantascienza degli anni Cinquanta, può essere utile fare riferimento ad alcuni racconti degli anni Trenta e Quaranta di Tommaso Landolfi. Sono qui, infatti, le radici della sua “fantascienza”, una fantascienza sui generis, legata com’è al registro parodico, alla tradizione della satira fantastica e all’operetta morale.

Nella produzione artistica di Landolfi, il modello delle Operette morali è in effetti visibile già in testi come Qualche notizia sull’L.I., in cui lo scrittore si avvale dello pseudo-trattato e della strategia dell’apocrifo per descrivere una lingua inesistente, o nel Racconto della piattola, un apologo in cui adotta il punto di vista di un animale per parlare del destino di morte che accomuna tutti gli esseri viventi[5]. Nel Mar delle blatte e altre storie (1939), Da: “L’astronomia esposta al popolo”. Nozioni di astronomia sideronebulare è una prosa falso-erudita, mentre Teatrino contiene tre dialoghi: La matematica non è un’opinione, niente è un’opinione, La farfalla strappata e Asfu. Nella raccolta La Spada (1942) sono da segnalare il racconto La tenia mistica e i falsi trattati Da: “La melotecnica esposta al popolo” e Nuove rivelazioni della psiche umana. L’uomo di Mannheim (Relazione letta alla Reale Accademia delle Scienze dall’On. Onisammot Iflodnal, arzebeigiano[6].

In questi racconti è possibile scorgere il modello delle Operette morali[7] per l’intreccio di filosofia, satira e invenzione fantastica, per la scelta del dialogo e del falso trattato, per l’adozione di strategie narrative stranianti come il distanziamento spaziale o temporale, il decentramento del punto di vista umano, la parodia del linguaggio scientifico, la trasfigurazione fantastica del quotidiano e la parallela riduzione del cosmico al comico. Attraverso queste strategie, Landolfi dilata lo spazio dell’immaginazione, inventa nuovi linguaggi e nuove scienze, critica l’antropocentrismo. La Terra è uno dei tanti mondi possibili, l’esistenza dipende dal moto casuale della materia, la storia non disegna un percorso lineare e ascendente. Il leopardismo landolfiano non è del resto di tipo rondesco: lo scrittore non apprezza solo l’atmosfera di ironia e distacco che pervade le Operette, non sottovaluta il pensiero di Leopardi e non sminuisce né la sua vena polemica né il suo pessimismo. Nelle sue opere il magistero leopardiano è riconoscibile sia nel riuso delle strategie narrative sopra elencate, sia nell’interrogazione radicale sul senso della vita e nella visione disincantata dell’universo[8].

Non manca, come premesso, qualche trovata “fantascientifica”. In Asfu, per esempio, Landolfi immagina un viaggio interplanetario verso la nebulosa di Andromeda; nella Tenia mistica, citando Restif de la Bretonne, stravolge le prospettive e osserva le viscere del nostro globo. In Da: “L’astronomia esposta al popolo”, trattato scritto a “Honolulu Hawaii (Terra), gennaio-marzo 2051”, si discute della grande galassia “spiralica […], la cosidetta Nebulosa Iflodnaliana”, mentre nelle Nuove rivelazioni della psiche umana, in un altrettanto lontano futuro, un essere umano (certo Tommy o Tom) viene addomesticato e studiato dall’On. Onisammot, un cane. Landolfi descrive un mondo separato ma speculare al nostro, oppure rovescia situazioni dettate da una logica antropocentrica. Osserva la Terra con sguardo ironico o sarcastico, denuncia il carattere illusorio delle “magnifiche sorti e progressive”, riflette sulla condizione umana e sulla letteratura. Per far ciò, adotta strategie distanzianti o ironiche come estraneazione e riduzione, ma anche strategie eloquenti che mettono in risalto l’“io” di chi pronuncia il discorso[9]. Guarda in tal senso al modello delle Operette morali e della satira fantastica, dando vita a una fantascienza sui generis. Infatti, come ha notato Marcello Carlino,

La fantascienza di Landolfi è sempre ex post e non ha plot; è stasi, non movimento; è riflessione, non azione; è sguardo retrospettivo, non proiezione in avanti; ha un sottofondo e un retrogusto di citazione. […]

Nei racconti landolfiani la fantascienza, che vi si rappresenta fin dai tardi anni Trenta, disdice l’utopia, ricusa l’ammaestramento e l’esortazione […], è forzata da Landolfi oltre i confini territoriali del genere, è resa strumento di un discorso altro, pretesto di una riflessione tra lo scientifico e il filosofico che si consente più di un exploit di critica dell’ideologia.[10]

Tornando alla produzione degli anni Trenta, nei racconti di Landolfi non troviamo il motivo del viaggio verso la luna[11]. A chiudere la prima metà del secolo e ad aprire la seconda è però Cancroregina[12], in cui Landolfi riprende e parodizza la tradizione del viaggio immaginario narrando la storia di Filano, uno scienziato che tenta di andare sulla luna a bordo di un’astronave. Nonostante il “folle volo”, la luna “sbocconcellata e rugginosa”[13] resta irraggiungibile. “Favola fantascientifica”, “trattatello”, “racconto filosofico”, “operetta morale”[14] secondo il parere di Antonio Prete, in questo breve romanzo gli spunti “fantascientifici” non mancano, ma non servono a proiettare il lettore nel futuro e a suscitare il suo stupore, bensì a trasferire la fonte del giudizio demistificante al di là della superficie terrestre, a ottenere un punto di vista alterato, perciò più critico. Così si spiegano le riflessioni sul tempo, sul piacere, sulla noia, sul sonno, sulla morte e sull’infelicità umana, dietro le quali è possibile scorgere l’ombra di Leopardi. Cancroregina si può dunque leggere come una parodia del viaggio immaginario (i vari ipotesti confermano questa tesi), ma anche come un’allegoria sull’esistenza e sulla letteratura. Ciò conferma il carattere colto e filosofico dei testi “fantascientifici” di Landolfi, e l’inestimabile retaggio di Leopardi.

