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Il rapporto tra letteratura e cinema oggi. Riflessioni sull’intermedialità delle scritture di Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano

Par Ketty Zanforlini : Professeure agrégée d’italien, doctorante - Université Sorbonne Nouvelle
Publié par Alison Carton-Kozak le 01/03/2021

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Se la letteratura oggi sembra essere stata soppiantata dalle produzioni cinematografiche, il cinema italiano è stato, negli ultimi dieci anni, decisamente rilanciato non da due cineasti ma da due scrittori, Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano. Come la loro scrittura si adatta alle modalità narrative cinematografiche? Come leggere la loro produzione non solo come una serie di prodotti derivati interscambiabili? La cultura visuale, l’intermedialità e la transmedialità saranno concetti utili da interrogare per analizzare le loro opere letterarie e per, a partire da queste, misurarne la distanza dalle loro trasposizioni filmiche. Questo saggio è la versione redatta di una relazione orale tenuta durante la giornata "Rapporto tra letteratura e cinema" organizzata all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi il 9 aprile 2018.

Introduzione

Oggi sembra che la letteratura sia stata soppiantata dal cinema, inteso, in senso ampio, come produzione sia filmica che di serie televisive, e, a ben vedere, non si tratta solo di un’impressione. La ricerca universitaria stessa sottolinea l’importanza di quella che viene definita la cultura visuale come griglia di lettura critica della produzione artistica contemporanea. A teorizzarla tra i primi è W. J. T. Mitchell che ha postulato, all’inizio degli anni Novanta, un "pictorial turn", (Mitchell, 2014, 27), ossia una svolta epistemologica per cui il modello interpretativo che si afferma a partire dall’imposizione della fotografia, del cinema, della televisione, non è più il mondo come libro ma il mondo come immagine (Mirzoeff, 1999, 7). Nicholas Mirzoeff ha poi spinto oltre l’indagine arrivando ad affermare che dal XXo secolo l’accesso alla conoscenza avviene sempre di più attraverso un’interfaccia, alludendo, in particolar modo agli schermi (Mirzoeff, 1999, 3). Il pubblico sembra confermare questa tendenza e l’Italia non fa eccezione. Se prendiamo in considerazione le cifre Istat, rilevate a partire da un campione di italiani dai 6 anni in su, durante il 2018 il 40,6% ha letto almeno un libro mentre il 48,8% ha visto un film e il 92,4% delle persone guarda la televisione, e tra queste l’81,8% la fa con frequenza giornaliera.

Parallelamente si assiste a un abbandono della rigida categorizzazione delle forme artistiche per non considerarle più letteratura, cinema, pittura, ecc., cioè come arti rinchiuse in compartimenti stagni. In questa direzione si inseriscono gli studi sull’intermedialità. Lo studioso canadese Jünger Müller, partendo dalla considerazione che "les médias ne peuvent plus être conçus comme des monades isolées" (Müller, 2000, 105), si focalizza su questa disciplina sottolineando come intermedialità sia un termine che coniuga il termine intertestualità (Kristeva, 1968, 311) al termine intermedio, già usato nel Quattrocento per indicare un interludio musicale o teatrale. Secondo Müller, quindi, "un produit médiatique devient intermédiatique quand il transpose le côte à côte multimédiatique, le système de citations médiatiques, en une complicité conceptuelle dont les ruptures et stratifications esthétiques ouvrent d’autres voies à l’expérience" (Müller, 2000, 113). Inteso in questo modo, il passaggio da un medium all’altro si configurerebbe allora come un sistema citazionale che apre a nuovi significati.

Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano sono due autori italiani contemporanei che si sono imposti sia sulla scena letteraria sia sulla scena cinematografica in Italia e, dato il successo dei film e delle serie televisive tratte dai loro libri, in tutto l’Occidente. Pensiamo allora che possa essere utile vedere come il cinema sia integrato in queste due scritture sin dall’inizio, in virtù di un’intertestualità intrisa di cultura visuale. Ma crediamo che sia anche necessario mostrare come proprio gli adattamenti cinematografici sottolineino il fatto che entrambi questi autori scrivono opere con uno specifico letterario che, contrariamente a quanto possa sembrare, mette la resa filmica a dura prova. Infine cercheremo di delineare quali siano le soluzioni adottate dai due scrittori di fronte a questo rapporto complesso tra letteratura e cinema in un contesto in cui la prima sembra ormai succube del secondo.

