Giangiulio Ambrosini, «Articolo 416 bis»
Giangiulio Ambrosini, torinese, è magistrato presso la Corte di Cassazione. Autore di saggi giuridici pubblicati presso UTET, di analisi su temi temi istituzionali (Il codice del nuovo processo, Einaudi, Torino 1990; Referendum, Bollati Boringhieri, Torino 1993), e di un fortunato volumetto pubblicato da Einaudi nel 2005, dal titolo La costituzione spiegata a mia figlia.
L'articolo 416 bis, introdotto nel Codice Penale italiano nel 1982, definisce il "concorso esterno in associazione di stampo mafioso": si applica a chi, pur non essendo affiliato all'organizzazione, ne favorisce consapevolmente le attività.
Questa è l'accusa che pesa sul protagonista-narratore del libro, professore universitario senza nome, in un'imprecisata città italiana, implicato in una vicenda ambigua e kafkiana, che sfocia in un processo di cui non conosceremo mai l'esito.
La struttura del libro, del resto, segue le fasi del processo penale, e i titoli dei capitoli corrispondono ai vari momenti processuali: i fatti, l'accusa, la difesa, l'interrogatorio, l'udienza preliminare, il processo, la requisitoria, l'arringa difensiva, la sentenza.
Una serie di avvenimenti ed incontri più o meno casuali, una serie di varie circostanze fortuite, di "fatti" che possono essere interpretati in sensi opposti. Un piccolo incidente, l'incontro con uno sconosciuto gentile e distinto che gli offre un passaggio ed un pranzo. Il protagonista narratore telefona al benefattore per ringraziare e sdebitarsi, invitandolo a cena a casa sua, ed è invece invitato, a sua volta, a una festa. Ci va con un'amica un po'' svagata e si trova invischiato in una serie di avvenimenti per lui inspiegabili: il sequestro del suo cellulare da parte di "gorilla" che lo prendono per un poliziotto infiltrato, una retata della polizia, la sua auto rovesciata in un fosso, l'appartamento messo a soqquadro e poi inspiegabilmente rimesso a nuovo, un intervento ambiguo ad un convegno, telefonate intimidatorie, raccomandazioni e corruzione nell'Ateneo, l'assassinio di un collega.
Il protagonista riceve, a questo punto, un avviso di garanzia, che legge "affannosamente", sorreggendosi per non cadere: viene accusato di aver fatto fallire un blitz della polizia in una villa in cui erano radunati mafiosi, viene accusato di un traffico di esami comprati da studenti fuoricorso e di tesi copiate, viene accusato, sostanzialmente, di "concorso esterno in associazione di stampo mafioso", articolo 416 bis del Codice Penale.
Segue, a questo punto, la ricerca di un difensore. Un avvocato amico, lontano dalla città. L'avvocato si fa raccontare i fatti, di cui si sente, qui, la versione del protagonista: ha visto e parlato con sconosciuti, ha ricevuto intimidazioni, conosce forse persone implicate in azioni mafiose, è andato per caso alla festa, non sapeva di chi fosse la casa. L'avvocato pare insoddisfatto, chiede un memoriale preciso, con dettagli, nomi, situazioni.
Il capitolo dedicato all'interrogatorio è, forse, il più riuscito dal punto di vista della scrittura e uno dei capitoli chiave del libro. È qui, infatti, che l'ambiguità delle situazioni si rivela in maniera più chiara ed evidente: gli equivoci sono numerosi, il Pubblico Ministero accusa duramente il protagonista, che non riesce a sostenere la propria versione dei fatti, davanti a un avvocato difensore esterrefatto, infuriato perché crede che il cliente gli abbia nascosto dettagli importanti e che finisce per accettarne comunque la difesa, nonostante i dubbi, che ormai affiorano anche in lui, sull'onestà del protagonista. Il dialogo a due, tra il Pubblico Ministero e l'imputato, procede con ritmo serrato e modi sempre più incalzanti, fino alle ultime battute che rendono conto della richiesta di un processo pubblico, da parte del professore, "per proclamare a chiare lettere / la mia innocenza / la mia estraneità alla mafia".
L'ambiguità sembra essere la chiave di lettura di questo libro. A partire dai fatti narrati, le conclusioni possono essere plurime e, soprattutto, contraddittorie. La presenza del protagonista alla festa, ad esempio: i mafiosi pensano che sia una spia; il giudice, invece, pensa che abbia contribuito al fallimento dell'intervento della polizia. La lezione tenuta dal protagonista al convegno sulla forza intimidatrice della mafia, che gli vale applausi tiepidi e perplessi degli spettatori, accuse di posizioni ambigue da parte di colleghi e, per contro, calorosi complimenti da parte di un tizio in odore di mafia.