2. Le lune sognate nei versi di Solmi e nei racconti di Landolfi

Con Cancroregina varchiamo la soglia degli anni Cinquanta, un decennio ricco di fermenti e di impulsi culturali. Diversi scrittori prendono le distanze dal romanzo realistico e si interessano a nuove forme letterarie. Uno di questi è Sergio Solmi, scrittore “dallo sguardo a 360 gradi, che si sporge sempre fuori, nei territori più lontani”[15].

Nel 1953 Solmi pubblica un saggio sull’utopia e sulla science-fiction, nel 1954 scrive Levania[16], una poesia dedicata alla Luna (Levania è il suo nome latineggiante-ebraico). L’astro non viene tuttavia ammirato o invocato da lontano, permette bensì di guardare la Terra dall’alto. Non è più la luna dei celebri versi leopardiani; eppure, per la scelta del distanziamento spaziale, l’inversione dei punti di vista, le prospettive cosmiche e la riflessione sulla finitezza umana, è comunque possibile pensare a Leopardi, o ad autori che seguono la sua lezione. Come ha notato Emanuele Zinato,

Landolfi, ideando Cancroregina, si trova grosso modo nella medesima situazione in cui di lì a poco verrà a trovarsi Sergio Solmi che, all’inizio degli anni Cinquanta, nello scrivere Levania, utilizza in primo luogo il Somnium, seu Opus de Astronomia Lunari di Ioh. Keplero[17].

Solmi e Landolfi prenderebbero le mosse dal Somnium di Keplero[18] per poi ricollegarsi alla tradizione del viaggio immaginario, in cui si sono cimentati Plutarco e Luciano, Ariosto, Galileo, Bruno e Leopardi, Cyrano, Poe e Verne[19]. Come nelle opere di questi illustri antenati, sia in Levania sia in Cancroregina la Terra viene osservata da lontano e la luna appare sempre più vicina. Non si rivela, tuttavia, un luogo edenico. Come ha osservato Zinato, nel racconto landolfiano il protagonista cita Galileo, ma non nutre il suo ottimismo: il cosmo non offre “grandi, e oltremodo mirabili spettacoli” (“Magna admirabilia spectacula” recita il frontespizio del Sidereus Nuncius). Da un lato abbiamo Cancroregina:

La terra è sotto di me sempre press’a poco nella medesima attitudine […]. Oh, non potrei almeno essere condannato a contemplare una parte di essa terra a me sconosciuta, da me meno odiata?

Sopra di me, la luna, la romantica luna… che non mai spirò tanto orrore dalla sua faccia risucchiante, bianca e nera, dai suoi spalancati gurgiti di pietra calcinata[20].

Dall’altro Levania:

 […] Era il confine, il mondo
di lava e roccia, il minerale cieco,
il punto fermo opposto alla insensata
Fantasia delle forme. Era lo zero
che ogni calcolo spiega, era il concreto,
bianco, forato, calcinato fondo
dell’essere.
E sovente dai supremi bastioni
di Levania il verdeggiante
pianeta ho contemplato, l’ombra vaga
di oceani e di foreste, della vita
impetuosa e fuggevole le polle
iridescenti […][21]

Solmi e Landolfi riflettono sulla condizione umana, ma allargano il cronotopo fenomenico e guardano la Terra dall’alto. Adottano procedimenti di appropriazione e amplificazione lirica del discorso, ma anche strategie di distanziamento e di estraniazione. Guardano dunque al Leopardi poeta cosmico, oltre che lirico[22].

Non meno rivelatrici sono tuttavia le differenze tra la poetica di Solmi e quella di Landolfi. La navicella Cancroregina non può raggiungere né la luna né la vecchia Terra; costretta a girare intorno all’orbita terrestre, diventa il simbolo di un’esistenza senza possibilità di riscatto. Landolfi afferma di amare la vita da quando si è separato dal mondo (richiamandosi proprio a Leopardi)[23], ma non nutre nessuna speranza di salvezza. Nei “viaggi” di Solmi, invece, la riflessione sull’universo finito, atomo di dolore, si accompagna non di rado a uno slancio vitale, testimone dell’incoercibile desiderio umano. In uno scritto pubblicato postumo, Poiché mi si chiede, nelle proprie poesie Solmi nota

la presenza di un conflitto non superato tra un intenso amore della vita e una visione preoccupata e drammatica del mondo e della storia. [...] Ma la poesia, chiarendo il conflitto interno dell’uomo di fronte alla vita, lo aiuta a superarlo. La mia poesia, su un fondo drammatico, aspira ad una visione giustificativa e pacificatrice”[24].