Per la nostra analisi faremo riferimento alla trilogia sulla criminalità romana di Giancarlo De Cataldo, composta da Romanzo Criminale uscito nel 2002, Nelle mani giuste, pubblicato nel 2007, e Suburra, quest’ultimo coscritto con il giornalista Carlo Bonini nel 2013. I tre romanzi permettono di percorrere un arco temporale che va dalla fine degli anni Settanta ai giorni nostri. Nel primo vengono raccontate le gesta della banda della Magliana; il secondo si svolge durante gli anni Novanta – con un’analessi che risale al 1982 – e racconta le vicende di Tangentopoli; il terzo, ambientato nella Roma contemporanea, segue le vicende del Samurai, personaggio legato ai membri della banda della Magliana. Romanzo criminale è stato adattato, con lo stesso titolo, prima al cinema da Michele Placido nel 2005 e poi in una serie televisiva da Stefano Sollima nel 2008. Ancora Sollima è il regista del film Suburra, del 2015, e dell’omonima serie tv (2017) e direttore artistico, nonché regista di alcuni episodi, di Gomorra - La serie. Questa, del 2014 – e la cui quinta stagione è appena andata in onda – è una resa cinematografica del libro omonimo di Roberto Saviano uscito nel 2006, da cui già nel 2008 era stato tratto un film, omonimo, dal regista Matteo Garrone. Faremo anche poi riferimento, per l’autore napoletano, a Zero Zero Zero (2013) e ai suoi due ultimi romanzi La paranza dei bambini e Bacio feroce, pubblicati rispettivamente nel 2016 e nel 2017. Se Gomorra trattava del potere della camorra in generale, Zero Zero Zero si focalizza sul traffico di cocaina, mentre La paranza dei bambini e Bacio feroce raccontano della nascita e della fine di un clan napoletano di adolescenti criminali.

1. Scritture cinematografiche

De Cataldo e Saviano sembrano integrare sin da subito i codici cinematografici nelle loro scritture e ciò a molteplici livelli. Innanzitutto nella struttura e nella tempistica del racconto. Tutte le opere citate qui sopra sono organizzate in parti a loro volta suddivise in capitoli, ognuno con un proprio titolo. Se da un lato si poteva pensare che la frammentarietà della struttura di Gomorra e di Zero Zero Zero fosse dovuta esclusivamente al fatto che questi libri sono, per buona parte, il risultato di un assemblaggio di scritti già apparsi separatamente, senza nessi tra loro, su riviste o quotidiani, la pubblicazione di La paranza dei bambini e di Bacio feroce possono smentire questa ipotesi rigida. Infatti anche questi ultimi due romanzi, così come quelli di Giancarlo De Cataldo, che sono il frutto di un’unica attività di scrittura, sono strutturati in parti e capitoli. In entrambi gli autori si tratta dunque dell’adozione di una struttura per quadri o per episodi che esalta la divisione del racconto in singole unità brevi: la modalità narrativa forse più utilizzata in ambito cinematografico poiché ben si adatta al racconto per sequenze.

Anche la sintassi dei due autori sembra conformarsi alla rapidità e concisione filmiche in auge. Se una caratteristica del romanzo tradizionale è l’ampio periodare sintattico unito a lunghi momenti descrittivi, è evidente quanto la narrativa contemporanea abbia la tendenza a ridurre i periodi e ad eliminare o, piuttosto, trasformare, le descrizioni. Tra i tanti esempi che possono illustrare queste evoluzioni, ne indichiamo due, tra quelli che ci sembrano come i più lampanti e significativi. Uno tratto da Romanzo Criminale:

 Annamo, ordinò il piccoletto,  me sa che questo non s’alza più!
Ma si alzò, invece. Si alzò che era già buio, con il torace in fiamme e la testa confusa. Poco più avanti c’era una fontanella. Si ripulì del sangue secco e bevve una lunga sorsata d’acqua ferrosa. Era in piedi. Poteva camminare. Per strada, automobili con lo stereo a tutto volume e gruppi di giovani che giocherellavano con il cellulare e schernivano il suo passo sbilenco. Dalle finestre le luci azzurrine di mille televisori. Poco più avanti ancora, una vetrina illuminata (De Cataldo, 2011, 5).

