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Specchi deformanti: riflessioni sul tradurre

Par Franco Nasi : Professeur de Littérature italienne contemporaine - Université de Modène et Reggio Emilia
Publié par Damien Prévost le 24/03/2009

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La traductologie est sans doute un des domaines qui nécessite le plus une approche interdisciplinaire et une méthode qui sache harmoniser les différentes contributions. Franco Nasi, professeur de Littérature italienne contemporaine et traducteur, nous livre ses réflexions sur l'activité de la traduction.
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 Twenty theses on translation
1. Nothing is translatable.
(...)
20. Everything is translatable.
Emily Apter
 
Les miroirs feraient bien de réfléchir un peu
plus avant de renvoyer les images.
Jean Cocteau

1. Sulla riflessione

La riflessione sulla traduzione non è esclusivo territorio d'indagine del linguista. Questa fondamentale attività umana è oggetto oggi dello studio di molteplici discipline, dalla linguistica, certo, all'ermeneutica, alla poetica, alla filosofia, alla storia, ai cultural studies, alla politica, all'etica, ma anche alle scienze informatiche. La traduttologia, come spesso si chiama, è forse uno dei territori che meglio di altri esaltano la necessità di un approccio interdisciplinare, sorvegliato da un metodo che sappia armonizzare in modo produttivo i vari apporti.

Già Berman aveva con grande chiarezza notato come la coppia riflessione-esperienza sia assai più pertinente, almeno in questo campo d'indagine, della coppia teoria-prassi:

La traduttologia: la riflessione della traduzione su se stessa a partire dalla sua natura di esperienza. (...)
La traduttologia, precisamente perché deve essere riflessione ed esperienza, non è una "disciplina" obiettiva, bensì un pensiero-della-traduzione. Essa non interroga certo la traduzione a partire dalla filosofia (come fa ad esempio Derrida), ma si sforza di mettere in luce, esplicitando il sapere inerente all'atto di tradurre, ciò che questo ha in "comune" con l'atto di "filosofare". (Berman 2003: 17, 19)

Un sapere dunque che trae linfa vitale dall'esperienza, che non si dà una volta per tutte, ma che si definisce nel suo intrecciarsi continuo con il fare. Emilio Mattioli negli anni sessanta del secolo scorso si poneva di fronte alla domanda ontologica "che cosa è la traduzione?", una domanda di tipo ontologico, per subito metterla tra parentesi. Mettere una domanda fra parentesi significa "sospendere il giudizio", ovvero rifiutare la formulazione della domanda perché ogni risposta a una domanda impostata in quei termini sarebbe definitoria e definitiva, rigida e parziale, probabilmente più dannosa che utile. Più sensato e proficuo è per Mattioli porsi la domanda: "Come è la traduzione?", in che modo è stata fatta una traduzione e in che modi i traduttori, i teorici della lingua, i filosofi, i teologi ecc. si sono posti di fronte a questa attività dell'uomo. Mattioli, seguendo l'insegnamento di Anceschi e della scuola fenomenologica, che in Italia aveva avuto come "mediatore" principe il filosofo milanese Antonio Banfi, trasforma la domanda ontologica in una domanda fenomenologica; alla ricerca di una definizione chiusa, sistemica, unica, sostituisce il rilievo sulla condizione reale della traduzione nella storia e nelle diverse culture (si vedano Mattioli 1983, 2001, 2009).

Il termine "riflessione" sembra essere particolarmente felice per definire l'attività del traduttologo. Oltre a denotare la lunga e attenta considerazione di un evento, cioè un pensiero su qualcosa, nel linguaggio settoriale del Computer Science sta ad indicare il processo con il quale un programma può osservare ed eventualmente modificare la propria struttura e il proprio comportamento. Il paradigma di programmazione condotto dalla "riflessione" è chiamato Reflective programming. Si tratta di un caso particolare di metaprogrammazione. Di nuovo il termine riflessione come indicatore non di una teoria definitiva che chiude e istituisce rigidamente un modo di procedere, ma un modo di procedere che si autoaggiorna, si modula e trasforma nel suo farsi.

2. Sugli specchi e i ritratti

Anche uno specchio riflette. E si potrebbe partire proprio da una breve considerazione sul modo in cui lo specchio riflette la vita che gli passa davanti per arrivare a parlare in modo un poco più avvertito di quello stato di felice malinconia che accompagna spesso il traduttore nel suo lavoro.

Nei vecchi Luna Park, accanto al castello degli orrori si trovava spesso il labirinto degli specchi. Vi si accedeva attraverso un corridoio dove erano appesi gli specchi deformanti. L'impatto era divertente. Il corpo riflesso diventava basso e rotondo, alto e magrissimo, deforme e sgraziato. Quando poi finalmente si entrava nel labirinto si aveva la strana sensazione di riprendere possesso di se stessi. Anche lì tuttavia si rimaneva sorpresi sia dalla moltiplicazione di sé sia dalle prospettive con cui la propria immagine era restituita dal gioco ubriacante di rifrazione. Erano scorci di sé insoliti, sconosciuti. Di rado ci si vede di profilo o di spalle: sono le parti di noi così familiari agli altri e a noi così estranee. Nel labirinto di specchi non solo si smarrisce la strada, ma si corre il rischio di perdere anche se stessi, o almeno quello che noi siamo soliti figurarci di essere.