Ora l’aspetto più interessante per noi, in quanto mostra l’eterogeneità delle letture che vengono proposte di Leopardi, è che la visione del mondo di Solmi e di Landolfi trova riscontro nella loro interpretazione delle opere leopardiane. Landolfi si mostra vicino al Leopardi maturo, quello delle riflessioni più sconsolate sull’ordine universale, sulla nullità dell’esistenza, sull’irraggiungibile felicità e sull’indifferenza della Natura: il poeta che deride le illusioni umane e denuncia l’“arido vero”. Solmi, invece, dialogando e discutendo con De Sanctis, Gentile, Fubini, individua una contraddizione insolubile nella poesia di Leopardi:

da una parte, la chiarificazione, il rilievo tragicamente negativo di una realtà immobilizzata nella luce dell’intelletto; dall’altra, la rivolta del cuore, la irriducibilità della vita come palpito e slancio alla constatazione anche più amara e delusa del destino umano[25].

Tale contraddizione resta insanabile, ma la “vitalità”, l’“intensità vitale”, il “sentimento della vita” rappresentano per Solmi la spina dorsale del pensiero leopardiano.

Solmi segue dunque un suo discorso. Il motivo del pianeta terrestre colto dall’esterno e dei mondi paralleli appare già in alcune poesie giovanili (Aeroplano, del 1930, Sera sull’Adda, del 1937[26]), viene ripreso negli anni Quaranta (La vita sbaglia i modi, i tempi, del 1945, Giardini di Vercelli, del 1947), negli anni Cinquanta (Ultime notizie, del 1954, e Sopra un mio vecchio tema, del 1957[27]), fino a diventare il tema-chiave della raccolta Dal balcone negli anni Sessanta (Dal balcone, Le vierge azur, del 1960, e Lamento del vecchio astronauta, del 1963[28]). Nessuno di questi testi, come detto, è toccato dallo sconforto o dal sarcasmo di Landolfi.

A notare le differenze tra le lune di Solmi e di Landolfi è non a caso un poeta attento a entrambi, Andrea Zanzotto. Vi accenna in un articolo dedicato a Levania nel 1957, sottolineando che Landolfi “pur trova modo, in altro senso, di rifarsi al gran filone leopardiano”[29]. In questo stesso articolo, dopo aver messo in luce i limiti del “realismo” del dopoguerra[30] e aver stimato la fantascienza in grado di riflettere in modo critico sulla storia presente, sia per l’attenzione rivolta alla scienza, sia per la possibilità di coniugare ragione e fantasia, Zanzotto scrive:

Il lavoro ‘alle frontiere dell’umano’ che Solmi tenta di compiere si giova di un’energia che lontanamente gli viene anche da trovate della S.F.; ma con uno spirito che si potrebbe dire leopardiano, oltre che per scoperti riferimenti generali, per quel contrappunto di violenze, bizzarrie, di audacie che si ritrova anche nelle Operette […]. Nello stesso Leopardi […] non mancano spunti vagamente ‘fantascientifici’: tale è il clima del gabinetto del dottor Ruysch in cui benissimo vien proposto il canto delle mummie. E proprio il ‘punto acerbo / che di vita ebbe nome’ […] è qualche cosa di simile al ‘punto fermo opposto all’insensata / fantasia delle forme’ (anche se in termini capovolti), che è la Luna di Solmi, simbolo di una supervita tutta razionale, di una superscienza-assenza. […] I suggerimenti della S.F. o anche, meglio, della scienza (ancora Leopardi) valgono per l’umanista Solmi in quanto richiami ad altri ordini di realtà in cui l’uomo ‘può’ apparire anche come non senso […]: ma solo perché l’insignificanza dell’uomo in una certa prospettiva conta a definire il vero senso nella sua globalità […]; e ciò […] arricchisce l’umano, ne propone altre dimensioni e potenzialità, anche se arrischiandolo nella perenne sfida ai propri confini.[31]

Secondo Zanzotto, Levania sarebbe il “punto fermo” opposto al leopardiano “punto acerbo” della vita. Solmi guarderebbe dunque alla “S. F.”, ma con “spirito leopardiano”. Di qui l’estrema cautela con cui Zanzotto utilizza il termine fantascienza; si notino l’uso delle virgolette per “fantascientifiche”, la presenza di avverbi come “lontanamente” o “vagamente”, la tendenza a correggere alcune affermazioni (“i suggerimenti della S.F. o anche, meglio, della scienza (ancora Leopardi)”). Il fatto è che Zanzotto ha in mente una fantascienza leopardiana[32] o “copernicana”, in grado di richiamare altri ordini di realtà, di abbassare e di sublimare l’idea di uomo, di far riflettere sulla storia presente. Solmi, in effetti, sembra perseguire questi obiettivi. Sostenuto da un impegno etico-politico e dalla fiducia in un razionalismo che non nutre false illusioni, senza spingersi oltre da un punto di vista linguistico[33], avverte l’esigenza di una poesia cosmica[34], ma non si mostra per questo meno attento alla realtà presente.  Ciò spiega l’interesse per la fantascienza, in cui i fatti immaginati diventano, se non reali, quanto meno plausibili. Solmi promuove il nuovo genere scrivendo diversi articoli e saggi su cui, seppur brevemente, vale la pena di fermarsi.