L’altro tratto da Gomorra:

Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell’aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l’uno sull’altro (Saviano, 2009, 11).

Entrambi questi passaggi sono paratattici: la coordinazione è frequente, mentre la subordinazione è assente in De Cataldo e poco presente in Saviano. Ciò che però conferisce ancor più dinamicità alle due scene è il fatto che l’ordine descrittivo è quello del movimento dello sguardo: in Romanzo Criminale la scena va da un campo medio in cui è inserita la figura intera di un personaggio – sapremo poi che si tratta del Bufalo – e si procede verso un campo largo. Mentre in Saviano abbiamo l’inverso: dal campo largo che include la nave, la gru e il container la descrizione si focalizza sui cadaveri, prima indistinguibili, poi sempre più chiaramente messi a fuoco. Stefania Ricciardi ha ampiamente provato, nel saggio Gli artifici della non-fiction, che anche nelle opere non finzionali, ossia quelle che esibiscono un certo legame con la realtà storica e sociale, ritroviamo quella che definisce una "messinscena narrativa" (Ricciardi, 2011, 56). La ricercatrice aveva dimostrato come negli autori Albinati, Franchini e Veronesi si riscontri un’applicazione delle teorie di Gilles Deleuze sull’immagine-movimento. Si può allora riprendere qui il termine di messinscena, che tra l’altro pone in rilievo l’atto di guardare: ciò che quindi De Cataldo e Saviano sembrano attingere soprattutto dal cinema è l’arte del mostrare, del far visualizzare le scene divenendo una sorta di narratori-occhio e dando luogo a delle descrizioni che non mirano tanto alla mimèsi quanto alla resa di un movimento e quindi sono già strutturate, in un qualche modo, come delle sequenze cinematografiche.

L’adozione di modalità narrative cinematografiche nelle opere di De Cataldo e Saviano non è però evidente solo in questi procedimenti che possono essere riscontrabili anche in buona parte di altri autori italiani contemporanei – come quelli analizzati da Stefania Ricciardi. Henry Jenkins in un articolo scritto per la rivista del MIT il 15 gennaio 2003 afferma: "According to Hollywood lore, a good pitch starts with either a compelling character or an interesting world" (Jenkins, 2003). Il mondo di cui De Cataldo e Saviano scrivono è quello della malavita: un mondo che ha da sempre goduto di grande fortuna nel cinema costituendone un asse portante. Molto probabilmente la fortuna di questo universo narrativo è dovuta al fatto che è popolato da eroi, da personaggi che assumono, in questo genere di contesto, un carattere epico. Intendiamo epico nel senso attribuitogli da Wu Ming nel saggio New Italian Epic in cui si precisa che

l'uso dell'aggettivo "epico", in questo contesto, non ha nulla a che vedere con il "teatro epico" del Novecento o con la denotazione di "oggettività" che il termine ha assunto in certa teoria letteraria. Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all'interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell'intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso (Wu Ming, 2008, 8-9).

Il carattere epico delle storie narrate da De Cataldo e Saviano è già in un qualche modo dimostrato dalla grande fecondità dei soggetti, che hanno dato adito a più libri, ma si ritrova anche esaltato dai riferimenti cinematografici di cui queste opere sono ricche. In Romanzo Criminale il Dandy vuole ad ogni costo riuscire a produrre un film sulla malavita e nel romanzo Suburra troviamo, tra i personaggi, un produttore cinematografico, a casa del quale si svolge una festa durante la quale abbiamo il seguente scambio di battute:

- Pare che Garrone voglia fare un film su Corona, il fotografo.
- Notizia Findus, mia cara. Matteo abita qui sotto. Ci ha pensato su per un bel po’, ma poi ha deciso di lasciar perdere.
- Meno male. E si vede che Corona faceva schifo pure a lui.
- Il fatto è che Corona significa la televisione, il bungabunga, tutte quelle cose lì, e quelle cose sono l’orrore, e l’orrore non si può rappresentare. Nemmeno Fellini ci riuscì, ai suoi tempi (Bonini, De Cataldo, 2013, 56-57).

Questo passaggio costituisce un rimando alla narrazione di De Cataldo, che nel libro Suburra, complice la collaborazione con il giornalista Carlo Bonini, riesce a rivaleggiare con il cinema e a presentare "tutte quelle cose lì".

