L' "icona" Robero Saviano e gli intellettuali italiani
I fatti sono facilmente riassumibili, le interpretazioni meno. Alessandro Dal Lago ha scritto un libro blasfemo. Dal Lago è docente di sociologia dei processi culturali all'Università di Genova, saggista brillante e profondo di notevole successo, noto per il cattivo carattere. Forse in virtù di quest'ultima caratteristica, nel suo Eroi di carta (manifestolibri), osa criticare l'icona più sacra della grande platea italiana: nientemeno che il best seller Gomorra e il suo autore Roberto Saviano.
Bisognerà premettere che non condivido quasi nulla dell'analisi di Dal Lago: bisognerà farlo per mettere le mani avanti in un panorama in cui quasi sempre si viene schierati a forza - direi arruolati con l'inganno - se si osa affrontare un argomento dibattuto senza volersi adeguare alle retoriche contrapposte. Le critiche del sociologo si articolano su tre livelli. In primo luogo un'analisi narrativa, volta a togliere sostanza al valore di testimonianza del libro di Saviano. L'accusa di Dal Lago è di autoreferenzialità, e riguarda la sola fonte esibita da Saviano: sé stesso ("ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità"). Il secondo livello riguarda l'analisi dei media e affronta la costruzione mediatica della figura dell'eroe-scrittore, il Rushdie italiano: un ruolo ampiamente imposto dal sistema della comunicazione di massa a un Saviano dapprima recalcitrante e poi forse costretto a recitare la parte assegnata. Il terzo livello si può definire sociologico ed è senz'altro il più interessante, anche perché finalmente, non riguarda più direttamente la persona Saviano. Che cosa significa - si chiede Dal Lago - "il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese?".
Dal Lago parte dall'analisi della figura classica dell'eroe, tradizionalmente più cara alla cultura di destra che a quella di sinistra (e infatti grande successo ha l'autore di Gomorra nell'area finiana dello schieramento governativo) e si chiede come questa figura possa essersi trasformata, si potrebbe dire, nella forma logica di un modo di affrontare i problemi sociali e politici diffuso soprattutto a sinistra. Il sociologo non si sofferma su altre figure che incarnano questo bisogno progressista di eroi nell'Italia contemporanea, da Marco Travaglio all'ex magistrato Gherardo Colombo, a molti artisti della satira e giornalisti più o meno indipendenti e più o meno televisivi, ma il suo discorso si potrebbe agevolmente applicare a ciascuna di queste figure. Un particolare che avvalora l'intento dichiarato di non voler portare un attacco a Roberto Saviano.
Nella sostanza, per Dal Lago, il fenomeno Saviano, la creazione di un'icona del bene assoluto contrapposta a un male che nessun individuo sano di mente potrebbe qualificare altrimenti (quindi anch'esso "assoluto", almeno in senso sociale), rappresenta un culmine della tendenza a sostituire il conflitto politico con una serie di rappresentazioni fondamentalmente illusorie, diversive, consolatorie e in definitiva concilianti con l'esistente: un trasferimento del contrasto sociale in una dimensione morale - anzi: moralistica - in cui si scaricano le frustrazioni di una sinistra sempre più impotente e di una base sociale che da questa sinistra si sente sempre meno rappresentata.
"Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi", il motto brechtiano può valere a riassumere uno degli argomenti di fondo di questo Eroi di carta.
