«Io ricordo, io racconto»
Io ricordo
La memoria è come le chiavi di casa.
Devo ricordare dove le ho messe ieri perché mi servono oggi che sto rientrando. La memoria è un legame con il passato che ha un senso nel presente. Non è il passato che ritorna per sovrapporsi al tempo che vivo ora. Le chiavi che ho in tasca non evocano il passato, non mi riportano indietro, non provo nostalgia quando le prendo in mano per aprire la porta. La chiave è un oggetto che ha una sua funzione, serve a qualcosa e quando non serve più posso anche buttarla.
Capita con le chiavi delle stanze di albergo quando accidentalmente me le porto via senza restituirle alla reception. Stanotte ho dormito in un albergo di Camposampiero vicino Padova. Adesso mi svuoto le tasche e mi accorgo che anche oggi ho portato via la chiave della stanza. Sono due grosse chiavi di metallo con un pezzo di ferro pesante sul quale è inciso il numero uno. Ci mettono questi portachiavi proprio per non farti dimenticare di riconsegnarla. Ma io mi scordo lo stesso. Certe le riporto indietro, qualcuna la rispedisco, le altre sono da buttare, non servono a niente. Succede la stessa cosa con la memoria. Se puoi farci qualcosa, se ti serve per aprire una porta allora te la tieni, se no te ne scordi, la butti via.
Le istituzioni hanno molto a cuore la memoria. Istituiscono giornate per ricordare questo e quest’altro. I rappresentanti dello stato filano tra le bandiere ricordando l’inizio o la fine di una guerra, la morte o la nascita di un eroe. Portano corone di fiori sugli altari della patria e tengono discorsi indimenticabili. Ci ricordano la memoria che non dobbiamo dimenticare. Insomma ci mettono in tasca grossi mazzi di chiavi per aprire le porte che vogliono loro. E allora mi viene in mente il racconto di un infermiere che lavorava nel grande manicomio di Firenze che fortunatamente non esiste più. Appena assunto gli dettero un mazzo di chiavi dicendogli “puoi entrare nelle stanze che riesci ad aprire con queste chiavi, non nelle altre. Più farai carriera e più chiavi ti daremo”. Così funziona la memoria istituzionale: ti riempio le tasche di chiavi scelte da me in maniera da farti entrare nelle stanze che voglio io. Più chiavi hai in tasca e più sei convinto di avere una casa che ti aspetta nella quale potrai rientrare.
Pure gli ebrei rastrellati dal ghetto di Roma si portavano via le chiavi di casa, i nazisti glielo ricordavano per fargli credere che sarebbero tornati. Gli dicevano di chiudere bene la porta e portarsi la chiave. Pure i palestinesi venuti via dalle loro case si portano la chiave al collo e la mostrano nelle manifestazioni per strada e alle televisioni internazionali che li vanno a riprendere. Quei palestinesi alzano le chiavi come se dicessero “prima o poi la chiave tornerà a aprire la mia porta e sarà di nuovo la porta di casa mia”.
Ora sto a Venezia. Il portiere mi da la chiave della camera. Gli dico “mi ricordi di riconsegnarla sennò io me la porto a casa”. Risponde che posso pure portarmela a casa perché questa è una chiave di plastica di quelle che sembrano una carta di credito. È una chiave intelligente programmata per aprire la porta della stanza solo fino a domani mattina. Sulla porta c’è scritto check-out time: 9.00 a.m. The key will not open the door after that hour e significa che dopo le nove di domattina ridiventa un pezzo di plastica e si scorda di essere stata la chiave della stanza 239.
Certe chiavi non hanno memoria.
Se non serve è meglio non averne.
Io racconto
Io racconto quello che vedo.
Devo raccontare sennò mi scordo. Alla fine del viaggio racconto così viaggio due volte, la prima è quella vera, ma la seconda è quella utile. E racconto anche alla fine del libro sennò mi scordo pure quello se non mi metto subito a raccontarlo. Mia madre per non rileggerli due volte di seguito ci scrive il nome a matita. Quando trova un libro col suo nome capisce di averlo già letto e lo ripone nella libreria, ma non si ricorda quello che c’è scritto. Il suo nome è sulla copertina, ma la memoria del libro s’è cancellata da un pezzo. Allora io racconto per non dimenticarmi. Anche io uso la matita nelle parti bianche delle prime pagine di un libro, ma ci scrivo quello che mi viene in mente. Sono pagine bianche e le uso per quello che sono, senza paura e senza rispetto. Ma poi quella storia la devo raccontare sennò me la perdo. E raccontandola aggiungo pezzi e poi mi confondo, non so se sto raccontando quello che ho letto o quello che ho scritto io. Ma continuo a raccontare lo stesso.
Io ascolto quelli che raccontano e non faccio differenze tra quello che è tornato a piedi dalla Russia in tempo di guerra e quello che aspetta l’autobus e mi parla del gelato al pistacchio. Perché la storia è fatta di guerre camminate a piedi, ma la nostra vita è anche il pistacchio. Invece la letteratura è un’invenzione che mette insieme tutto. E’ la guerra al pistacchio.
Io ho incominciato a raccontare perché volevo imparare a raccontare tutto.
Mi dicevano che non si poteva andare in teatro con la pronuncia sbagliata, con la dizione zoppicante. Al provino di un teatro stabile sono entrato dicendo “salve”. L’esaminatrice ha detto “questa esse è un po’ troppo scivolosa”. Ho pensato “se dicevo buongiorno facevo più bella figura”.
Ma raccontare non significa parlare bene. Il racconto è fatto di oggetti. Io mi metto seduto davanti allo spettatore come al lettore del mio libro, a mio figlio piccolo come al vigile che mi sta facendo la multa. Io sto davanti a loro e racconto. Racconto come il burattinaio che non si deve mettere a fare le vocine per distinguere un personaggio dall’altro, non si perde in descrizioni perché i personaggi sono davanti agli occhi dello spettatore. Sono di legno o di carta pesta e si muovono veramente. Basta un piccolo cambiamento della voce, non serve l’imitazione. Non è la televisione con i concorrenti delle trasmissioni di barzellette che devono rendersi ridicoli per far ridere, non è il club degli imitatori dove bisogna indossare parrucche e nasi finti per sembrare qualcun altro. Nel teatro dei burattini quell’altro è già sulla scena. E’ finto nel corpo, ma è fatto di voce vera.
Poi il ventesimo secolo ci ha portato via la finzione del teatro, ha ucciso i personaggi e ha bruciato i burattini. L’attore è rimasto da solo senza pupazzi, teschi in mano e parrucche in testa.
E’ rimasto solo l’uomo che racconta, coi personaggi trasparenti che si muovono impalpabili davanti ai nostri occhi. Personaggi che parlano con la nostra voce, ma con un corpo fatto di memoria.
Io racconto come il burattinaio, ma senza i burattini.
Pour citer cette ressource :
Ascanio Celestini, Io ricordo, io racconto, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2014. Consulté le 21/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/io-ricordo-io-racconto