3. Del viaggio, dell'utopia, della fantascienza: i saggi di Sergio Solmi

Negli anni Cinquanta Solmi si occupa sia di classici francesi e italiani sia di generi come l’utopia e la fantascienza. Il saggio Divagazioni sulla “Science-Fiction”, l’utopia e il tempo viene pubblicato su “Nuovi argomenti” nel 1953; l’introduzione al Milione di Marco Polo, edito per Einaudi, nel 1954; l’introduzione alle Meraviglie del possibile. L’antologia della fantascienza, curata insieme a Carlo Fruttero sempre per Einaudi, nel 1959.

Sintetizzando, nel saggio del ’53 e in quello del ’59, Solmi sottolinea che la scienza di oggi non offre più certezze assolute, che all’epoca della bomba atomica e della guerra fredda “invenzione, utopia, ipotesi fantastica” sono “i sintomi di uno stato di crisi”. Tali sintomi possono dar vita a una “letteratura d’evasione”, ma possono anche essere “molle dell’affermazione vitale e quindi stimolo al progresso”[35]. Per questa ragione, Solmi prende le distanze dal clima culturale italiano, su cui pesavano mezzo secolo di storicismo idealistico, la diffidenza nei confronti della scienza fisica e la pretesa di un realismo integrale, e mostra tanto i limiti quanto le potenzialità del nuovo genere. La fantascienza è accostata al romanzo poliziesco, a quello d’avventura e al western, ma anche all’utopia e al romanzo cavalleresco. Solmi guarda a questa nobile tradizione, pur sapendo che la maggior parte degli scrittori di fantascienza mira ad altro. Il critico nega inoltre il carattere profetico della fantascienza: per il suo statuto ipotetico e congetturale, essa non può dire nulla sul futuro, può solo riflettere il presente, le inquietudini e le aspirazioni dell’uomo d’oggi. Solmi si mostra quindi critico nei confronti della science-fiction sprigionatrice “di folli prospezioni”[36], ma promuove sia la fantascienza dotata di una funzione satirica e in grado di veicolare messaggi morali, sia quella – ariostesca – proiettata ottimisticamente verso il futuro, capace di accendere l’entusiasmo e di infondere nobili sentimenti. Conclude così il saggio del ’53:

La science-fiction [...] minaccia continuamente di svuotarsi di senso e di perdersi nel “sogno ad occhi aperti” per mancanza di riferimenti concreti [...]. Noi non troviamo già la reale incidenza dell’infinito con la nostra finitezza nell’astratta, tediosa e vertiginosa prospezione delle interminabili serie spaziali e temporali, [...] bensì proprio nell’attimo puntuale in cui tale infinità s’affaccia all’anima che se ne colma, imbevendosi insieme della stagione “presente e viva” e del “suon di lei”, con la siepe, il colle, il vento che stormisce fra le piante dell’idillio leopardiano. [...] Ma d’altra parte, ipotesi e astrazione sono anch’esse, come tali, contenute nel “qui” e l’“ora” dell’individuo determinato al margine estremo del tempo, e, senza la continua ipostasi astratta del passato [...] e del futuro [...], il presente stesso non sarebbe che un punto cieco: e il sogno fa parte della nostra vita come la veglia, l’evasione è per ritrovarci, l’irrequietezza fantastica è il necessario lievito della natura umana, che [...] prepara confusamente le linee dell’avvenire destinate ad integrarsi a poco a poco nell’oggi[37]

Ammiccando a Leopardi, i cui messaggi sembrano fungere da monito, Solmi afferma che la reale incidenza dell’infinito va cercata nel proprio intimo, non nelle lontananze siderali del cosmo; ma ciò non toglie validità a ipotesi e astrazioni, perché anch’esse sono contenute nella stagione “presente e viva” e rappresentano il necessario lievito della vita umana. Emerge anche qui l’importanza attribuita all’ineludibile desiderio umano, vera e propria cifra della poetica solmiana. Se è vero dunque che “il fenomeno della science-fiction è essenzialmente un fatto di sfogo immaginativo”, è vero pure ch’essa può, “oggi o domani, aprire vie alla poesia”[38].

È quanto Solmi tenta di mostrare raccogliendo gli “esemplari efficienti” della fantascienza nell’antologia Le meraviglie del possibile, che in effetti si configura come una silloge d’alto livello letterario. Le storie scelte sono infatti definite “science-fictions di secondo grado, nel senso che quasi tutte rappresentano un superamento del primo stadio di una tale narrativa, ricalcato sugli schemi polizieschi o d’avventura”[39]. L’antologia suscitò non a caso un certo interesse, anche presso gli autori di cui ci stiamo occupando.

4. Dal viaggio immaginario alla fantascienza: Iflodnal Onisammot, Sergio Solmi e Andrea Zanzotto

Gli interventi di Solmi sulla fantascienza testimoniano l’esigenza di correggere il realismo degli anni Cinquanta con una letteratura aperta all’immaginazione e nondimeno vigile sulla realtà del tempo. Analizzeremo adesso alcuni testi dei già citati Landolfi e Zanzotto, anch’essi attenti alle trasformazioni di quegli anni, nonché testimoni di un’esigenza di rinnovamento.