In questo mondo di rifrazioni viene in mente il mondo di Timoteo, il protagonista di un racconto di Primo Levi. Timoteo sa bene che gli specchi riflettono, proprio come la mente dell'uomo; ma, si legge nel racconto di Levi:

Gli specchi usuali obbediscono a una legge fisica semplice e inesorabile; riflettono come una mente rigida, ossessa, che pretende di cogliere in sé la realtà del mondo: come se ce ne fosse una sola! (Levi 1997: 894)

Timoteo, fabbricante di specchi e appartenente a una famiglia che da sempre li costruisce, non è soddisfatto degli specchi usuali e decide di costruirne di particolari, deformanti, come quelli all'ingresso del labirinto al Luna Park:

Ingrandivano... impicciolivano, o facevano apparire le cose infinitamente lontane; in alcuni casi ti vedevi allampanato, in altri pingue o basso come Budda (Ivi: 895).

In altri, più sofisticati:

Se il soggetto si guardava senza muoversi, l'immagine mostrava solo lievi deformazioni; se invece si spostava in su e in giù, flettendo un poco le ginocchia o alzandosi in punta di piedi, pancia e petto rifluivano impietosamente verso l'alto o verso il basso (Ivi: 895).

Ma Timoteo non è soddisfatto di questi specchi giocosi e ingenui; vuole costruirne uno ancora più elaborato e sorprendente. L'oggetto, piccolo come quelli da borsetta, viene posto sulla fronte delle persone, ma non riflette la nostra immagine come fa lo specchio usuale. Quello che vediamo è l'immagine che di noi hanno quelli che portano lo specchietto in fronte. Sono gli Spemet, gli "specchi metafisici", che fanno capire a Timoteo non come lui è, ma come le persone lo vedono. Ecco allora che la sua stempiatura diventa totale calvizie nello Spemet della fidanzata che aveva smesso di amarlo; diventa invece una fiera capigliatura con i riccioli ben ravvivati nello Spemet della madre che continua a vederlo come il suo ragazzino quattordicenne; diventa infine una "folta chioma intorno a cui si intravedeva una ghirlanda di lauro" nello Spemet della nuova innamorata Emma. Timoteo naturalmente incorona come propria immagine quella che proviene dallo specchietto più lusinghiero per lui e così ama Emma di un "amore intenso e duraturo" (Ivi: 897).

È chiaro che qui siamo di fronte al punto centrale della disseminazione dell'Io, a una messa alla berlina del concetto di identità, così come già lo raccontava Pirandello in Uno nessuno centomila:

Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico di per se stesse, e uguali, immutabili. Non c'è. C'è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi mi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me. (Pirandello 1973: II, 769)

È forse inutile indugiare su questi aspetti che si ripresentano in molte opere creative e filosofiche del Novecento e oltre. Pirandello, accanto a queste considerazioni sulla molteplicità dell'io, suggerisce un altro problema conseguente: la traduzione. Un io, in questo caso Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno nessuno centomila, si guarda allo specchio, parla a se stesso, ma non s'intende:

Il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto di intenderci, ma non ci siamo intesi affatto. (Ivi: 769)

Anche nel soliloquio di fronte allo specchio sembrano esserci problemi di traduzione.

Se lo Spemet di Timoteo moltiplica l'io, il ritratto pittorico sembrerebbe avere la funzione opposta. Un artista quando dipinge un soggetto cerca di "immortalarlo" in modo che ne risulti una rappresentazione al di fuori del tempo e dello spazio. La persona ritratta è spesso in un non luogo. Non importa tanto quello che fa e dove lo fa. Importa soprattutto chi è, qual è il vero e profondo io che ispira il ritratto: l'unicità, la caratteristica essenziale e identitaria che fa essere quel ritratto la rappresentazione di un io unico e irripetibile. In un ritratto di Napoleone non si vuole vedere l'idea del potere dei generali, ma la forza, il carattere propri di quell'avventuroso stratega. Oggi Napoleone non c'è più, resta però una sua replica nella forma dei ritratti personali. In quei ritratti si ha l'illusione di cogliere un Io identico che ritorna, che si materializza in diverse riproduzioni. Jean-Luc Nancy scrive che

un ritratto, secondo la definizione e la descrizione comuni, è la rappresentazione di una persona considerata di per se stessa. (Nancy 2002: 11)

Per il filosofo francese però la definizione è corretta ma non sufficiente. È necessario porsi il problema, certo non secondario, di che cosa sia la persona o "l'individuo, soggetto, particolare, quidam, qualcuno"; e ancora chiedersi che cos'è la persona di per se stessa; cioè né come personaggio né come personalità, ma di per sé, senza estensione o restrizione. Conclude Nancy, allargando il problema:

Come si può vedere, il semplice proposito di dipingere un ritratto porta con sé la totalità di queste domande, tutta la filosofia del soggetto. (Ivi: 12)