Delle vere e proprie integrazioni di dialoghi tratti dal cinema si ritrovano in La paranza e Bacio feroce. Possiamo citare il seguente esempio:

– Io battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri tre vecchi. Se loro lo battezzarono con ferri e catene, io lo battezzo con ferri e catene –. Poi fece una pausa e rivolse gli occhi al soffitto. – Alzo gli occhi al cielo e vedo la stella polare. – E sollevò il mento scoprendosi il viso. Aveva iniziato a farsi crescere la barba, la prima barba fitta che gli concedeva la sua età. – Ed è battezzato il locale! Con parole di omertà è formata società (Saviano, 2016, 176).

In questo passaggio i paranzini ripetono la scena del giuramento del film di Giuseppe Tornatore Il camorrista. L’intertestualità non si riduce, dunque, a dei rimandi letterari: il cinema contamina il metodo scrittorio, si fa serbatoio di riferimenti culturali e di materiale narrativo epico da cui attingere. De Cataldo e Saviano, nel momento in cui decidono di raccontare la malavita, sfruttano appieno tutte le potenzialità offerte dalla diffusione della cultura cinematografica su questo soggetto.

2. L’irriducibilità dello specifico letterario della non-fiction

Tuttavia, per quanto le scritture di Saviano e De Cataldo sembrino fatte apposta per essere tradotte sul grande o piccolo schermo, entrambe presentano delle specificità con le quali i registi e gli sceneggiatori si sono dovuti misurare non riuscendo sempre a risolverle o a darne, a nostro avviso, una trasposizione convincente. Questa specificità risiede essenzialmente nel carattere ibrido di queste due scritture. Nonostante i tre romanzi Romanzo Criminale, Nelle mani giuste e Suburra possano essere ascritti al genere noir, i riferimenti alla realtà storica sono non solo essenziali alla trama ma anche evidenti già nella scansione cronologica data dai titoli dei capitoli dei romanzi. Riprendere la forma diaristica o, piuttosto, degli annali di cronaca, significa creare sin da subito, tramite la scrittura, un ponte solido con la realtà referenziale. Nel film Romanzo criminale questo procedimento è stato scartato per adottarne un altro: gli eventi storici sono mostrati attraverso immagini d’archivio dei telegiornali dell’epoca a cui appartengono i fatti, creando dunque uno scarto narrativo e temporale. Un procedimento questo ripreso in Romanzo criminale - La serie e che sottolinea quanto il cinema, reggendosi sulla referenzialità dell’immagine, abbia, paradossalmente, bisogno di creare questo genere di scarti per sottolineare la storicità della narrazione e rafforzarne il carattere veridico. Nel film Suburra, invece, in cui si è rispettata la scansione diaristica, poiché tra ogni giornata sono stati inseriti dei pannelli che ne indicano la data, questi pannelli risultano ridondanti: vedendosi succedere il giorno, la notte e poi ancora il giorno, capiamo, visualmente, che l’azione si svolge giorno dopo giorno. L’inserimento di pannelli con le date nel film serve più che altro ad allungare l’attesa dello spettatore e quindi a rafforzare la suspense, una delle caratteristiche precipue del genere noir, e non a mettere in risalto il carattere referenziale per il quale, nel film, sembra bastare Roma sullo sfondo.

