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Entretien avec Paola Nava

Par Paola Nava : Storica e ricercatrice, Maurizia Morini : Lectrice d'italien MAE et historienne - ENS de Lyon, Michele Gulina : Professeur agrégé
Publié par Damien Prévost le 20/05/2007

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Paola Nava ha 60 anni, vive a Modena, è storica e lavora nel campo della ricerca sociologica.
- Iniziamo dagli anni Settanta, vorrei chiederti come hai incontrato altre donne?

È necessaria una premessa individuale e teorica sulla nascita del femminismo degli anni settanta: a mio avviso il femminismo nasce come movimento visibile anche perché preceduto dal movimento del 68, e questo non solo in Italia, che ha preparato un terreno più facile per il movimento delle donne. C'è invece chi sostiene che il movimento ha seguito percorsi propri a partire dai primi anni del novecento.

Io credo che l'espansione del movimento femminista sia legata al fatto che molte donne facessero politica nelle scuole, donne che, all'inizio, erano donne intellettuali. La mia storia è di giovane borghese che viaggia, a Londra a Parigi; mi sono laureata nel giugno del '69 a Bologna. Ho fatto parte del movimento studentesco, leggevo giornali inglesi e ne riferivo nelle assemblee. Appena laureata ho insegnato e ho trovato nelle scuole donne che facevano parte del movimento e mi sono avvicinata al Comitato di base degli insegnanti a Modena. A Modena ho trovato donne che avevano iniziato ad andare a riunioni femministe, siamo nel 1971/ 72, facevano parte del Salario per il lavoro domestico, nato a Padova e a Ferrara. Sarà uno dei gruppi più forti in Italia e in Emilia, rivendicava il diritto al riconoscimento salariato del lavoro domestico. Si vede in questo tipo di analisi la derivazione politica da Marx, salario per la produzione delle merci, in questo caso produzione e riproduzione di forza lavoro. Mi avvicino ma non mi convince del tutto; piuttosto mi avvicino ad altre amiche che facevano riferimento al Manifesto e ad un gruppo milanese, quello che sarà la Libreria delle donne, filone di ricerca di identità a partire dall'autocoscienza.

Gruppi che si trovano, lavorano in piccole aggregazioni su se stesse, a partire dal rapporto con la madre, con gli uomini, ma seguono poi un altro metodo nelle battaglie grosse perché eravamo tutte insieme nelle piazze, alle manifestazioni, ecc. Ricordo bene la manifestazione sul divorzio, grosso legame tra tutti i gruppi femministi ma anche con UDI, associazione di donne legata al PCI, e con il Partito radicale che si occupavano di diritti civili e dell'aborto. All'interno del discorso sull' aborto vi era la conoscenza del proprio corpo. In questo un grosso esempio veniva dalle femministe  americane, abbiamo letto tutte Noi e il nostro corpo((The Boston Women's Health Book Collective, Noi e il nostro corpo, Feltrinelli, 1974)), vera rottura rispetto alla tradizione precedente: si parlava di maternità scelta, di sessualità.

- Costituiti questi gruppi come è proseguita la tua militanza?

Nel 73 e 74, parlando di sessualità e di aborto, noi ci autodenunciammo per aborto procurato; mandavano le donne ad abortire in Inghilterra tramite il centro radicale di Firenze, le aiutavamo.

In quegli anni ho perso le mie amicizie precedenti  perché con la partecipazione al femminismo mi hanno escluso, anche perché nel frattempo mi ero separata e questo non era cosa abituale, aveva un po' scioccato l'ambiente; e ho fatto nuove amicizie nel collettivo e tra le donne. Nel frattempo, da altre parti in Italia nascevano i collettivi di Lotta continua; non tanto in Emilia, dove erano forti i gruppi del Salario e gruppi di autocoscienza.

La svolta vera del femminismo e della mia storia è il 1975/77: da una parte il terrorismo, la  strategia della tensione, le bombe, un attacco alla democrazia; dall'altro si ingrossano le fila di chi ha paura, io non ero mai voluta entrare nelle istituzioni ma decido di farlo per difendere la democrazia ed entro nella CGIL, so che alcuni amici mi hanno considerata una traditrice. Sono anche gli anni in cui il femminismo si espande, si diffonde e anche l'UDI si apre, cominciamo a fare manifestazioni insieme, soprattutto per la legge sull'aborto.

Fino al 76 il femminismo è stato d'elite poi grande apertura.

- Ritieni si possa parlare di una specificità del femminismo emiliano?