Sia nel caso degli specchi deformanti, del labirinto o dello spemet, che nel caso del ritratto pittorico, il problema è sempre quello dell'oggettivizzazione di un soggetto, della sua rappresentazione, riproduzione, duplicazione. Quando entriamo nel castello degli specchi il mio io si moltiplica, quando osservo i miei ritratti fotografici o pittorici il mio io si moltiplica, l'immagine che di me hanno gli altri mi restituisce un io moltiplicato. Queste moltiplicazioni perturbano l'io, il soggetto, lo rendono equivoco, molteplice nel suo essere sostanzialmente unitario. Il problema allora diventa quello della liceità della pronuncia di una parola come "unità" o "identità". E qui il problema sembra ribaltarsi, tornare su se stesso: come se l'identità si desse solo nella molteplicità. Che cos'è la Nona di Beehtoven se non la molteplicità delle sue esecuzioni? E che cos'è la Bibbia se non la molteplicità delle sue riscritture, interpretazioni, traduzioni. Così come una musica richiede per vivere un esecutore, uno strumento che la trasformi da notazione sulla partitura in suono, allo stesso modo un testo letterario, una poesia, un romanzo hanno bisogno della mediazione di uno strumento (sia esso la pagina o la voce), che renderà alla fine l'opera una replica, una concretizzazione di un'idea, una traduzione di suoni in segni grafici. E ogni replica, ogni moltiplicarsi dell'origine è un modo per riproporre l'identità nella sua variegata e potenziale traduzione.

3. Sull'identità

Jean-Luc Nancy prova a formulare una sua filosofia del soggetto compendiata nel titolo di un suo famoso volume Essere singolare plurale (1996), inserendosi nella tradizione nietzscheiana e nell'epoché che il mondo contemporaneo ha posto sulla definizione dell'ente, dell'essere in quanto essere, per accogliere l'idea che il vero essere è nella circolazione del suo essere senso:

Non c'è senso se il senso non è spartito, e questo non perché ci sarebbe un significato, primo o ultimo, che tutti gli esseri avrebbero in comune, ma perché il senso è esso stesso la spartizione dell'essere (...). Non c'è altro senso, se mi passate l'espressione, che il senso della circolazione - e questa va in tutti i sensi simultaneamente, in ogni senso di ogni spazio-aperto dalla presenza alla presenza. (...) La circolazione precede tutti i sensi: questa è l'idea nietzscheiana dell'"eterno ritorno". L'esistenza è con: oppure niente esiste. (Nancy 1996: 6-8)

Con una serie di immagini molto efficaci Jean-Luc Nancy esemplifica bene la complessità del concetto di essere singolare-plurale, del suo essere in continua circolazione, del suo essere polimorfo e polifonico, del suo essere in quanto singolarità un accesso e non un ente definito:

Noi non accediamo a una cosa o a uno stato, ma a una venuta. Noi accediamo - a un accesso. In questo consiste la "stranezza": ogni singolarità è un altro accesso al mondo (...). Ed è questa la ragione per la quale noi cerchiamo con tanto accanimento d'identificare questi volti, cercando di capire a chi il bimbo rassomigli, e se il morto rassomigli a se medesimo. Quel che noi cerchiamo in questi volti, così come nelle fotografie, non è un'immagine ma un accesso. (Ivi: 23)

Dunque di fronte al corpo senza vita di un amico cerchiamo di ritrovare nei lineamenti del volto disanimato un'espressione che ci faccia pensare a quella persona come se fosse ancora in vita. Ma in quale "stadio" della sua vita? Qual è l'espressione che ci permette di costruire e definire l'identità di quella persona? L'essere per Nancy tuttavia non si dà in un prima definitivo al quale riportare le variazioni accidentali, come se gli accidenti fossero non sostanziali, ma nella compresenza:

Essere singolare plurale vuol dire: l'essenza dell'essere è, ed è soltanto, una co-essenza; ma una co-essenza, o l'essere-con-l'essere-in-tanti-con designa a sua volta l'essenza del co-, o ancor meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza. (Ivi: 46)

Il con non è dunque qualcosa che si aggiunge a posteriori: prima c'è un singolare che viene moltiplicato e poi l'essere di quel singolare si trasforma in plurale e nella nuova essenza. Il con è l'essenza.

Si potrebbe dire che se l'essere è essere-con, nell'essere-con è il 'con' a fare l'essere, e non viene aggiunto all'essere. È come in un potere collegiale: il potere non è esterno ai membri del collegio, né interno a ciascuno di loro, ma consiste nella collegialità in quanto tale. (Ivi: 46)

Questa definizione di Essere singolare plurale sembra sollecitante anche per una riflessione sulla traduzione. Come una riflessione sul ritratto non può prescindere da una seria considerazione della filosofia del soggetto, così ogni considerazione sulla traduzione non può prescindere da una filosofia del testo. Solo una traduttologia che muova da una filosofia del testo, che sia almeno consapevole della problematicità del suo oggetto può intraprendere un cammino che la porterà a com-prendere (nel senso etimologico e problematico di prendere insieme) che cosa avviene quando un testo viene replicato, manipolato, rimesso in circolazione, nel circuito delle idee, indispensabile perché l'umanità continui ad esistere come umanità. L'essenza di un testo sta nella "spartizione", nel "potere collegiale" delle sue apparizioni, del suo essere accesso. Le sue riscritture, traduzioni, parodie, sono l'accedere, il ripresentarsi fenomenico, nello spazio e nel tempo, l'unico nel quale peraltro quell'essere può esistere.

