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Renata Viganò, «L' Agnese va a morire» (1949)

Par Maurizia Morini : Lectrice d'italien MAE et historienne - ENS de Lyon
Publié par Vutheany Loch le 02/10/2007

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Scheda di lettura del libro ((L'Agnese va a morire)) di Renata Viganò, pubblicato per la prima volta nel 1949 da Einaudi.

La considerazione di questo evento storico e dei suoi vari aspetti risulta prioritario nell'analisi di un romanzo considerato l'esempio più significativo e intenso della rievocazione della Resistenza emiliana (Asor Rosa). C'è anche chi sottolinea fortemente l'aspetto politico di questo testo ritenendolo un romanzo tipico della strategia culturale del partito comunista di quegli anni e l'esponente più persuasivo della versione italiana del realismo socialista (Falaschi).

Quando il romanzo apparve la situazione politica e culturale italiana non era delle più serene e un'opera come L'Agnese si trovò al centro di aspre polemiche in cui gli argomenti politici superarono spesso quelli formali ed estetici. Il testo, sul piano culturale, è il frutto di quel particolare clima che, mutuando il termine dall'ambito cinematografico, si usa definire neorealistico. Si tratta non di una scuola, ma di un insieme di voci, di un nuovo modo di guardare il mondo, del rinnovato contatto fra l'intellettuale e il popolo. Vi era in effetti l'esigenza di scoprire l'Italia reale e insieme la fiducia nelle possibilità di rinnovamento e di progresso dell'umanità. Il neorealismo nasceva come il prodotto di un'incondizionata sicurezza nel processo storico, come il frutto di un'ottimistica coincidenza tra cultura e società. Italo Calvino parla di una «una frammentaria epopea, cioè un'avventurosa e provvisoria solidarietà, sostenuta da grande tensione ideale e dalla coesione biografica intorno all'esperienza bellica e resistenziale ma destinata ad un'esistenza precoce, cessate le ragioni di una connessione storico-politica». È forte l'esigenza di realizzare opere che rendano testimonianza delle condizioni oggettive della società, anche per incidere su di esse. Si può aggiungere, con una nota espressione che il neo-realismo è "una fame di realtà".

La Viganò sceglie la via più breve, per compiere questa operazione, quelle dell'ingenua epica popolare che scarta a priori le indagini sulle ragioni della lotta e parte dall'indiscussa asserzione di tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra. «Il suo merito fu quello di riuscire a conservare ad un testo così scopertamente di parte, la convinzione della verità assoluta, che rimane accettabile proprio perché non viene chiassosamente e ufficialmente bandita, ma semplicemente detta». Il libro «segna però un punto d'arrivo nella letteratura che tocca i temi della Resistenza, che d'ora in avanti sarà meno assertoria e più problematica, sfumerà le caratteristiche dell'eroismo e i contorni della verità, preferendo piuttosto peccare nella direzione dell'equivoco ideologico che in quella dell'ingenua rappresentazione» (Manacorda).

Lo stile letterario

L'Agnese va a morire è diviso in tre parti e queste, a loro volta, in capitoli la cui lunghezza media è di una decina di pagine, talora con frequenti spezzature interne la cui funzione è quella di accorciare il racconto per evitare particolari non interessanti. Si ha talora l'impressione di trovarsi davanti a una serie di racconti, nonostante che vi sia lo svolgimento di una storia e che l'opera debba essere letta nella sua completezza.

Sul piano formale si osserva che la descrizione sembra predominare sulla narrazione; le parti narrative prevalgono, quantitativamente, su quelle dialogate; le battute del dialogo sono brevissime, spesso sostituite da gesti (come nella frase seguente: «Tom disse - lascia andare, tanto... e fece un piccolo segno rapido colla mano»); è più frequente il commento del dialogo («Andarono via il Comandante, Clinto e Tom; "in borghese" disse il Cino, come quella volta della spia. Avvertirono di non aspettarlo fino al giorno dopo. Tutti i partigiani furono subito inquieti e curiosi. Vanno a prelevare qualcuno, - dicevano - si scava una buca»).