Allo stesso modo, certi personaggi chiave di De Cataldo che insistono sul carattere ibrido della scrittura sono stati molto trasformati o addirittura espunti dalle versioni cinematografiche. Prendiamo in considerazione il personaggio del Vecchio che appare in Romanzo Criminale e che appare in filigrana, quasi come spettro in Nelle mani giuste (per un approfondimento delle considerazioni che seguono rimandiamo a Zanforlini, 2017). Questo personaggio è presentato come un uomo misterioso che lavora con agenti segreti, di cui nient’altro si sa se non che si chiama Il Vecchio: l’aggettivo vecchio, dunque, lo nomina e al tempo stesso lo definisce. Nel film e nella serie tv, il personaggio è interpretato da, rispettivamente, Toni Bertorelli e Massimo De Francovich. Il primo aveva 56 anni all’epoca del film e il secondo, all’inizio della serie tv, 72. Del personaggio di De Cataldo riprendono tuttavia soltanto il riferimento all’età più o meno avanzata. Per il resto, entrambi gli attori hanno un fisico sottile e Bertorelli nel film, in particolare, lineamenti emaciati. Nel romanzo invece il Vecchio è descritto come "un uomo anziano e corpulento" (De Cataldo, 2011, 241) e "un uomo grasso, vestito di grigio, capelli a spazzola e occhi volpini inquietanti" (De Cataldo, 2011, 375). Un’altra differenza tra la versione filmica e la versione letteraria, oltre a quella legata al fisico, è la definizione che dà della propria azione il personaggio stesso. Nel film e nella serie tv si presenta come un agente ordinatore. Citiamo ciò che dice nel film nel momento della sua uscita di scena: "I pochi fascicoli che porto con me riguardano gli uomini che dovranno salvarsi dal diluvio. Persone spesso ignobili, anime nere, capitani di ventura. Eppure come già altre volte nella storia, saranno loro a governare il caos" (Placido, 2005, 173’). E nel decimo episodio della seconda stagione della serie afferma: "Ho speso una vita […] a dare un ordine alle cose e a mantenerlo" (Sollima, 2008, stagione 2 episodio 10, 31’22’’-31’30”). Nel romanzo invece si definisce un disordinatore: "il gioco esigeva che si facesse l'opposto: dare un caos all'ordine. Disordinare il mondo" (De Cataldo, 2001, 215). Per quanto riguarda il fisico si potrebbe avanzare l’ipotesi che nel libro si voglia maggiormente legare il Vecchio a colui che è stato un uomo molto influente durante la Prima Repubblica italiana e che è identificato nell’enciclopedia online Wikipedia come Federico Umberto D’Amato, nato nel 1919, deceduto nel 1996, direttore dell’ufficio affari riservati del ministero dell’interno da 1957 al 1974, di cui si parla, tra l’altro, nel film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Però il Vecchio, personaggio di De Cataldo, muore nel 1992 e, siccome il 1992 è una data simbolica in Italia – coincide con la fine della prima Repubblica e lo scandalo di Tangentopoli –, ciò allontana il personaggio dal suo referente reale e gli conferisce, mutatis mutandis, un valore simbolico, quello di custode dei segreti della prima Repubblica.

Se poi analizziamo più in dettaglio le azioni del Vecchio nel romanzo, qui appare come il creatore di diversi personaggi. In particolare il Vecchio modella integralmente la vita del commissario Scialoja: "Era stato il Vecchio a mandargli Sandra Belli […]. Una lezione. Una trama. Un gioco" (De Cataldo, 2011, 593). Il Vecchio è letteralmente colui che costruisce la trama e quindi, in ultima istanza, assume il ruolo generalmente ricoperto dall’autore. La ragione di questa mise en abyme della figura autoriale è probabilmente da ricercare nel fatto che il Vecchio rappresenta un passato per il quale possiede degli archivi immensi, mentre il periodo che va dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta in Italia è denso di episodi rimasti a lungo o tutt’ora irrisolti. Due eventi di questo genere appaiono in Romanzo Criminale: l’esplosione di una bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e la strage del Rapido 904 o Strage di Natale, un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 presso Vernio, vicino a Prato. Nella realtà questi due avvenimenti hanno dato luogo a lunghi processi e, tra l’altro, si sono sostanzialmente conclusi con la condanna degli esecutori materiali, mentre rimangono ancora dubbi circa i mandanti reali di entrambe le stragi. Nel romanzo, invece, il Vecchio detiene rapidamente la chiave per comprendere quanto successo (De Cataldo, 2011, 462). In ultima analisi il Vecchio sarebbe uno stratagemma letterario che permette a De Cataldo di scrivere su un periodo storico altrimenti oscuro, lacunare, difficile da presentare. Inserire un personaggio puramente letterario in una narrazione in cui la realtà storica e sociale esterna ne costituiscono la base servirebbe allora a ricostruire i capitoli che sarebbero altrimenti mancanti. Questo tipo di personaggio mette in rilievo il carattere ibrido del romanzo di De Cataldo e in quanto tale la sua resa cinematografica non può che essere limitata. Un’ipotesi simile potremmo farla per i personaggi della polizia, come il colonnello Marco Malatesta, o la blogger Alice Savelli, che hanno un ruolo fondamentale nel libro Suburra ma che sono invece totalmente assenti nella sua versione filmica, che si focalizza soltanto sui personaggi più epici, cioè quelli negativi dei malavitosi e dei politici corrotti – una cifra questa che troviamo riconducibile anche allo stile del regista Stefano Sollima, che sembra prediligere l’epica in negativo o anti-eroica.