In Emilia ci sono caratteristiche particolari, legame con UDI, penetrazione nel sindacato, tante donne, e, dalla metà degli anni settanta, si apre al movimento delle donne anche parte del movimento operaio, anche il PCI e il PSI si aprono. Cominciano le battaglie per il lavoro e alla Fiat di Modena, fabbrica simbolo per la presenza esclusivamente maschile, si fanno assemblee per assunzione di donne; io entro in Fiat per fare assemblee sul femminismo.

Ma la specificità vera è che l'apertura al femminismo porta a esperienza di laboratorio politico: questo significa istituzionalizzare le lotte, anche con scontri conseguenti con il movimento. È il caso dei consultori, nati dal basso ma poi espropriati pian piano dalla partecipazione e medicalizzati .

La regione si è appropriata delle lotte delle donne, del privato delle donne e ne ha fatto legge; ma era difficile gestire la contraddizione. Faccio un esempio: io ero contraria ad una legge sull'aborto, perché legiferare sul mio corpo non mi andava ma nello stesso tempo una legge ha permesso a tanta donne di scegliere, anche  nei consultori vi era educazione alla contraccezione, alla sessualità.

Voglio raccontare un altro episodio tipico di come verso la fine degli anni settanta il clima stava mutando: nel 77 vado a Bologna e partecipo al movimento con mia figlia piccola in piazza e ci sono gli indiani metropolitani, l'ala creativa, poi una seconda volta ritorno a Bologna con i collettivi femministi tutti presenti  per una riunione ma chi prevale è ormai Autonomia operaia alle cui tesi il femminismo si dimostra  incapace di reagire. Ce ne andiamo in silenzio, per me lì finisce il femminismo dei collettivi.

- Nel 77 avvengono altri tipi di aggregazioni.

Nel 77 nasce l'Intercategoriale donne nel sindacato, incontro Maria Merelli, che era fra le organizzatrici delle 150 ore, periodo riconosciuto ai lavoratori come diritto allo studio. Per me sono state dirompenti perché c'erano le operaie, si parlava di riappropriazione del proprio corpo e ricordo donne che piangevano nel raccontare rapporti di violenza col marito compagno di sinistra. Per me è stato un confronto duro, mi ha messo in crisi, ero di fronte ad esperienze differenti. Io poi lavoro nel sindacato con l'Intercategoriale, ormai c'è diffusione di gruppi di donne autonome nel sindacato, ricordo una riunione alla FLM che difendeva le donne nel sindacato e viene il segretario della CGIL, meno aperto, che, sconvolto da un centinaio di donne, non poteva dire niente e poi, però, mi ha sostituito appena ha potuto.

Vi erano tanti gruppi di donne in Italia nel sindacato, mentre il femminismo si riduceva a piccoli gruppi, si fa ancora autocoscienza ma è ormai senza storia femminista alle spalle e soprattutto senza competenze di contenimento del conflitto; e ci si fa del male, non riusciamo a trattenere il parlare, si rischia di sconfinare nella psicoanalisi selvaggia.

A Roma nasce un gruppo di donne storiche che danno origine alla rivista Memoria, di cui faccio parte, a Milano continua l'esperienza della Libreria delle donne.

Rimango nel sindacato e nel 79 per me si apre una svolta, incontro donne che condividono l'obiettivo di combinare esperienza professionale e politica, ci vediamo e ci troviamo, si decide di fare una Cooperativa, mi muovo con la Lega Coop a Modena che non capisce perché un gruppo di sole donne, ma poi ci aiuta e nell'80 nasce la Coop di studio e ricerca Lenove.

- Si può dire un tipo di esperienza con le donne.

Siamo un gruppo eterogeneo fra Ferrara, Bologna, Modena, Reggio con provenienze diverse e con idee diverse. Per alcune la Coop è solo luogo per parlare, per altre luogo di lavoro.

Il primo lavoro è un libro sulle 150 ore e si verifica il primo scontro, una di noi se ne va, primo sintomo visibile di diversità, forse per alcune il soggetto Coop è prioritario mentre per altre lo è l'individualità. Man mano altre se ne escono per motivi diversi.

La Coop ha il punto di forza in quattro persone, c'è solidità e coesione, ci si ritrova nel metodo di lavoro, e nel fare politica, vi è crescita individuale e collettiva, e visibilità pubblica.