Una delle caratteristiche costanti dello stile della Viganò è l'uso di frasi molto brevi, al fine di creare un effetto di realismo, che sono più frequenti alla fine dei capitoli e dei paragrafi. Ci si chiede il motivo di tale posizione di privilegio riservata alla notazione oggettiva. Ciò che gli intellettuali avevano sempre interpretato attraverso un registro alto - le azioni eroiche compiute da gente semplice, durante la Resistenza - si scopriva ora nella sua reale radice di quotidianità: nel romanzo, le frasi semplici e oggettive, si trovano spesso nel momento della massima tensione drammatica: «Agnese riuscì a stento, per la distanza, a compitare la parola in grande sul cartello dell'impiccato. C'era scritto partigiano». Si crea, quindi, un divario tra la brevità della scrittura e la grandezza della passione che veicola. Trascrivendo l'eroismo in azioni puramente fisiche si suggerisce che dietro la semplicità di quelle azioni stanno valori assai più nobili: «Agnese finì che era già notte. In casa aveva il fuoco spento, non ebbe voglia di accenderlo. Andò a letto così, con un piatto di minestra fredda per cena. All'alba le mani le facevano ancora male».

I momenti più patetici sono inoltre volutamente accostati a quelli di pù concreta prosaicità: «Cominciò a piangere e le lacrime cadevano sulle cucchiaiate piene» (Agnese sta mangiando).

Altra costante stilistica del testo è l'uso di frasi ricche di parallelismi e di ripetizioni, poiché l'autrice parte anche qui da un'esigenza realistica, che è quella della precisione descrittiva, dell'elenco: «Di giorno i partigiani dormivano, mangiavano si distendevano al sole. Il sole era sempre su di loro bruciava la schiena, anneriva la faccia, pesava come un carico sulle spalle. La terra, le canne la legna secca si riempivano di calore si sentiva allora l'odore morto degli stagni, odore di muri marci, di stracci bagnati, di muffa, come nelle case dei poveri».

Sul piano linguistico (qui, secondo Battistini, non nel sostrato ideologico sta l'assoluta originalità) la Viganò rifiuta l'enfasi oratoria del ventennio fascista e la sua retorica e propone un lessico povero con una doppia finalità: da un lato rendere accessibile il romanzo a strati più vasti di lettori, e dall'altro evidenziare come i protagonisti della Resistenza appartengano alle classi subalterne. L'autrice utilizza il registro del parlato-informale, con solo qualche voce dialettale (cicchetto, boccione di vino, balle, Pippo), per non far perdere al lettore il valore nazionale della guerra di Liberazione. È la lingua quotidiana con un'unica concessione al dialetto nei nomi dei partigiani, Magòn, Cappùcc, Piròn, l'Agnese (con l'articolo), per rafforzare il momento di unione, di solidarietà. Di questo ultimo aspetto una controprova è data dal fatto che i fascisti non hanno mai nome, non sono degni di passare alla storia.

Andrea Battistini propone, in uno dei pochi studi critici su L'Agnse va a morire, un'analisi stilistica molto approfondita, ricca di spunti interessanti soprattutto dal punto di vista didattico. Si può infatti notare come l'uso che la Viganò compie della similitudine non sia quello di fornire «neutre descrizioni o vivaci tocchi espressionistici ma esse rivestono un valore argomentativo, implicito nella scelta del secondo termine di paragone». L'autrice utilizza i termini grandine, tuono, tempo nero, per indicare gli spazi tedeschi, il fronte della guerra (Manzoni nei Promessi sposi riferiva gli stessi alla folla quando assale la casa del Vicario). E ancora usa rimpicciolire il senso del concetto con una figura che trova negli animali somiglianza più efficace (e ci ricorda la poetica pascoliana del fanciullino). I fascisti sono seccanti, noiosi come mosche; la folla anonima è come un branco di pecore; il ricco possidente è avaro come una formica; l'orrore dei combattimenti è guerra di talpe.

La lingua, in sintesi, può apparire dimessa, ma in realtà lo stile è sapientemente orchestrato a mostrare come la lotta partigiana del mondo contadino non abbia bisogno di molte spiegazioni: è un evento naturale, ineluttabile.

Il personaggio dell'Agnese

Agnese, la protagonista, è simbolo di qualcosa di più grande, di più importante che si evidenzia meglio nel testo proprio quando si annulla come personaggio, attraverso l'accumulo di virtù ("negative") come la semplicità, l'umiltà, l'abnegazione. Vive un grande fatto storico, e si annulla come donna (Vassalli la definisce "donna senza qualità") perché incarna una simbologia del sacrificio, un mito destinato a compiersi con la sua morte, già peraltro annunciata dal titolo («Noi non finiamo. Siamo troppi. Più ne muore, più ne viene. Più ne muore, più ci si fa coraggio. Invece i tedeschi e i fascisti quelli che muoiono, si portano via anche i vivi»).