Come detto, nel novembre 1959 escono Le meraviglie del possibile. Di quello stesso ottobre-novembre 1959 è un numero assai significativo del “Caffè politico e letterario”, rivista diretta da Giambattista Vicari, aperta alla satira, alla metaletteratura e allo sperimentalismo: un numero che potremmo definire “lunare” come l’anno che stava per chiudersi. In copertina appaiono La coscienza meccanica, una recensione di Tommaso Landolfi, e le Poesie lunari di Cesare Vivaldi e Andrea Zanzotto.

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Figura 1.  Sopraccoperta del “Caffè politico e letterario”, ottobre-novembre 1959

Landolfi recensisce il libro di Rolf Strehl, I robot sono tra noi[40], facendo riferimento al romanzo utopico-satirico di Samuel Butler, Erewhon, città sita in nessun luogo (come indica il titolo, facile anagramma di “nowhere”), i cui abitanti, spinti dalla lettura di un testo intitolato Il libro delle macchine, decidono di distruggere tutte le macchine esistenti. Landolfi denuncia l’assolutismo della ragione, la “cieca e bestiale fede nei dati dell’esperienza”, accennando anche all’“angustia di una letteratura avveniristica come la fantascientifica”. Landolfi non critica la scienza in sé (sottolinea che la cibernetica “nelle mani dei filosofi sarebbe disciplina appassionante”), ma il metodo usato dai nuovi scienziati (“della scienza stessa non sono assunti che gli elementi programmatici e inerti, avendone omesso tutto ciò che sempre la ha fatta legittima, e apparentata alla poesia”). A preoccuparlo non è il rischio che le macchine possano sbagliare, ma la loro infallibilità, il venir meno del “dostoievschiano ‘due più due cinque’”: “ecco”, spiega subito dopo, “ciò che un roboto non può darci”[41]. Landolfi denuncia dunque il falso progresso e la riduzione della scienza a mero strumento d’utilità, mostrandosi in questo vicino a Leopardi.

Seguono alcune Poesie della fine del mondo di Delfini, Viaggio spaziale di Vivaldi e 13 settembre 1959 di Zanzotto, che comincia così:

Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita[42]

La poesia di Zanzotto, sul modello di Animula vagula blandula di Adriano (II sec.), è un’ininterrotta enumerazione di attributi riguardanti la luna. All’‘invocazione’ seguono l’‘avvicinamento’, il ‘contatto’, la ‘deflagrazione e fuga della poesia’, e una nuova ‘invocazione’ (il componimento si vuole ripetuto indefinitamente). Il testo del 1959 non è però dedicato solo alla Luna, ma anche ad alcuni poeti lunari. A piè di pagina leggiamo:

NOTA: Questi quasi-leporeambi, molto reminescenti, sono dedicati a N.S.K. il Galattico, a Dante, a Ludovico Ariosto, a Giacomo Leopardi, a Iflodnal Onisammot, a Sergio Solmi e a tutti gli altri arconti lunari (A.Z.).[43]

Zanzotto fa riferimento alla tradizione lunare della letteratura italiana, del passato e del presente. Oltre a Dante, Ariosto e Leopardi, cita infatti Sergio Solmi e Iflodnal Onisammot: un nome inesistente questo, dietro il quale, o meglio rovesciando il quale, si ottiene il vero nome dello scrittore a cui Zanzotto fa riferimento. Il nome dell’autore, ma anche il nome del celebre personaggio landolfiano (lo scienziato di Da: “La melotecnica esposta al popolo”, di Nuove rivelazioni della psiche umana e di Da: “L’astronomia esposta al popolo”), protagonista dei falsi trattati degli anni Trenta, su cui ci siamo fermati precedentemente[44].

Altrettanto studiato è quel “N.S.K. il Galattico”. Visti i modelli citati, si è tentati di cercare qui un altro autore della letteratura italiana, se non fosse che il titolo della poesia richiama l’attualità “spaziale”. Il 13 settembre 1959 la sonda sovietica Lunik II tocca per la prima volta il suolo lunare, ragion per cui quel “N.S.K.” rimanda verosimilmente alla figura di Nikita Sergeevi? Chruš?ëv (o Kruscev)[45], che nel settembre 1959 trascorre 13 giorni negli Stati Uniti. Questo riferimento aiuta a contestualizzare storicamente il componimento di Zanzotto, a comprendere le sue scelte stilistiche, il retaggio dei poeti citati e l’inevitabile distanza rispetto a essi. La Luna di Zanzotto non può più essere quella di Dante, di Ariosto o di Leopardi[46], e solo in parte quella di Landolfi e di Solmi: nel componimento zanzottiano, la conquista del satellite non è un’ipotesi o una fantasia, ma un fatto. Il titolo lo indica chiaramente[47]. Di fronte al nuovo evento, Zanzotto è costretto a fare i conti con la propria cenestesi ancestrale e, di conseguenza, con il linguaggio. Cerca nuovi attributi per descrivere la Luna, uscendo dall’alveo della tradizione classica. La violenza esercitata sul linguaggio (visibile nella commistione di diversi codici linguistici e nell’uso eccessivo di allitterazioni, giochi etimologici e paronomasie) riflette in effetti la violenza esercitata sulla Luna. Zanzotto denuncia così l’oltraggio perpetrato dagli uomini: non per mera nostalgia del passato, ma perché dietro l’apparente sete di conoscenza scorge una più forte volontà di onnipotenza, nonché il pericolo dell’autodistruzione. La stessa autodistruzione che, negli anni Sessanta, Solmi evocherà nella poesia A Giacomo Leopardi. Qui, grazie alla “macchina del tempo” (di wellsiana memoria), Solmi può viaggiare a ritroso negli anni e incontrare la “cara ombra” di Leopardi, a cui si rivolge con queste parole:

[…]

Né ancor s’astenne
la generosa stirpe, come saggio
antivedevi, dal por mano ad armi
ogni dì più possenti a ognor più vaste
stragi ordinate, e in luogo
di rinsavita unirsi a fronteggiare
l’inimica natura (tal suonava
il tuo monito estremo), eccola giunta
angosciosamente a un riconoscersi
dissennato sull’orlo vacillante
dell’autodistruzione.[48]

L’“antica luna” di Leopardi è notevolmente cambiata (il suo lume è “rotondo, scabro”), l’idillio impossibile, la parodia d’obbligo[49]. La luna non è più il luogo in cui la fantasia poteva sbizzarrirsi: dal viaggio immaginario è gioco forza passare alla fantascienza, dall’impossibile al plausibile; eppure il messaggio di Leopardi resta attuale: il suo canto “a noi dura”, scrive Solmi in questo stesso componimento[50].

Tornando a Zanzotto, sarà bene precisare che se da un lato il poeta denuncia la barbarie tecnologica e il rischio della catastrofe atomica, dall’altro si mostra attento alle reazioni psichiche dell’individuo. Esse rivelano l’investimento dell’uomo sulla natura e permettono di superare vecchi miti antropocentrici, vecchie abitudini percettive. Anche per questo Zanzotto considera la scienza in sé un “fatto vitale, apportatore di ferite attivanti”[51], capace di scuotere le coscienze di fronte alle convezioni e alle falsificazioni della storia in corso.

13 settembre 1959 verrà raccolta nelle IX Ecloghe (1962)[52], dove diversi testi di argomento lunare sono caratterizzati da una visione del cosmo di tipo lirico-scientifico[53]. In Per la finestra nuova, per esempio, leggiamo:

Brilla la finestra del verde lungamente
lungamente composto, sogno a sogno,
orti o prati non so; ma quanta brina
prima ch’io mi convinca, quanta neve.

Verde del grano che alzi il capo e irridi
tra l’incerto oro e il vuoto:
tu, mia finestra, e tu, cielo, che porti
a me tra placidi astri gli squillanti satelliti

che il gioco umano ha lanciati, con lampi
di fantascienza, a vagheggiare in orbite
leggiere i colli, e li vede a piè fermo
il bue sul campo arato e la vite e la luna.
O mia finestra, purezza inestinguibile.
Per farti spesi tutto ciò che avevo.
Ora, non lieto, in povertà completa,
ancora tutti i tuoi doni non gusto.

Ma tra poco
tutto mi darai quel che anelavo.[54]

Così ne parla Zanzotto parecchi anni dopo:

[…] è connessa al tema della fantascienza, che mi ha sempre interessato. Nel 1957, quando furono lanciati i primi satelliti russi, gli Sputnik, si stava alzati la notte per guardarli passare dal cielo. In quel periodo ero riuscito a fare aprire nella mia casa una finestra [...]. L’apertura di una finestra è anche l’apertura di una prospettiva nuova della realtà, della vita; è simbolo della speranza di rinnovamento. Dove dico “ancora tutti i tuoi doni non gusto. / Ma tra poco / tutto mi darai quel che anelavo”, intendo significare che la realizzazione dei nostri desideri non è mai totale, dobbiamo sempre rimandarla parzialmente al futuro ed è questo che ci aiuta a rilanciare di giorno in giorno la speranza.[55]

I termini leopardiani della poesia (“orti”, “placidi astri”, “luna”, “colli”) vengono alternati a parole di tipo opposto (gli “squillanti satelliti”, i “lampi di fantascienza”), segno che il cosmo si sta popolando di nuovi oggetti e significati. La scienza e la tecnica hanno reso inutilizzabili i vecchi topoi lunari e il poeta è costretto a cercare nuove immagini. Nella riconosciuta disintegrazione dei valori passati non manca tuttavia, in questa poesia e altrove, uno spiccato interesse per le scienze, per il loro potere creativo ed eversivo[56], e una speranza di rinnovamento che ha sapore blochiano più che leopardiano[57]. Zanzotto tende in effetti a superare l’estremo pessimismo del Leopardi maturo, ricordando che “Leopardi stesso […] ha scritto che la poesia non è altro che un aumento, una crescita di vitalità”, e che il pessimismo di Leopardi sa correggersi pur manifestandosi[58]. Nelle opere di Zanzotto, la consapevolezza del negativo non riesce ad eliminare il vagheggiamento di un’utopia.