Vale la pena di prendere sul serio questi argomenti, anche per confutarli eventualmente. Eppure - e qui scatta l'allarme - ciò non è avvenuto: la risposta generale, soprattutto da sinistra, a Dal Lago è del tutto assimilabile a un coro di maledizioni, anatemi, censure. Si va dal fondato paragone sollevato da Enrico Deaglio (pur critico con Saviano in passato) con la solitudine che portò all'assassinio di Giovanni Falcone, all'invito da parte di Paolo Flores d'Arcais di darsi al sesso o ad altre attività creative piuttosto che leggere il libro di Dal Lago (un invito che richiama gli "andate al mare" craxiani in occasione dei referendum sgraditi), dal classico cui prodest di Adriano Sofri all'accusa di iconoclastia (Dal Lago sarebbe rappresentante di una sinistra che fa dell'essere "antisistema" la propria identità) mossa da Luciano Violante, accusa che peraltro offre buon gioco all'autore per uno sghignazzo: "Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone". Fino alle performances di sbuffanti soubrettes in età di "seconda uscita" che si accalorano nei talk-show in difesa dell'aggredito autore di Gomorra.
Forse Dal Lago ha messo il dito in una piaga, non di Saviano, ma degli intellettuali e dei politici che dovrebbero rappresentare la sinistra in Italia.
Da tempo, da noi l'enunciazione di valori è pratica militante obbligatoria, forzata, se si vuole appartenere al club dei virtuosi politici. Il problema forse è proprio che siamo prigionieri, soprattutto a sinistra, della più vischiosa abitudine alla retorica. Un'abitudine che sfiora la tossicodipendenza. Qualche esempio? Sui giornali della Wishful Left italiana si leggono spesso titoli come "Napoli: la città si libera dalla mafia" (Su Terra del maggio 2009) senza che nessuno si chieda perché poi questo non avvenga, e anzi si verifichi il contrario. Oppure il ricorso ossessivo ad alcune immagini-chiave ridotte a feticcio. In primo luogo quella della legalità, simbolo supremo della trasposizione del conflitto nel campo morale, simbolico, retorico su cui avverte Dal Lago. Un valore su cui non si può che concordare, che schiera per natura e, di passaggio, schiera a priori dalla parte dell'ordine. E forse è proprio questo il guaio: non solo l'unanimismo (peraltro rigorosamente confinato nell'impotente sfera del simbolico) ma soprattutto il bisogno di farsi banditori di valori che costringono all'accordo e di individuare nemici "perfetti" la cui mancata esecrazione non può che essere sospetta (dalle mafie alle droghe al terrorismo). O quella della memoria: come si fa a non caldeggiare un incremento di memoria, un'omaggio alla memoria, un'orgia di commemorazioni, giornate della memoria, simboli, liturgie, rituali della memoria? Senza chiedersi naturalmente se la memoria, come il mito, non sia una forma di narrazione, dotata di autore e caratterizzata da notevole, ambigua, arbitrarietà, convenione, contingenza. Invano ricorda Sergio Gonzalez Rodriguez, un perseguitato senza scorta (per aver indagato sugli stermini di Ciudad Juarez), che il contrario dell'oblio non è la memoria ma la precisione. Nella cultura contemporanea, soffocata dall'ipertrofia della comunicazione a effetto e della narrativizzazione, la precisione è un nemico, un tarlo impresentabile, un segnale di malumore interno da liquidare psicoanaliticamente. Quel che serve è approssimare e desiderare, immaginare e rappresentare, e poi schierarsi: arroccarsi su un nobile balcone (sia esso etichettato da legalità, memoria, solidarietà, partecipazione con tutti i suoi corollari dal cantiere partecipato alle primarie, o altri mantra) a guardare il mondo, rassicurati dalla propria indignazione.
In effetti si avvera in maniera parossisitica da noi ciò che scrisse Robert Hughes, critico d'arte di Time: la politica in era postmoderna "è predica ai convertiti: consiste essenzialmente nel prendere un'idea ineccepibile nella sua ovvietà ('il razzismo è male') e poi darle una cifra emotivamente coinvolgente". Con un effetto ricattatorio notevole: chi non aderisce non entra nel circolo dei virtuosi, disturba il bisogno di conciliazione e appagamento che è invece soddisfatto da un atteggiamento solo apparentemente critico. Il messaggio, per farla breve, è: non è necessario scavare, c'è chi lo fa per noi. L'eroe civile. Il magistrato coraggioso. Il prete impegnato. Il volontario. Lo scrittore perseguitato. Il giornalista del giovedì.