Il carattere di Agnese rivela la sua origine contadina, appare dura e silenziosa, ruvida e scontrosa, il portamento è impacciato; mentre i sentimenti sono istintivi, è generosa e ospitale. Anche l'adesione alla Resistenza sembra, dapprima, istintiva, non motivata ideologicamente, acquista poi consapevolezza e maturità politica; il lavoro per la Resistenza fa "crescere" Agnese. E se il romanzo inizialmente privilegia l'odissea personale di Agnese, nella sua conclusione, invece, la protagonista è parte di un'azione collettiva, corale. Man mano che si sviluppa la vicenda emerge una sorta di compensazione: l'accresciuta sveltezza del cervello va a scapito del corpo: «lei era più forte nel corpo e più tarda a capire: adesso il cervello le si era fatto pronto, ma il corpo si indeboliva».

La figura di Agnese assume talvolta un ruolo simbolico: è il caso del ruolo materno che le viene per esempio attribuito nei confronti di Palita, il marito («Palita era ardito e pareva molto più giovane, tanto che il dottore credette che lui fosse la mamma»).Un'ulteriore e interessante interpretazione della funzione di Agnese viene proposta da Sebastiano Vassalli, per il quale la donna, nell'assistere i partigiani, fa per loro tutto ciò che farebbe una buona madre; ma non è madre e forse non è nemmeno buona. Lo sarebbe senz'altro se non ci fosse l'idea di assorbire tutte le sue energie, a renderla quasi incapace di affetti. Però non è neppure cattiva: anche nel momento culminante del dramma, l'uccisione del tedesco, non è tanto l'ira a spingerla, quanto piuttosto la certezza che così deve avvenire.

Se si prosegue nell'itinerario di decodifica del testo secondo reticoli simbolici, dando cioè valore simbolico a dati apparentemente realistici, si possono fare altri esempi: la linea interpretativa Agnese-madre consente di individuare altre contiguità: la protagonista è costantemente accompagnata da immagini di terra e di acqua. A partire dal mestiere che svolge, la lavandaia, fino alle scene in bicicletta attraverso la campagna sotto la pioggia. L'Agnese comincia poi a rassomigliare alla terra e all'acqua: «Le fissava i piedi: erano scuri e deformi con le dita tutte a nodi e storte, sembravano le radici scoperte di un vecchio albero». Viceversa, l'acqua sembra favorire la somiglianza assumendo caratteristiche umane: «L'avanzata dell'acqua era lenta, annegava dolcemente il terreno, sommergeva con pazienza i campi bruni già seminati a grano, s'introduceva con curiosità nelle case vuote». La valle è il luogo che nel romanzo unifica acqua e terra, una zona intermedia, una sorta di palude nella quale i partigiani combattono la loro lotta; la stessa Agnese si identifica con la valle: «ora stava meglio, respirava nel fresco dell'acqua come la valle».

L'Agnese non è, inoltre, solo la protagonista del romanzo ma è soggetto e oggetto del sacrificio, reale sotto certi punti di vista ma disumana nella sua grandezza, per la sua capacità, spinta fino all'assoluto, di annullarsi nei fatti, nelle vicende. Si veda l'epilogo del libro preparato - come una messa a fuoco - dalle conclusioni della prima e della seconda parte.

Gli altri personaggi

«"Il Comandante è il comandante" dice Agnese».

È un intellettuale, lo conferma la taglia (piccolo, scarno, piccole mani, capelli biondo-grigi), il suo tratto distintivo è la voce (fredda, pacifica, dolce, amara), e ha più di altri diritto alla parola. È indubbiamente superiore, un leader esterno al mondo contadino che va a guidare e rappresenta l'elemento autocosciente della Resistenza, che viene celebrato in modo un po' agiografico, affinché risulti la compatta unità di un movimento condotto da un uomo che si eleva per meriti acquisiti e non ereditati: «sapevano, i partigiani, com'era dura la sua forza, avevano visto il suo coraggio, sempre in testa nelle azioni e sempre disposto a soffrire con loro, mai un privilegio né una distinzione che non fossero il diritto al comando, il carico delle responsabilità».

A mio parere è un po' forzata l'interpretazione di Asor Rosa per il quale «il Comandante è il prodotto di un transfert autobiografico ed ideologico della Viganò che finisce per modellare la storia sugli schemi delle speranze dei programmi di ristretti gruppi di rappresentanti della cultura». Più convinvente l'affermazione di Vassalli: «il Comandante impersona un'idea, rappresenta il dovere e l'aspirazione lucida verso un mondo migliore, tanto intensi da configurarsi come una proiezione del super-io».