Zanzotto prosegue dunque a suo modo il discorso di Leopardi, che pur rimane un punto di riferimento: non solo perché avvertì i rischi della modernità, ma anche perché sottopose a riserva l’immagine vanagloriosa dell’uomo. Quella a cui Zanzotto aspira, come detto, è una “fantascienza copernicana”, in grado di aprire nuove prospettive, umane ed extra-umane, non per evadere ma per riflettere sulla storia presente. A suo avviso,

ci soffermiamo troppo poco sulla megastoria, ragioniamo per così dire tolemaicamente, in termini di microstoria antropocentrica, retaggio di miti e ideologie ormai tutti superati! […] Se noi ci abituassimo […] a vederci qui su un piccolo mondo perso ai margini di una delle tante galassie... Bisognerebbe far entrare nella testa di tutti e particolarmente dei bambini cattivi che ci governano, che governano il mondo, l’idea della piccolezza del loro teatro, […] lo spirito copernicano dovrebbe finalmente far giustizia di questo geocentrismo e antropocentrismo anacronistico.[59]

“A questo proposito”, continua poco dopo, “la fantascienza più squillante di megatempi e megaspazi, più iridescente di utopie e ironie sociologiche opportunamente situate in essi, è tutt’altro che da sottovalutare”[60]. Zanzotto ribadisce in definitiva l’importanza di una fantascienza critica e di alto livello letterario. Del resto, in Italia non mancherebbero, afferma Zanzotto in un altro articolo,

importanti autori […] che si sono occupati e si occupano di S F, dallo stesso Calvino a Landolfi a Buzzati a Primo Levi. Il racconto di S F è sicuramente destinato ad avere una sempre maggiore diffusione nella scuola e nella società. Infatti si riuscirà a superare l’attuale crisi soltanto abituando le nuove generazioni a guardare, come Micromégas, la terra e le cose e le storie terrene dalla prospettiva di Sirio o meglio da quella di Dante  […]. Si può credere di non sbagliare confidando nella S F, in una S F di sempre più elevato livello, per la formazione di un nuovo uomo che conosca finalmente altre terre e un’altra storia. Se, come pensano Butor o Solmi, la S F deve essere la mitologia o l’etica del nostro tempo, lo sia almeno sotto questo segno, anche quando sembra più indugiare nei golfi del terrore, del nonsenso, della confusione.[61]

La science-fiction – quella che punta su “prese panoramiche a gran distanza” e che si oppone al “tolemaismo”[62] – non va insomma sottovalutata. Come vedremo nel prossimo paragrafo, la conclusione a cui giunge Landolfi non è poi così diversa.

5. “Sola la letteratura fantascientifica è sulla strada giusta”: l’opinione di Landolfi

Landolfi, pur avendo una visione del mondo diversa da quella di Solmi o di Zanzotto, meno ancorata a un impegno politico, mira anche lui a “prese panoramiche a gran distanza” e mostra un certo interesse per la fantascienza.

In una pagina di Rien va (diario edito nel 1963 ma scritto tra il 1958 e il 1960), in data 10 novembre 1959 (lo stesso mese in cui escono Le meraviglie del possibile e il numero del “Caffè” di cui ci siamo occupati), riflette sulla fantascienza insistendo proprio sul suo “letterale rivolgersi al di fuori”, sulle “nuove aperture” e sull’“allargamento del nostro orizzonte”. Scrive:

Mi par chiaro che sola la letteratura fantascientifica è sulla strada giusta, e se ho detto altra volta il contrario tanto peggio, o l’avrò fatto per ignoranza dei testi migliori. Ossia la fantascienza sarà magari, oggi come oggi, priva di vere dimensioni e niente in sé, ma quel letterale rivolgersi al di fuori parrebbe nondimeno il solo atteggiamento ormai possibile. Non sarei alieno insomma dal pensare che la fantascienza stia ponendo o potrebbe porre le basi della prossima letteratura: i suoi problemi lontanamente impliciti son poi i nostri appunto e sono ormai ciò che più importa […]. Sta di fatto che qualsivoglia fiore di spiritualità perde alquanto forza di fronte a queste nuove aperture. Si ha un bel dire, come io stesso faccio: Va bene, andremo su Marte, e poi?, o ribadire che la vera realtà è quella di dentro: l’allargamento materiale di un orizzonte è sempre un fatto dello spirito. Se dopo Copernico gli uomini si sentivano tremare la terra sotto i piedi, oggi se la sentono sfuggire e dileguare. […]. – Non sto per nulla predicando un’estroversione, al contrario; penso invece a cosa potrebbe diventare la fantascienza […] quando cioè divenisse una vera letteratura (ma intendiamoci, alcuni autori di fantascienza son gente di prim’ordine, che non ha nulla da invidiare ai rompiscatole sociologici o alienisti). O, più esattamente, penso che una mente libera non saprebbe ignorare questo nuovo o non nuovo dato, cioè l’allargamento del nostro orizzonte fisico a non dir altro, per infecondo che sia in sé.[63]