Se per Romanzo criminale e Suburra l’adattamento è necessario, non sempre felice ma comunque di una certa efficacia, per quanto riguarda Gomorra e le sue versioni cinematografiche il problema dell’adattamento è a nostro avviso ancora più presente e spinoso. La scrittura di Saviano infatti si vuole sia epica, perché racconta delle storie che diventano esemplari – come quella del sarto Pasquale, in Gomorra, o del paranzino Maraja, in La paranza dei bambini –, ma si vuole anche interamente referenziale nonché veritiera. Questa referenzialità è esibita sia dal fatto che la narrazione in Gomorra avviene sia tramite il narratore-autore-testimone Roberto sia nei lunghi passaggi di carattere saggistico che spiegano le complesse dinamiche economiche create dai poteri criminali: passaggi che contengono dati statistici e stralci di rapporti d’inchiesta. La stessa commistione di narrazione e saggistica si può riscontrare in Zero Zero Zero. Quindi, ancor più di De Cataldo, Saviano compone una materia ibrida il cui interesse risiede nell’uso della fiction per veicolare la realtà criminale. Di questa mescolanza di generi sembra rimanere ben poco nelle trasposizioni cinematografiche. Come è stato già ampiamente osservato in diversi articoli, il film di Matteo Garrone risulta, in un certo senso, fedele nella resa delle storie di Gomorra: si allontana dal genere dei film di gangster conservando solo le storie di personaggi minori (Antonello, 2019). La figura del narratore-autore, però, scompare e i dati numerici e le informazioni sono relegati al paratesto, cioè a una serie di 4 pannelli che scorrono dopo la fine del film per comunicare una serie di dati ripresi dal libro Gomorra, come i primi due che riportiamo qui:

In Europa la camorra ha ucciso più di ogni altra organizzazione terroristica o criminale: 4000 morti negli ultimi trent’anni. Uno ogni tre giorni.

Scampia è la piazza di spaccio di droga a cielo aperto più grande del mondo. Per un solo clan il fatturato è di circa 500.000 euro al giorno (Garrone, 2008).

Questi pannelli entrano un poco in contraddizione con la frase canonica che appare subito dopo, nei titoli di coda, ossia: "Ogni riferimento a persone o cose realmente esistenti o fatti accaduti è puramente casuale" (Garrone, 2008).

Un problema ancora più evidente di derealizzazione (Barthes, 2002, 119-346) si ritrova a nostro parere nella serie televisiva (Per un approfondimento delle considerazioni che seguono rimandiamo a Zanforlini, 2021). Il nono episodio della prima stagione ha come titolo Gelsomina Verde e l’episodio racconta di Gelsomina Verde, una shampista che abita nella periferia di Napoli, viene sequestrata, seviziata e bruciata nella propria macchina da Ciro detto l’Immortale, il personaggio che cerca di prendere il potere all’interno del clan dei Savastano. Se abbiamo letto il libro Gomorra, sappiamo che Gelsomina Verde è esistita e che il macabro episodio rinvia a un fatto di cronaca. Eppure, all’interno della serie, è più probabile che sia recepito come finzionale. Infatti, oltre ad avere fatto la scelta di concentrarsi soltanto su personaggi negativi – allontanandosi dunque dalla realtà storica – la narrazione della serie televisiva espunge ogni dato statistico o velleità saggistica. A riprova di quanto affermato, possiamo brevemente addurre in questa sede anche il fatto che nelle versioni in francese e in inglese della serie televisiva il titolo dell’episodio è stato tradotto, rispettivamente, con Erreur de jeunesse e Gelsomina Green. È chiaro che il riferimento alla realtà verrà percepito solo da chi conosce quel fatto di cronaca (quindi, verosimilmente un pubblico italiano, anzi, addirittura napoletano) o da chi avrà letto Gomorra, che, tra l’altro viene citato nei titoli di testa del film e della serie, in modo a dir poco riduttivo, come romanzo. Inoltre nei titoli di coda di ogni episodio della versione francese della serie televisiva appaiono i seguenti pannelli:

L’immeuble dans lequel ont été tourné les séquences de la Maison des Savastano a fait l’objet d’une saisie judiciaire à cause des délits de la camorra.