I partigiani: attorno ad Agnese ci sono appunto i partigiani, di essi si sottolinea soprattutto che non sono "altro" dal popolo perché: «la forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche».

Ai partigiani si oppone una natura avversa, il paesaggio è comunque monotono, «è un luogo triste, grigio, un orizzonte sconsolato, lo spazio nudo; anche col passare delle stagioni la terra resta desolata, ostile, è una palude. Il fango è vischioso come la colla, l'acqua torbida e sporca, viscida e calda, non certo fatta per spegnere la sete, acqua piena di erbe e fango, da cui emana un odore di mare guasto, di erbe disfatte».

I tedeschi: i patrioti sono in lotta con un altro nemico, più forte della natura avversa; se infatti l'ambiente può essere assorbito dai partigiani fino a vivere in simbiosi, con i tedeschi l'assimilazione è impossibile. La lingua stessa dei tedeschi appare assurda, estranea ed è rifiutata («era un nome difficile, non lo ricordo più»). Nella contrapposizione partigiani/tedeschi compaiono nuclei antitetici: il dialetto locale/ la lingua tedesca; il silenzio degli uni/ il rumore degli altri; l'umanità dei partigiani/ la bestialità dei tedeschi. Il silenzio che avvolge gli atti dei partigiani si identifica con la tranquillità. Il rumore è invece sinonimo del pericolo e del caos che la presenza dei tedeschi porta con sé (comandi, imprecazioni, grida). «Loro sono amorfi, inespressivi, i soliti tedeschi rigidi, senza vita, numeri di matricola, ai comandi di un pazzo... hanno poco di umano: gli elmetti calcati sulle orecchie, le facce bionde, sbiadite, inespressive». Solo il riso rappresenta un segno del loro essere uomini, quello dei partigiani è scherzoso, amichevole, il loro è sadico e crudele, accompagna anche l'assassinio (negli episodi del partigiano impiccato e dell'Agnese alla fine). Tutto il romanzo è pervaso di lutti e morte, quella data dai tedeschi è lenta e inutile perché non può arrestare il corso degli eventi. Anche i partigiani danno la morte, ma sono sbrigativi, pratici, non lo fanno per crudeltà gratuita ma «per necessità priva di odio».

Gli alleati: verso di loro la Viganò ha un atteggiamento ironico per la lentezza con cui collaborano col movimento dei partigiani; intende cioè mostrare che l'apporto degli alleati, almeno per i partigiani dell'Agnese, non fu determinante. Riprendendo poi un luogo comune consolidato, riporta la passione degli inglesi per lo sport: la guerra, per loro che non rischiano, diventa un gioco: «Gli inglesi sono degli sportivi, gli piacciono le belle imprese di forza. Gli aerei con quel girotondo pareva che giocassero. Avevano l'aria di fare delle scommesse, una gara per vedere chi riusciva a colpire il bersaglio; forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: Scommettiamo che ci prendo in quella casa là (agli anglo-americani piacciono le scommesse), e il collega rispose: Scommettiamo di no...».

Conclusioni

Una prima analisi del romanzo potrebbe anche concludersi qui, tuttavia è possibile aprire un altro terreno di indagine e rileggere oggi L'Agnese sulla base di nuovi strumenti di conoscenza; si pensi a quel filone di ricerca che, a partire dalla fine degli anni '70, dagli studi sulla storia delle donne della Resistenza si intreccia alla storia di genere e del femminismo. E questo per alcuni buoni motivi: perché la protagonista è l'Agnese, partigiana; per l'unanime riconoscimento attribuito alla Viganò per la sua attività di scrittura unita a un'intensa attività politica; per quel tanto di non detto che riguarda la presenza femminile nella Resistenza.

Oggi con la storia orale, con il recupero della memoria, con l'apporto di Istituti della Resistenza e di associazioni di storiche si sono avviati studi e approfondimenti in questa direzione. Le ricerche sono comunque in buona parte ancora in itinere; alcune di loro ci offrono comunque spunti interessanti di riflessione, per esempio Ernesto Galli della Loggia ritiene che, sullo sfondo del conflitto con regimi costruiti sul mito della virilità, si sviluppi un'immagine della seconda guerra mondiale come guerra "femminile" di contro al carattere maschile e mono-sessuale della prima, e questo proprio a partire dai gruppi clandestini e della lotta partigiana, dove vicinanza e familiarità favoriscono valori e comportamenti libertari ed egualitari nel rapporto uomo-donna.