È sufficiente iscriversi al club dei fan di qualcuno di questi eroi, è sufficiente concordare. E pazienza se la democrazia è sostituita da Facebook, la pratica dei valori dal museo delle cere dei valori.
È la feticizzazione, temo, il guaio principale della cultura di sinistra italiana (forse non solo), con i suoi effetti musealizzanti, depotenzianti, con la sua fame di simulazioni. È il fatto, si potrebbe dire, che i suoi intellettuali, i suoi giornali, i suoi eroi sono tutti, in una misura o nell'altra, volonterosi produttori in quel sistema che Ivan Illich chiamò del "lavoro ombra". Con l'avvvento della produzione industriale di informazione, secondo Illich, individui e società sono indotti sottilmente a una forma di lavoro mentale forzato che consuma parte essenziale del loro tempo e delle loro energie nel produrre il desiderio di vivere entro il meccanismo dominante, e il desiderio di sopportare il dominio e gli effetti incontrollati di questo sistema che invece li stritola e divora. L'esempio più ovvio è la televisione (nani e ballerine o eroi sociali: chiunque vi sia sullo schermo): "Si provi a calcolare il tempo e l'energia spese da una famiglia a vedere tv e poi, dopo averla spenta, a fare commenti e sogni su quanto la tv ha passato e si avrà la misura del lavoro ombra che invidui, famiglie, società intere sviluppano per tenere in piedi il sistema industriale, nonostante gli effetti controproducenti che si abbattono su di loro: molto più tempo di quello che viene dedicato a lavoro remunerato e vita biologica". Con ciò la famiglia è trasformata in una vera fabbrica di immaginazioni, illusioni, speranze, identificazioni con le classi sociali (o i ceti culturali) dominanti, quelli che davvero - loro sì - godono i benefici del sistema industriale. La produzione di immaginario genera il desiderio di essere come quelli che possiedono. Di questa produzione industriale di immaginario, che è produzione di desiderio masochistico (di liberismo, industrialismo, consumismo) fa parte una grossa quota di lavoro a domicilio. Ne sono parte non solo la tv, ma le feticizzazioni benintenzionate, il giornalismo attuale, la spettacolarizzazione del dibattito politico (anche se esercitata in ruolo di contrappunto, da oppositore), la rete degli eventi e dei festival che sostituisce il consumo culturale alla produzione culturale e sposta il rapporto mezzi-fine facendo della cosiddetta cultura un bene da desiderare in sé, una merce da rendere accessibile al consumo, e non un mezzo per produrre cittadinanza.
Lo scrittore o il suo esegeta che si consegnano alla retorica si fanno datori di lavoro ombra, oltre che lavoratori ombra. Complici di un processo di modellizzazione retorica imperniato sulla sostituzione della pratica di valori con la narrazione di valori. Il nome pronunciato ossessivamente di questo valori civili diventa semplice brand di una branca dell'industria del desiderio, un brand identificato in base alle strategie del marketing: traccio il profilo di un potenziale consumatore e confeziono il prodotto a sua misura. Ciò che resta davanti agli occhi, a valle di questo processo, è un campionario di oggetti privati di valore d'uso: "democrazia" anziché democrazia, "partecipazione" anziché partecipazione. Di questo si può rendere responsabile anche un narratore, insieme ai corifei che ne impediscono la messa in discussione.
È questo lavoro ombra, secondo Illich, che usa la maggior parte dell'energia sociale e sostiene la trasformazione in mercanzia di ogni aspetto della vita e dell'esperienza umana: in un orizzonte di mercato onnipervasivo e iperconsumismo, la possibilità di sussistenza dell'organizzazione sociale dipende proprio da questa produzione del desiderio. Essa deve dunque nutrirsi di narrazioni, soprattutto della trasformazione in narrazione e retorica di valori legati all'organizzazione della convivenza. I più alti fra tutti i valori. Le parole allora diventano bombe, più che pietre, la dipendenza dal mercato comunicativo dipendenza dal mercato tout-court. La produzione di immaginario, generando il desiderio di essere come quelli che possiedono, funziona: nel dominio dell'immaginario si possiede perché si vive in modo immaginario la supposta realtà di chi possiede.