Les événements et les personnages décrits dans cette série sont fictifs. Toute ressemblance avec des personnes vivantes ou non est fortuite (Sollima, Comencini, Cupellini, 2015).

Pannelli che invitano esplicitamente il lettore a considerare fittizi avvenimenti realmente accaduti. Per quanto si tratti di disclaimers divenuti ormai un banale espediente per non incappare in problemi giuridici (Lavocat, 2016, 273-293), non possono che accentuare l’incoerenza della narrazione.

3. Transmedialità vs Intermedialità

Entrambi gli autori, come detto in introduzione, hanno partecipato alla sceneggiatura dei film e l’idea della serie televisiva Gomorra viene attribuita a Roberto Saviano. Quindi ci pare da escludere che non fossero a conoscenza di questi rischi. Non si hanno, d’altronde, notizie di polemiche o di critiche da parte degli autori verso le rese filmiche dei loro libri. Proprio nella relazione che i due scrittori creano con i vari media sembra essere contenuta la risposta di questa sintonia. Per quanto riguarda De Cataldo, come abbiamo visto, la sua scrittura rientrando in un genere più preciso, il noir, non corre il pericolo di essere completamente fuorviata dalla trasposizione cinematografica, la cui fruizione risulta poter essere indipendente dalla lettura. Ci pare allora naturale che dai suoi romanzi si sia creata allora non un’intermedialità ma una transmedialità, come già dimostrato da Marta Boni (2011) che analizza Romanzo criminale alla luce della definizione di racconto transmediale di Henry Jenkins:

In the ideal form of transmedia storytelling, each medium does what it does best-so that a story might be introduced in a film, expanded through television, novels, and comics, and its world might be explored and experienced through game play. Each franchise entry needs to be self-contained enough to enable autonomous consumption. That is, you don’t need to have seen the film to enjoy the game and vice-versa (Jenkins, 2003).

Dalla lettura dei romanzi di De Cataldo e dalla visione delle opere cinematografiche da essi derivate, non sembra sia necessario, per una piena comprensione, conoscere tutta l’opera o le versioni sia letterarie che filmiche. Invece per quanto riguarda la materia letteraria di Roberto Saviano divenuta poi materia cinematografica possiamo, a nostro parere, parlare di intermedialità intesa come una forma di intertestualità. Siamo di fronte infatti a occorrenze – o ricorrenze – narrative che, anziché apparire in diversi testi scritti, appaiono in differenti media e, per comprendere questa galassia di materia narrativa, bisogna circolare da un medium all’altro. Ogni versione non sarà dunque autonoma ma per capirla pienamente servirà conoscerle tutte. È Saviano stesso a guidare verso questo tipo di interpretazione.

Ti pare un film già visto, un racconto già ascoltato. Hai letto la storia di un ragazzo dal nome quasi identico, Attilio Romanò […]. Hai visto come spacciano la coca dentro alle ''Vele'', come uccidono senza nessuna potenza drammatica del gesto, come si tradiscono l'un l'altro. Ti ha fatto impressione la scena dove dei bambini vengono addestrati a farsi sparare addosso. Adesso non hanno più intorno ai dieci anni, dodici anni. Adesso sono loro a sparare e morire (Saviano, 2013, 395).

In questo passaggio, nessuna differenza è fatta tra il vedere e il leggere. Nessuna spiegazione chiara di quali opere si stia parlando. Qui quello che ipotizza Saviano è un pubblico di lettori/  spettatori, in cui quindi la conoscenza di un contenuto avviene attraverso un atto di lettura e di spettatura (Lefebvre, 1997) associati. La sua stessa scrittura e anche la serie tv sembrano sempre di più spingere in questo senso. Per quanto riguarda la serie televisiva, nel secondo episodio della seconda stagione di Gomorra - La serie, in un flashback, vediamo Genny Savastano che sta controllando una partita di panetti di cocaina sui quali in rilievo è impresso un asso di picche. In seguito Genny chiede a un uomo in evidente stato di prigionia di uccidere il suo compagno di cella mentre Genny lo riprende col cellulare. Queste sono le immagini che lo spettatore può vedere e, secondo noi, non possono essere sufficienti per avere una piena comprensione della scena. Uno spettatore ignaro delle dinamiche del narcotraffico nel dettaglio può tutt’al più sospettare che quel video servirà in futuro e che quell’asso di picche sia un codice oscuro. Due ipotesi errate poiché non si accennerà più né all’uno né all’altro in tutta la seconda stagione, né in seguito. Tuttavia se lo spettatore è anche lettore e ha letto Zero Zero Zero sa che l’asso di picche rinvia a quella sorta di sigillo apposto dai cartelli alle proprie partite di cocaina per distinguerle e che richiedere l’uccisione del proprio compagno di cella, filmandola, è una delle tecniche di addestramento alla ferocia messe a punto da un corpo speciale dell’esercito guatemalteco.