L'insieme co-stituisce il testo e lo risignifica continuamente, proprio perché ogni nuovo accesso è parte della circolazione, della collegialità e del suo quindi essere-con. L'originale non è immobile: paradossalmente è un'origine mutevole. Una certa tradizione ha voluto vedere un testo letterario (pensiamo a un classico come la Divina Comedìa o l'Hamlet di Shakespeare) come un testo tetragono, definitivo: un'origine appunto di ogni altro possibile trasporto, di ogni possibile variazione. Ma un testo, anche classico, vive nella misura in cui rifiuta la propria museificazione, si ribella all'immobilismo: studiare un testo per cercare di meglio com-prenderlo, cercare cioè di dargli un senso, significa considerarlo per quello che è: un essere-con, un essere singolare-plurale.

4. Sulla staticità dell'opera

A chi crede nell'immobilità di un testo originale, al suo essere l'univoca definitiva espressione/intuizione della volontà creativa di un autore, questo modo di affrontare il problema dell'essere e quindi dell'essenza parrà probabilmente verboso, bizzarro e ingiustificato. Per Kundera, ad esempio, in uno scritto dal titolo emblematico - "Questa non è casa sua, mio caro" -, che chiude la raccolta di saggi I testamenti traditi, la minima variazione nell'esecuzione di un'opera musicale sembra assumere l'aspetto dell'atto blasfemo. Nel saggio Kundera racconta della volontà di Stravinskij di registrare, negli ultimi suoi anni, una edizione discografica della propria opera, come a volere lasciare oltre che alle partiture, anche una esecuzione della propria opera "autografa", "approvata dall'autore". Ernest Ansermet, amico di Stravinskij e direttore molto noto, liquida con sarcasmo questo tentativo e descrive il compositore russo alle prese con l'esecuzione delle sue composizioni come uno che "ha paura di cadere", che "non riesce a staccare gli occhi da una partitura che conosce a memoria", che "conta i tempi!" e che interpreta la propria musica "in maniera pedissequa, come se ne fosse schiavo", come "un esecutore privo di qualsiasi gioia" (Kundera 2000: 233). Kundera ricostruisce il rapporto tra i due musicisti e spiega il perché di tanto sarcasmo da parte di Ansermet. Più di venti anni prima Ansermet aveva chiesto il permesso a Stravinskij di tagliare 13 battute in un passaggio nel Jeu de Cartes che avrebbe diretto di lì poco. Stravinskij è inflessibile e risponde che mai avrebbe consentito a una richiesta simile. Ecco alcuni passi della risposta di Stravinskij:

È mai possibile che sia lei a chiedermi di tagliare la mia composizione, rischiando con ogni probabilità di sfigurarla, affinché sia più comprensibile per il pubblico! (...) Non posso consentirle di fare dei tagli in Jeu de cartes; penso che sia meglio non eseguirlo affatto che eseguirlo controvoglia (...). "Questa non è casa sua, mio caro", non le ho mai detto: "Ecco, prenda la mia partitura e ne faccia quel che meglio crede". Le ripeto: o lei esegue Jeu de cartes così com'è o non lo esegue affatto. (cit. in Kundera 2000: 234-5)

È il solito problema della contrapposizione tra autore e esecutore. Fino a quando gli autori sono in vita tendono il più delle volte a porre dei limiti al modo in cui la loro opera è interpretata. Così è nella musica, come il caso di Stravinskij mostra, così è nel teatro (le riflessioni di Pirandello stesso sul rapporto autore, illustratore, attore, traduttore sono illuminanti - si veda Pirandello 2006) così anche nella interpretazione di romanzi (Eco, autore di Opera aperta, dopo il successo del Nome della rosa e anche alla luce delle molteplici interpretazioni che di quel testo sono state date, scrive I limiti dell'interpretazione). Kundera si schiera senza mezzi termini dalla parte di Stravinskij, sia per difenderlo come esecutore, sia, soprattutto per difendere il principio che lo ispira come compositore, e cioè l'organicità e la compiutezza dell'opera. Per Kundera

l'ipotesi stessa di una scelta fra la versione di un creatore e quella del suo correttore (censore, adattatore) è perversa. (Ivi: 237)

Kundera ritiene che gli adattamenti vadano nella direzione di una semplificazione, di un adattamento della complessità dell'opera che può risultare di difficile comprensione per il pubblico. Ma un autore ha il diritto di non voler essere apprezzato se questo va a discapito della profondità o dell'innovazione che vuole sperimentare con la sua opera. Il caso della pubblicazione postuma dell'opera di Kafka, nella quale Brod e gli editori fanno conoscere non solo opere allo stato di semplici tentativi o varianti ma anche lettere private che Kafka non avrebbe certo voluto che fossero rese note, è attentamente raccontato da Kundera e aspramente criticato. Per Kundera ciò che davvero conta (o dovrebbe contare) è l'intenzione dell'autore, dell'individuo:

I tempi moderni hanno fatto dell'uomo, dell'individuo, di un io pensante, il fondamento di ogni cosa. Da questa nuova concezione del mondo nasce anche la concezione dell'opera d'arte. Essa diventa espressione originale di un individuo unico. L'individualismo dei Tempi moderni si realizzava, si affermava nell'arte, in cui trovava la sua espressione, la sua consacrazione, la sua gloria, il suo monumento.
Se l'opera d'arte è emanazione di un individuo e della sua unicità, è logico pensare che questo essere unico, l'autore, possieda tutti i diritti su ciò che da lui esclusivamente emana.
(Ivi: 259)