È indubbio infatti che la guerra fu un evento totale che impegnò a fondo la quotidianità di ciascuno; è da questa demilitarizzazione del confronto bellico che trae origine il carattere "femminile" della seconda guerra mondiale.

Su questa presenza ci sono però molti vuoti, c'è un vasto non detto e soprattutto non pensato. Sarebbe importante affrontare storicamente e politicamente lo studio delle presenze femminili, analizzare per esempio in profondità l'esperienza estrema delle partigiane inserite nel microcosmo della banda o costrette alla clandestinità o nel rapporto con altre donne partecipi del clima eccezionale della guerra di Liberazione. Valga solo un esempio: quello relativo alla tendenza all'asessualità delle donne della brigata, che rendeva possibile la convivenza in un collettivo prevalentemente maschile, ne favoriva il clima di amore fraterno dovuto alla particolarità del momento. Queste presenze inquietano, giovani donne mischiate ai maschi nelle formazioni sfidano troppe ideologie sul femminile, a partire da quella relativa al rapporto donne-armi; e non è certo un caso che, finita l'emergenza, vengano messe ai margini. Così come non è casuale che la partigiana ideale, il modello della resistenza femminile sia la protagonista de L'Agnese va a morire, ossia una donna informe, materna e in età.

Per molte partigiane, comunque, il ritorno alla normalità, dopo il 1945, fu difficile, e non solo per la delusione politica. Nell'esperienza fatta si erano varcati i confini della famiglia e del paese, superati i limiti del proprio sesso, delle condizioni date. Infatti, come scrisse in una sua poesia Renata Viganò, per entrare nella Resistenza occorreva uscire «fuori della vita».

Nota bibliografica

Di Renata Viganò ricordiamo le raccolte delle liriche: Ginestra in fiore, Piccola fiamma, Il lume spento; per la narrativa, oltre L'Agnese va a morire, segnaliamo gli altri titoli: Mondine, Arriva la cicogna, Donne della Resistenza, Ho conosciuto Ciro, Una storia di ragazze, Matrimonio in brigata. Per la letteratura critica si vedano: Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli 1965; Andrea Battistini, Parole e guerra. Lingua e ideologia dell' "Agnese va a morire", ferrara, Bovolenta 1983; Italo Calvino, La rivolta dei pescatori, su «L'Unità» del 4 agosto 1949; Simona Costa, in AA.VV., Narratori italiani del secondo novecento, Roma, Nis, 1965; Giovanni Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi 1976; Sebastiano Vassalli, Prefazione a L'Agnese va a morire, Torino, Einaudi 1994.

Per un approfondimento sul tema del ruolo delle donne nella Resistenza si rimanda a: Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, Guerra senza armi: Storia di donne, 1940-45, Bari, Laterza 1995; Michela De Giorgio, Le italiane dall'Unità a oggi, Bari, Laterza 1992; Marcel Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne: il novecento, Bari, Laterza 1994; Ernesto Galli della Loggia, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza 1991; Giorgio Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea, Roma, Editori Riuniti 1979; Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia 1988; Franca Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia-Romagna: 1943-45, Milano, Vangelista 1978; Giorgio Pullini, Il romanzo italiano del dopoguerra, Venezia, Marsilio 1976; Quale storia in Memoria 33, Torino, Rosenberg & Sellier 1993; Resistenza e Femminismo, in Storia e problemi contemporanei 4, Urbino, Quattroventi 1989; Donne, guerra, resistenza nell'Europa occupata, Seminario internazionale, 14-15 gennaio 1995, Milano, Società italiana delle storiche 1995; All'altra metà del cielo l'impegno di alzare la voce, Notiziario ANPI marzo 1995.

Version remaniée par l'auteur de l'article Renata Viganò: «L'Agnese va a morire» paru dans le recueil 60/60 L'esame di maturità: spunti e approfondimenti, publié par Giunti, Firenze 1995, avec le soutien de la Commune de Cavriago (Reggio Emilia).

Avec l'aimable autorisation de la Commune de Cavriago.

Pour citer cette ressource :

Maurizia Morini, "Renata Viganò, «L' Agnese va a morire» (1949)", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2007. Consulté le 28/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/renata-vigano-l-agnese-va-a-morire