L’intermedialità serve a rafforzare la circolazione del contenuto ma anche ribadire la posizione precipua di Saviano che, in quanto autore-garante di ciò che scrive e di ciò che viene mostrato, assume il ruolo di un marchio (Bernardi, 2017; Benvenuti, 2017). Significativo, in questo senso, è il fatto che gli episodi della prima stagione della serie televisiva siano andati in onda in chiaro in Italia sulla Rai preceduti da interviste nonché da un’introduzione dello stesso Roberto Saviano: un apparato pedagogico necessario per aiutare lo spettatore a inserire quanto mostrato nella realtà circostante e in una galassia di senso. Ad adottare questo metodo spinge anche l’autocitazionismo continuo da parte di Saviano. Per esempio, La paranza dei bambini ritroviamo questo dialogo tra il boss soprannominato l’Arcangelo e il capo della banda dei paranzini, Nicolas, soprannominato il Maraja

– Tu vò cummannà, è ’overo?
– Io già comando.
– Ebbravo ’o comandante. Ma sai che nisciuno si può fidar’’e te?
– Non mi fate bere pisciazza, don Vitto’, per dimostrarvi che vi potete fidare. La pisciazza non me la bevo.
– Ma quale pisciazza. Cap’e mmerda. Non ho mai visto nessun comandante che non ha fatto mai ’nu piezzo. Ti do un consiglio, Maraja: il primo che ti dà fastidio, prendi e vallo a sparare. Ma da solo (Saviano, 2016, 279).

Come capire questo passaggio? Soprattutto, come possiamo evitare di non capire il riferimento, come don Vitto'? Sicuramente conoscendo la serie televisiva, poiché i paranzini sono descritti come dei grandi fan di film sulla malavita. Ma possiamo anche capire questo passaggio e meglio coglierne il riferimento al mondo reale se abbiamo letto Gomorra oppure se abbiamo visto il primo episodio della docufiction Kings of crime che, mettendo in scena esclusivamente un Saviano che racconta illustrando il proprio monologo con immagini d’archivio, costituisce una trasposizione pressoché letterale di quanto possiamo ritrovare nel libro Gomorra.

Conclusione

Per concludere brevemente, Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano sono due autori contemporanei che illustrano bene il fatto che oggi la letteratura, in particolare quella sulla malavita, non può non tener conto del cinema. Entrambi scelgono di integrare i codici della narrazione cinematografica nella loro scrittura. Tuttavia, pur sembrando queste scritture predisposte a essere adattate sullo schermo, la loro resa cinematografica si rivela una vera e propria sfida poiché è proprio l’ibridismo letterario dei loro testi, sempre in bilico tra referenzialità storica e finzione, a rivelarsi delicato da trasporre cinematograficamente. Ciò non sembra provocare particolari problemi di comprensione o di ricezione per quanto riguarda Romanzo criminale - la serie o il film Suburra, poiché tutte queste produzioni possono essere fruite singolarmente. Per Gomorra -La serie emergono invece rischi di derealizzazione del contenuto altamente referenziale proposto da Saviano. In questo caso il solo antidoto sembra quello di adottare una lettura / spettatura inter-mediali, alla caccia di indizi e di senso tra un medium e l’altro.

Références bibliographiques

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Pour aller plus loin sur la Clé des langues

Pour citer cette ressource :

Ketty Zanforlini, Il rapporto tra letteratura e cinema oggi. Riflessioni sull’intermedialità delle scritture di Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mars 2021. Consulté le 27/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/il-rapporto-tra-letteratura-e-cinema-oggi-riflessioni-sull-intermedialita-delle-scritture-di-giancarlo-de-cataldo-e-roberto-saviano