Con la rivoluzione francese si è finalmente affermato il principio di diritto d'autore. Così oggi Beckett, che in diverse traduzioni delle sue opere ha voluto dare, come Pirandello, chiare indicazioni di regia, o Stravinskij possono rivendicare la propria autorità sulle esecuzioni delle loro opere. Ancora Kundera:

Questo straordinario impegno a dare a un'opera una forma definitiva, totalmente compiuta e controllata dall'autore, non ha precedenti nella Storia. Sembra davvero che Stravinskij e Beckett abbiano voluto proteggere la propria opera non solo dalla diffusa pratica delle deformazioni, ma anche dalla posterità sempre meno disposta a rispettare un testo o una partitura; come per dare un esempio, l'esempio supremo di che cosa sia la concezione più alta dell'autore, quell'autore che esige la realizzazione integrale delle sue volontà. (Ivi: 262)

E questo inno alla volontà dell'autore di Kundera si conclude con una dichiarazione tanto perentoria quanto commovente. I ricordi per Kundera servono non a farci ritrovare la presenza di un defunto, ma soltanto a sottolineare la sua assenza:

Nei ricordi il morto è solo un passato che sbiadisce, che si allontana, ormai inaccessibile.
Ma se non potrò mai considerare morto un essere che mi è caro, come si manifesterà la sua presenza?
Nella sua volontà che io conosco e a cui rimarrò fedele.
(Ivi: 267)

Sembra che qui lo scrittore Kundera cerchi di validare il proprio testamento, la volontà dell'autore di essere recepito, letto o interpretato secondo modalità che lui stesso rende esplicite e che servono a eternare l'opera così come lui l'ha pensata. Ci sono termini però che lasciano non poco perplessi, a cominciare dal concetto di fedeltà, a quelli impliciti di intenzionalità dell'autore o di integrità dell'opera che rimandano a una visione rigida, sacra e immobile dell'opera.

5. Sulla mobilità dei classici

Una risposta parziale e indiretta a Kundera è offerta dalla lettura di un interessante e, per certi versi, provocatorio saggio dello storico della letteratura italiana Marco Santagata sulla nozione di classico e dei classici. Per Santagata

I concetti di autenticità e di identità - o per meglio dire la certificazione filologica di quanto attiene all'identità e all'autenticità originarie - sono estranei alla natura stessa dei classici. (Santagata 2002: 217)

La loro ricezione attuale, la loro stessa identità congloba e assorbe le forme e i travestimenti con le quali e attraverso i quali essi sono stati recepiti lungo i secoli. Il modo in cui un testo classico è fruito oggi, il modo in cui esso vive, continua a vivere, ad essere presente, a incidere come modello di valori, come norma estetica è citazionario, frammentario, antologico oppure mediato attraverso riscritture, traduzioni, adattamenti. I testi classici, così come gli autori classici (e non sono solo quelli greci o latini naturalmente) Sono personaggi senza consistenza. Nomi, oggetti, fatti, eventi, porzioni di testo, frammenti di scrittura: enti senza corpo e senza storia (Ivi: 224). Gli esempi addotti da Santagata sono numerosi e convincenti: della Divina Commedia si conoscono frammenti, citazioni, così singoli episodi permangono nell'immaginario collettivo della tradizione cavalleresca del quattro cinquecento da Boiardo ad Ariosto a Tasso, per non parlare poi di Cervantes o Shakespeare o dei classici greci.

Ad alcuni ciò può sembrare una perdita; in ogni caso, è un segno di vitalità. Un classico è vitale, al punto da sopravvivere alla scomparsa del proprio corpo. Direi di più, un classico è tale grazie alla sua vitalità. (Ivi: 227)

L'idea di un testo che si dà una volta per tutte, che deve essere anatomizzato come un cadavere, che deve essere inteso e interpretato in modi vincolanti e unici definiti essi pure da "istruzioni per l'uso" o, più elegantemente, dal testamento dell'autore, dalle sue "ultime volontà" è forse un'idea ragionevole ma anche, come spesso succede a una ragione astratta e rigida, semplificante e parziale. Un testo, da tradurre, da rappresentare, da interpretare musicalmente ecc., sembra più simile a un essere organico che a una struttura disanimata. La sua identità non è data una volta per tutte, non è qualcosa a cui possiamo tendere in modo più o meno fedele. La sua identità è data dalle sue singolarità, dalle sue co-essenze. La molteplicità del testo nella storia, nel tempo e nello spazio dunque (poiché questa è la sola dimensione in cui esso comunque è), co-stuiscono quel testo che noi vogliamo leggere, interpretare, manipolare; con il quale vogliamo inter-agire. Ogni lettura, ogni traduzione, ogni rappresentazione sarà un modo per ricostruire quel testo, quell'intreccio di modalità espressive che formano un'identità cangiante.