Landolfi fa qualche passo indietro rispetto alle posizioni assunte in passato (“se ho detto tante volte il contrario tanto peggio”): perché il “letterale rivolgersi al di fuori” della fantascienza è “il solo atteggiamento ormai possibile”, perché i problemi impliciti della fantascienza “son poi i nostri”, infine perché il genere nasce dopo una svolta (“le nuove aperture”, “l’allargamento materiale di un orizzonte”, “l’allargamento del nostro orizzonte fisico a non dir altro”) di cui occorre tenere conto (“una mente libera non saprebbe ignorare questo nuovo o non nuovo dato”). Il riferimento a Copernico merita inoltre attenzione in quanto, come afferma Leopardi nello Zibaldone, l’obiettivo dello scienziato non è solo fisico o materiale: si tratta di rinnovare “l’idea della natura”, di rivelare “una pluralità di mondi”, di mostrare “l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra”, e di aprire “un immenso campo di riflessioni”[64]. Questo riferimento confermerebbe l’idea di una fantascienza “copernicana”, in grado cioè di destituire l’uomo dal centro dell’universo e di ribaltare idee universalmente accettate, ma acquista senso soprattutto a posteriori, alla luce dei racconti degli anni Sessanta e Settanta, in cui Landolfi riprende la lezione di Leopardi. Landolfi adotta infatti la forma del dialogo e della falsa conferenza, la strategia del distanziamento spaziale o temporale, il motivo della finis historiae e del mondo senza gente[65]. Diversi personaggi vengono catapultati fuori dall’atmosfera terrestre, guardano la Terra dall’alto e “da dopo” ma, come in Cancroregina e in alcuni racconti degli anni Trenta-Quaranta, non si tratta di un’“estroversione”: le avventure cosmiche, i viaggi intergalattici, le coscienze meccaniche servono a decentrare lo sguardo umano, ma anche a riflettere sull’impossibilità di evadere realmente dal nostro mondo[66].

Ad avvalorare l’interesse di Landolfi per la fantascienza sono infine due lettere inedite, inviate a Giulio Einaudi all’inizio degli anni Sessanta. Nella prima, datata 15 febbraio 1960, Landolfi fa una richiesta ben precisa:

Caro Einaudi,

mi accingo appunto a scriverle per pregarla di farmi spedire qui a Pico le altre copie del Puškin, di sostituire, se possibile, una di tali copie con una delle Meraviglie del possibile (si chiama così l’antologia di fantascienza del Solmi?)[67]

Naturalmente questo non basta a dimostrare l’interesse di Landolfi per l’antologia; ma di rado lo scrittore richiede libri che non riguardano le sue traduzioni, e un’altra occasione si presenta a poca distanza di tempo. Il 25 luglio 1961, Landolfi scrive a Einaudi:

Infine: può farmi mandare il Suo nuovo libro di fantascienza e la vecchia antologia russa del Poggioli (che non possiedo; Il fiore del verso russo, credo si chiami)[68]

A giugno esce, a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Il secondo libro della fantascienza[69], una silloge più corposa delle Meraviglie del possibile ma fedele agli stessi criteri di scelta. È allora possibile supporre che il primo volume dell’antologia non avesse lasciato indifferente Landolfi[70].

Cercando di tirare le fila, alla luce dei testi analizzati è possibile notare come cambi, negli anni Cinquanta in particolare (ma la ricerca si potrebbe estendere ai decenni successivi), il rapporto degli scrittori con la tradizione “lunare” della letteratura, in che modo si passi dal mito della Luna alla sua parodia, dal viaggio immaginario alla fantascienza, e in che modo la lezione di Leopardi resti, pur nella diversità delle interpretazioni, attuale. Diverse e senz’altro personali sono infatti le letture di Landolfi, Solmi e Zanzotto, eppure non mancano punti di contatto tra le loro poetiche. Il motivo “astronomico” o “lunare”, la ricerca di un altro punto di vista, di una distanza spaziale o temporale, la critica anti-antropocentrica, il tentativo di uscire dall’umanesimo tradizionale e dalla chiusa configurazione del cosmo tolemaico, l’interesse per la tradizione del viaggio immaginario, dell’utopia e della fantascienza legano Cancroregina, Levania, Dal balcone e le IX Ecloghe, e non meno interessante sarebbe analizzare Viola di morte e Il tradimento. In queste ultime due raccolte (edite nel 1972 e nel 1977 rispettivamente), Landolfi sembra ammiccare non solo a Leopardi, ma anche ad altri poeti. Un esempio potrebbe essere Affacciati a questo balcone, dove leggiamo:

Affacciati a questo balcone
O tu che vedi infinito
Per ogni finestra.
E cosa scorgerai? – Nulla, piuttosto:
Nidi lontani di luce,
Che non mai forniranno
Altra testimonianza. Con secolare tenacia
Ci siamo inerpicati su per l’aria
Sì da raggiungere infine…
E che, se non un piccolo mondo
Morto, stuprato, calcinato? […][71]

La visione di Landolfi, come detto, è più cupa e disillusa di quella di Solmi o di Zanzotto. Si tratta di scrittori di fatto molto diversi, per certi versi perfino opposti; eppure, seguendo “tracce leopardiche”, percorrono strade non del tutto prive di incroci. Riprendendo Solmi, si potrebbe dire che, per ognuno di loro, Leopardi è il precursore di una fantascienza sui generis, legata a un’illustre tradizione letteraria, ma sempre attenta al proprio tempo. Solmi amava infatti ripetere che

[p]er un paradosso, del resto logico, l’unico scrittore che abbia qualche traccia fantascientifica, fu l’antiromantico Leopardi. Ma Leopardi era un appassionato dei Micromégas di Voltaire[72].

Notes

 

Pour citer cette ressource :

Rosanna Maggiore, "Dal viaggio immaginario alla fantascienza : Landolfi, Solmi, Zanzotto "In una rete di linee che si intersecano"", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2015. Consulté le 20/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/dal-viaggio-immaginario-alla-fantascienza-landolfi-solmi-zanzotto-in-una-rete-di-linee-che-si-intersecano