E allo stesso modo si partecipa perché si vive in modo immaginario la supposta realtà di chi decide.
Un narratore è un artificiere: quando si appresta a enunciare valori alti, quando costruisce (o accetta che sia costruita) la propria immagine sulla salvaguardia simbolica di tali valori, quando esalta troppo e troppo sonoramente l'alta missione della parola, si trova davanti a questo ordine di responsabilità. Il narratore che si consegna alla retorica si fa caporale nel bracciantato del lavoro ombra.
Roberto Saviano non lo è. Non lo si può e non lo si deve ridurre a questo, la sua opera ha un valore immenso e ha scosso gran parte dell'indifferenza diffusa sul problema-camorra. Proprio per questo, però, è importante che la sua opera e la sua azione pubblica (non la sua persona) siano lette, analizzate, discusse. Non incensate, adorate, imposte. Su una cosa di certo ha ragione Dal Lago: la reazione emotiva e non discorsiva al suo lavoro segnala un disagio della sinistra: "l'impotenza evidente di un'idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull'opposizione all'anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti - scrive Dal Lago in un articolo di risposta alle critiche - e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l'opposizione no"... Se questo è vero, bisogna ammettere che il culto degli eroi sostituisce di fatto ogni possibilità di incidere sul governo della società. Quanto al trasferimento del conflitto al terreno esclusivamente simbolico-moralista, causa principale di tanta impotenza, dice Dal Lago: "Di questo a Saviano non imputo una responsabilità esclusiva, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell'eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, soprattutto quando parlano dalle tribune mediali, non sono del tutto innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona".
Che cosa resta da fare a chi non si accontenta di visitare - magari pagando un abbonamento-sostenitore - il museo dei valori civili? A chi non si sazia nella contemplazione della teca, nell'adorazione dei suoi guardiani, nel rituale logoro delle elezioni, vere (politiche) o virtuali (primarie) che siano? Non c'è risposta univoca, ma qualcosa si può dire, limitatamente al mestiere di scrivere: si può evitare di enunciare, evitare di rappresentare (l'accusa rivolta a Walter Siti di "non rappresentare la speranza" è un esempio di ottusità simile a quello fornito dal titolo di Terra riportato sopra), ma anzi interrogare, vivisezionare, complicare lo sguardo e smontare gli sguardi già dati. Pronunciare il meno possibile e praticare il più possibile.
Pier Paolo Pasolini disse, a proposito delle stragi italiane, qualcosa che contraddice il bon ton del diritto: "Io so. Ma non ho prove". Prese su di sé la responsabilità di sapere senza farsi scudo di alcun feticcio, l'onere di essere in minoranza. Manifestò con ciò la sua tensione alla verità come una sorta di sesto senso. Ma un sesto senso che prendeva vita dall'attitudine vivisettrice nei confronti della verità fornita dagli altri cinque sensi. Della verità evidente, condivisibile, retorica. Fra questi cinque sensi si estende l'infinito campo del narrare. Il sesto lo si può soltanto praticare. Coniugo così la lezione di Pasolini: se uno si autodefinisce (o permette che lo definiscano) "scrittore" e si mette a enunciare valori come un vate, allora è tempo di sedere a un tavolino e discuterne seriamente con lui. Oppure di rassegnarsi a leggere altro.
Pour citer cette ressource :
Luca Rastello, L' "icona" Robero Saviano e gli intellettuali italiani, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juin 2010. Consulté le 03/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/la-mafia/l-icona-robero-saviano-e-gli-intellettuali-italiani