Fare esperienza di un testo nella traduzione non significa semplicemente accontentarsi di costruire un'immagine che rispecchi come gli specchi usuali del fabbricante di Levi un'identità. Non vuol dire applicare a freddo un metodo, un percorso operativo che trasporti da una lingua a un'altra un certo numero di informazioni e renda quelle informazioni comprensibili a un lettore che non conosca la lingua del testo originale. Significa piuttosto entrare a far parte di un complesso caleidoscopio in cui ciascuna rifrazione, ciascuna immagine va a co-struire e co-stituire l'identità di quel testo originario. Va da sé che quel testo non è solo pluralità. Il tessuto, l'intreccio di frasi, parole, ritmi, fonemi, ambiguità lasciate intenzionalmente dall'autore o nate dai movimenti del linguaggio, dai mutamenti dei significati dei termini nella storia, non sono qualcosa che si annulla nella complessità delle riproduzioni. Il testo originario, per quanto in movimento, assai più dell'intenzione dell'autore, deve restare come testo da ammirare, da guardare con attenzione, a cui ritornare con pudore e umiltà. Se quell'iniziale tessuto si è rimodulato, se ha richiesto di essere tenuto in vita, se ha preteso di essere sfidata dall'esegeta, dal chiosatore, dal traduttore, dal critico ecc. è perché è una sorta di miracolo, una cosa appunto degna di essere ammirata, con stupore e meraviglia.

6. Malattie e miracoli

L'esperienza della traduzione non è applicazione di metodi, ma, semmai, un Reflecting programming: traducendo si impara a tradurre; traducendo si trasformano le nostre conoscenze e le nostre convinzioni più sicure su quest'arte. Berman, riprendendo e trasformando a suo uso una bella riflessione di Heidegger sull'espressione idiomatica tedesca "fare una malattia", parla dell'esperienza della traduzione come attraversamento di una malattia. Scrive Heidegger nel saggio In cammino verso il linguaggio:

Fare un'esperienza con quel che sia [...] vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga, ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro. In questa espressione, "fare" non significa, appunto, che noi siamo gli operatori dell'esperienza; fare vuol dire, come nella locuzione "fare una malattia", passare attraverso, soffrire da cima a fondo, sopportare, accogliere ciò che ci raggiunge sottomettendoci a lui... (cit. in Berman 2003: 15)

Si entra in competizione con il testo da tradurre. È una competizione lacerante e faticosa, che muove da un duro lavoro sul testo, e continua con un duro lavoro con il nuovo testo; è una sfida che trasforma così come la malattia ci trasforma, nella pelle, nelle ossa e nei nostri modi di parlare e di scrivere. Quando il testo con cui si entra in lotta ha esso stesso lottato strenuamente con la lingua e la cultura in cui è nato, così come è successo ai testi che si sono poi imposti come nuovi modelli letterari, come capo-lavori, nuovi testi canonici che avevano vinto la loro battaglia con i padri illustri, allora il compito del traduttore sarà doppiamente difficile. Se le opere letterarie, scriveva Catherine Pozzi a Paulhan a proposito del suo tentativo di tradurre le liriche di George, sono dei miracoli, le traduzioni sono dei sovramiracoli.

Il y a dans la poèsie un nombre de conditions à remplir tel, que certaines oeuvres sont des miracles (Nous les avons tous présentes à l'esprit). Transposer, en observant les conditions originales, serait accomplir des sur-miracles: par exemple, conserver les relations musique-signification en se retirant la liberté du choix. Rilke, parfois, a réussi l'improbable. (Pozzi 1999: 102)

Ancora più esplicito è Ortega Y Gasset in Miseria e splendore della traduzione quando ci ricorda come una semplice traduzione che si adegui ai modelli linguistici e stilistici in voga nella lingua di arrivo raramente rende giustizia a un testo che ha fatto proprio della evasione dalla norma, del contravvenire alle modalità solite del dire una dei suoi principali motivi di essere:

Scrivere bene consiste nel far continuamente piccole erosioni alla grammatica, all'uso stabilito, alla norma vigente della lingua. È un atto di ribellione permanente contro il contorno sociale, una sovversione. Scrivere bene implica una certa radicale intrepidezza. Orbene; il traduttore suol essere un personaggio dimesso. Per timidezza ha scelto quel mestiere, quello minimo. Si trova di fronte all'enorme apparato poliziesco che sono la grammatiche e l'uso bruto. Che cosa farà con il testo ribelle? Non è chiedergli troppo che lo sia anche lui e per conto di un altro? Vincerà in lui la pusillanimità, e invece di contravvenire i bandi grammaticali farà tutto il contrario: ficcherà lo scrittore tradotto nella prigione del linguaggio normale, vale a dire, lo tradirà. "Traduttore, traditore". (Ortega y Gasset 2001: 30-31)

Il vero traditore per Ortega y Gasset è dunque colui che si sottrae alla lotta, che si adegua alla norma, che non accetta di forzare la propria lingua o lo stile imperante in un certo periodo. Colui che si adagia all'uso del traduttese, che non si pone il problema della complessità e della stratificazione di ciascuna opera letteraria o artistica, ma si limita a considerarla come un semplice portatore di senso, di significato, di mero messaggio da trasmettere, dopo una sorta di contrattazione, in un'altra lingua, questo sarà per Ortega y Gasset un traduttore inaccettabile.