In un secondo grosso lavoro davvero mi confronto con le altre; si tratta di una ricerca sulla contraccezione, commissionata dalla Regione Emilia Romagna, ha a che fare con la politica, è una ricerca intervento, con ricadute sulle politiche dei consultori. Miglioriamo il nostro metodo di lavoro: si studiano i manuali di sociologia, si va ai convegni e si affinano gli strumenti metodologici, fra di noi vi è sostanziale omogeneità, non c'è chi prevarica. Lo studio avviene anche partendo da sé e si scopre come le donne non hanno una unica contraccezione ma adottano una strategia contraccettiva che significa una strategia di maternità. Ci troviamo in filoni di ricerca di altri paesi, come quello francese dell'attore di Crozier, vediamo un percorso metodologico comune.

Ci diamo da fare per apprendere sul piano statistico, con limiti a mio avviso enormi, e questo, io penso, sarà poi una causa delle nostre difficoltà successive.

- Quali altre ricerche avete svolto?

Parecchie, sull'aborto, il figlio unico, altre ricerche fino alla fine degli anni Ottanta.

Le ricerche vanno bene, sul mercato siamo visibili, ci chiamano per lavorare e nell'89 iniziamo un secondo filone della nostra ricerca: quello dei tempi, tempi di vita delle donne e delle città. Il Comune di Reggio Emilia ci commissiona il primo lavoro sulla cura degli anziani, già allora emergevano filoni di indagine interessanti. Poi è la volta di Modena, è il 90, la sindaca donna ci affida una ricerca sui tempi di vita delle donne  ma non vengono messi in pratica i risultati della ricerca. Gli orari rimangono rigidi, non flessibili.

Anche Roma si muove sui tempi,  la Toscana ci chiama, Novara, Venezia, e tante altre città e paesi. Otteniamo con questi lavori grande visibilità, a tal punto che in seguito a livello nazionale Livia Turco e altre fecero un progetto di legge sui tempi che coniugava ricerca e politica e ci invitarono alla discussione.

In sintesi, il successo del lavoro cooperativo è dalla metà degli anni ottanta ed è durato allo stesso livello per  più di dieci anni. Abbiamo allora anche un notevole riconoscimento economico, mentre prima siamo sopravvissute perché avevamo tutte un altro lavoro.

I primi sintomi di crisi sono alla fine degli anni 90, pensiamo scelte diverse, io penso che vada affrontato il mercato, ma non tutte sono d'accordo. Penso due cose di allora: che noi eravamo deboli soprattutto sul versante statistico e anche per questo non abbiamo sfondato nel confronto con altri più innovativi; che abbiamo avuto paura ma anche che non abbiamo avuto voglia di creare un'impresa vera; che eravamo meno protette di quelle che stavano nelle università. Ma anche che i sindaci con i nostri risultati delle ricerche sui tempi non hanno fatto niente o poco e il filone tempi ha ceduto per debolezza politica.

- Ritornando ad una tua affermazione  quando hai parlato di apertura dell' UDI, cosa intendevi?

L'UDI era per l'emancipazione, il femminismo per la liberazione. Per l'UDI tutto è sociale, pensa agli asili, agli anziani  non parlava del soggetto donna, di sessualità. Arrivava a dire dopo la fine del secondo conflitto bellico che le donne dovevano tornare a casa per lasciare il lavoro agli uomini, e guai ad esempio a parlare di donne che soffrono nel rapporto di coppia. Le donne dell'UDI  vanno poi in crisi  negli anni Settanta e diciamo si sciolgono nel movimento.

- E quando si sviluppa la lotta armata che rapporto c'è con il femminismo?

Il femminismo si oppone ma è la fine e non si ricompone niente, non ci sono più gli spazi pubblici, nelle piazze si ha paura. Molte si rinchiudono nei piccoli gruppi.

- Nei primi anni del femminismo qual era la giustificazione per stare solo fra donne?

Gruppi di donne socialiste e radicali già c'erano, nei primi anni 70 si dice che le ragazze anche nel movimento studentesco facevano l'angelo del ciclostile, ma per me non era del tutto vero, anche noi parlavamo, prendevamo la parola anche se, in generale, i capi erano i maschi. Il femminismo è stato una vera rivoluzione, si scardinava la famiglia, tutto, la vita delle donne e degli uomini, si è spaccato tutto. Forse c'erano eccessi, ma molto si è conquistato a livello individuale e collettivo.

- Che giudizio ne dai oggi?

È stata una vera rivoluzione che ha modificato la vita di donne e uomini ma non accettata completamente a livello sociale. Si sono comunque fatti passi avanti da gigante, fra le generazioni delle nostre madri, noi e le nostre figlie.

 

Pour citer cette ressource :

Paola Nava, Maurizia Morini, Michele Gulina, Entretien avec Paola Nava, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mai 2007. Consulté le 22/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-des-femmes/entretien-avec-paola-nava