La vicenda termina restando in sospeso su un finale aperto, sulle parole "In nome del popolo italiano..." pronunciate dal presidente della corte prima di leggere la sentenza. Sentenza che il lettore non conoscerà mai: il libro, di fatto, si chiude senza una vera conclusione, lasciando la vicenda in sospeso e prolungando l'angoscia che va aumentando dall'inizio alla fine di questa novella esemplare.
Il ritmo è incalzante, anche grazie all'espediente del fast-reading: una scrittura essenziale, che elimina totalmente la punteggiatura, fatta di frasi brevi e sovrapposte. Il lettore non può essere passivo, per poter seguire lo svolgimento della narrazione: deve ricostruire i nessi delle frasi, riconoscere il racconto e situarlo nei tempi e nei luoghi, deve individuare i personaggi che parlano, le poche descrizioni, i pensieri, le parole pronunciate.
Troviamo, infatti, nella narrazione incalzante, anche alcuni dialoghi. L'autore marca i turni delle battute, delle repliche, delle domande e risposte, attraverso i verbi che introducono vari tipi di discorso ("chiedo; dice; interrompe; obietta; insiste", eccetera), ma anche usando in maniera molto precisa i tempi verbali.
I fatti sono esposti con l'indicativo (presente, passato o futuro) così come le didascalie implicite e le asserzioni:
si tacciono i nomi / con studenti fuori corso / compravano gli esami / avevano fatto dell'università / una centrale mafiosa / facevano il bello e il cattivo tempo [...] / qualcuno si era laureato / copiando la tesi / con il consenso di docenti senza scrupoli [...] / sarò per tutti colpevole / bollato come mafioso.
Il condizionale detto "di citazione" serve, invece, a rendere conto dello spostamento di punti di vista:
il commissario ha fatto fallire l'operazione (fatto, ndr) / perché io l'avrei fatto intervenire (punto di vista del pubblico ministero, ndr) [...] / dovevo andare ad un convegno / non è una ragione plausibile / dovevo tenere una relazione importante / in cui avrei fatto affermazioni ambigue [...] / comunque avrei promosso quelli di una certa lista / per me gli studenti erano preparati [...]
La lingua di Ambrosini è semplice, non presenta tecnicismi giuridici nonostante la precisione dell'autore, "addetto ai lavori": dura, a momenti, precisa ed efficace, rende conto con lucidità della vicenda esemplare. La descrizione dell'aula in cui si tiene il processo mi sembra davvero esemplare della scrittura di Ambrosini, che non indulge, peraltro, in altri passi, alla descrizione di ambienti:
Aula maestosa / rivestitta di legno / deturpata nella sobria armonia / da una minacciosa gabbia di ferro / entro cui non siede nessuno / il latitante è rimasto tale / banco dei giudici sovrastante / a semicerchio / il presidente più in alto / imponente nella toga nera.
Si ha, qui, l'impressione di essere di fronte ad un tribunale giusto, in cui ambiente e personaggi concorrono a dare senso di autorevolezza e giustizia suprema. Poche righe sotto, invece, leggiamo:
luce fioca dal lampadario centrale / più lampadine spente che accese / tende polverose / vetri incrostati / imputati avvocati pubblico ministero / fronteggiano in banco della corte / seduti davanti a modesti tavoli.
Qui il senso di piccolezza degli imputati è accentuato dal disfacimento della sala che pare grandiosa e popolata di personaggi quasi ieratici, ma che invece porta i segni del declino dovuti al trascorrere del tempo e sottolinea lo sbigottimento del protagonista di fronte al processo che sta subendo.
Il libro si legge d'un fiato, e lascia al lettore un senso di angoscia di fronte al dipanarsi della storia che cattura inesorabilmente, come una tela di ragno, l'incauto protagonista.
L'articolo 416 bis del Codice penale
Associazione di tipo mafioso
Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni.
L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sè o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.[1]
Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma.
L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all'ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonchè le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare.[2]
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.[3]
Note
[1] Comma così modificato dall'art. 11 bis, D.L. 8 giugno 1992, n. 306.
[2] La seconda parte di questo comma è stata abrogata dall'art. 36 , secondo comma, della L. 19 marzo 1990, n. 55.
[3] Articolo aggiunto dalla L. 13 settembre 1982, n. 646.
Fonte: http://www.studiocataldi.it/codicepenale/
Pour citer cette ressource :
Eva Susenna, "Giangiulio Ambrosini, «Articolo 416 bis»", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), avril 2008. Consulté le 12/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/bibliotheque/giangiulio-ambrosini-articolo-416-bis