7. Reversibilità e "terzo uomo"

Con le analogie di traduzione come malattia e sovra-miracolo siamo molto lontani dall'idea che una traduzione sia una attività rigida il cui criterio di validazione potrebbe consistere nella sua doppia direzionalità, vale a dire: se un testo (1) viene tradotto da una lingua A ad una lingua B diventando un nuovo testo (2), per verificare se la traduzione è stata eseguita in modo corretto potrebbe essere sufficiente vedere se il testo 2 ritradotto nella lingua A torna ad essere il testo 1. Un siffatto modello di verifica potrebbe funzionare per un linguaggio (se mai esiste) denotativo e non ambiguo. Di certo i risultati sono deludenti se il testo è figurato, ambiguo, ritmico, connotativo (come capita spesso ai testi poetici, ma più in generale alla maggior parte dei testi), e ancor più se le lingue (A e B) e le culture in cui quei testi si significano sono cronologicamente lontane. Se traduco un sonetto di Petrarca in inglese e poi lo ritraduco in italiano, per quanto le competenze del traduttore possano essere solidissime sull'italiano del trecento e sulle caratteristiche prosodiche della letteratura volgare, oltre che sull'inglese, è improbabile che il testo di ritorno coincida con quello scritto da Petrarca. Per Umberto Eco, che considera il principio di reversibilità della traduzione un criterio sostanzialmente utile e "ispirato dal buon senso" (Eco 2003: 58),

la reversibilità non è misura binaria (o c'è o non c'è) ma materia di gradazioni infinitesimali. Si va da una reversibilità massima come quando John loves Lucy diventa John ama Lucy, a una reversibilità minima. (Ivi: 67)

L'esempio riportato per il secondo estremo della gradazione è la scena iniziale del film di Pinocchio di Disney del tutto inesistente nel romanzo di Collodi. Certo, il buon senso è sempre un'ottima guida, ma a volte è ingannevole. Credo che si possano avanzare dubbi proprio a partire dall'esempio di "massima reversibilità" suggerito da Eco, un esempio che peraltro enfatizza l'approccio rigidamente semiotico che Eco elabora nel suo libro dal bel titolo Dire quasi la stessa cosa. C'è il problema dei nomi. Lucy non è Lucia e John non è Giovanni, ma il traduttore si può porre la domanda se tradurre o meno i nomi che non sono certamente senza significato. Oggi forse la maggior parte dei traduttori lascerebbe i nomi originali, ma questo non avveniva nei secoli scorsi quando erano tradotti a volte con equivalenti semantici, a volte con equivalenti fonetici (Francis Bacon diventa Francesco Bacone mentre William the Conqueror è Guglielmo il conquistatore). Tradurre o non tradurre un nome non è ininfluente sia per i ritmi e le tensioni fonetiche interne sia per ciò che quel nome porta con sé: immagino che per molti lettori di una certa generazione Lucia rimandi immediatamente a Manzoni e a Renzo mentre Lucy abbia a che fare con il cielo, i diamanti e i Beatles, e quando si ascolta un discorso, qualunque esso sia, queste associazioni entrano in gioco, fanno parte del gioco dei significati. Lo stesso verbo to love è poi molto complesso da tradurre: to love in italiano può diventare legittimamente 'amare' o 'voler bene'. Non è necessario spiegarne la differenza. In una traduzione, basata questa sì sul buon senso, probabilmente to love diventerebbe voler bene se John e Lucy fossero fratello e sorella, a meno di non voler fare una traduzione ingessata alle consuetudini delle grammatiche scolastiche. La lingua italiana permette inoltre di posizionare soggetto e complemento anche in modo anomalo rispetto all'inglese. Potenzialmente la frase italiana di Eco potrebbe essere letta come "Lucia ama proprio Giovanni", cosa che in inglese sarebbe impensabile con questa successione. Alfredo Giuliani in una sua famosa poesia intitolata Poema Chomsky mostra benissimo come partendo da frasi prive di coerenza sintattica in inglese si possa invece in italiano giocare poeticamente creando frasi grammaticalmente coese e coerenti ed emotivamente sorprendenti. In esergo Giuliani riporta una citazione di Chomsky da Syntactic Structures:

Le frasi (1) e (2) sono entrambe dei nonsensi, ma qualunque parlante inglese riconoscerà che solo la prima è grammaticale:
(1) colorless green ideas sleep furiously.
(2) furiously sleep ideas green colorless.

Partendo da questa citazione Giuliani mostra come in italiano i due nonsensi di cui uno solo grammaticale possano diventare sensatissimi versi di una poesia:

senza colore idee verdi dormono furiosamente
furiosamente dormono idee senza colore verdi
senza colore dormono idee furiosamente verdi
furiosamente dormono verdi idee senza colore
supponiamo che il mondo non sia verde bello
o senza da nubi roventi nevi piovono sulfuree
(...) (Giuliani 1986: 193)

Eco continua nella sua disamina della reversibilità come criterio di validazione della traduzione dando per acquisiti luoghi comuni che così comuni non sono nel dibattito attuale sulla traduzione:

Un ragionevole principio di reversibilità vorrebbe che i modi di dire e le frasi idiomatiche venissero tradotte non letteralmente, bensì scegliendo l'equivalente nella lingua d'arrivo. (Eco 2003: 68)

In questo passo sono usati termini carichi di implicazioni e che la traduttologia recente ha soppesato con attenzione, a partire da "traduzione letterale", che per Berman non vuole affatto dire traduzione parola per parola, ma neppure traduzione di espressione idiomatica con una equivalente espressione idiomatica (Berman 2003: 13 sgg.), per passare poi alla complessa descrizione del termine "equivalenza", utilizzato come criterio guida da Nida (Equivalenza dinamica), ma ripetutamente contestato da Meschonnic, oppure allo stesso problema della traduzione dei modi di dire, delle frasi idiomatiche, la cui scomparsa o completo addomesticamento sono segno anche di annullamento completo della cultura dell'altro, e qui la lezione di Ricoeur può essere molto utile sia per la sua definizione di traduzione come "ospitalità linguistica" fondata su un "intrascendibile statuto di dialogicità dell'atto del tradurre", sia per una risposta indiretta, ma ci pare assai convincente, alla pretesa della reversibilità come criterio di verifica. Per Ricoeur

non esiste un criterio assoluto di ciò che sarebbe la buona traduzione. Questo criterio assoluto sarebbe il senso stesso, scritto da qualche parte, tra il testo di origine e il testo di arrivo (Ricoeur 2008: 19)

Per dimostrare la non esistenza di un senso stesso (il "certo senso" di cui parla Eco) Ricoeur fa ricorso all'argomentazione del terzo uomo platonico. Platone nel Parmenide, dialogo della maturità, torna sul rapporto idee cose e mette in evidenza alcuni problemi presenti nella sua precedente filosofia. Se l'idea di uomo è essa stessa un uomo, anzi, si potrebbe dire che è l'uomo per eccellenza, come possiamo stabilire che i singoli uomini che incontriamo nel mondo sono copie di quell'Uomo ideale? Evidentemente l'Uomo ideale e gli uomini concreti dovranno avere un elemento in comune. Questo elemento in comune sarà un terzo uomo, che garantisce, in un certo senso, che l'uomo ideale e gli uomini sensibili siano uomini, partecipino cioè della stessa idea. Si tratterà poi di dimostrare che anche questo terzo uomo partecipa dell'idea di uomo. Si avrà quindi un quarto uomo e così via. Se si trasferisce questo ragionamento al rapporto fra il testo fonte e le sue traduzioni si può vedere come, ragionando in questi termini, si rimanga ingabbiati in uno sterile tentativo di riduzione del testo a un'essenza ideale, a una mera questione di "senso". Scrive Ricoeur:

Il dilemma è il seguente: i due testi - quello di partenza e quello di arrivo - dovrebbero, in una buona traduzione, essere misurati da un terzo testo inesistente. Il problema è effettivamente dire la stessa cosa o pretendere di dire la stessa cosa in due modi diversi. Ma questo stesso, questo identico, non è dato da nessuna parte come terzo testo il cui statuto sarebbe quello del terzo uomo nel Parmenide di Platone, terzo tra l'idea di uomo e gli esemplari umani che si suppone partecipino all'idea vera e reale. Nell'assenza di questo terzo testo, in cui risiederebbe il senso stesso, l'identico semantico, non resta che il ricorso alla lettura critica di qualche specialista se non poliglotta quanto meno bilingue. Questa lettura critica equivale a una ritraduzione privata, tramite la quale il nostro lettore competente rifà per proprio conto il lavoro di traduzione, assumendo a sua volta la prova della traduzione e confrontandosi con lo stesso paradosso di un'equivalenza senza adeguazione. (Ricoeur 2008: 53)

In uno studio precedente ho fatto ricorso alla figura di Sisifo per parlare del traduttore (Nasi 2004: 9-13). Nel mito greco l’astuto Sisifo cerca ripetutamente di ingannare le divinità dell’Ade che erano andati a prenderlo per il “trasporto finale”. Sisifo vuole restare in vita e con l’astuzia, con le sue capacità discorsive, riesce a ingannare gli dei. Per un poco almeno. Poi la sua ora finale scocca. Così come per tutti. E la punizione eterna per la sua presunzione è di compiere inutilmente una fatica disumana: spingere un masso su per la montagna per vederlo poi rotolare a valle. Ma, dice Camus nel suo studio sul mito greco,

Sisifo è l’eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra”…“In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno. Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente”… “Bisogna immaginare Sisifo felice.” (Camus 1980: 121)

Il traduttore sa bene che il suo compito è impossibile, ma sa anche che è necessario. Da qui la sua malinconia, ma anche la sua felicità. Il traduttore non è uno dei tanti specchi che restituiscono approssimativamente di volta in volta un Uno, ma è uno dei tanti specchi che lo costituiscono. Ogni traduzione è provvisoria, così come sono provvisorie le vite degli autori e dei traduttori. Tenere in vita un dialogo, una conversazione con un altro che altrimenti sarebbe in-comprensibile e inafferrabile è il compito primo del traduttore, è il suo solo modo, umile e pudico - come direbbe Franco Fortini (1993) traducendo il Carpe diem di Orazio - di “ridere al giorno".

Testi citati

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Pour citer cette ressource :

Franco Nasi, "Specchi deformanti: riflessioni sul tradurre", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mars 2009. Consulté le 07/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/langue/la-traduction/specchi-deformanti-riflessioni-sul-tradurre