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Una città, una storia. Reggio Emilia: un percorso nella memoria collettiva

Par Maurizia Morini : Lectrice d'italien MAE et historienne - ENS de Lyon
Publié par Damien Prévost le 07/10/2008

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La regione Emilia-Romagna è stata ed è per gli storici un caso di studio molto interessante, per le dinamiche economiche e politiche che qui si sono sviluppate negli ultimi decenni, tanto da coniare espressioni come modello emiliano e laboratorio politico. Se le definizioni sono il frutto di analisi socio-economiche degli anni Ottanta, il sistema emiliano nasce da lontano e designa essenzialmente una combinazione di realtà economiche fondate su medie e piccole imprese ad alta qualificazione, sostenuta da un governo di sinistra, con ampio consenso sociale e che realizza un welfare state di alto livello.

La regione Emilia-Romagna è stata ed è per gli storici un caso di studio molto interessante, per le dinamiche economiche e politiche che qui si sono sviluppate negli ultimi decenni, tanto da coniare espressioni come modello emiliano e laboratorio politico.

Se le definizioni sono il frutto di analisi socio-economiche degli anni Ottanta, il sistema emiliano nasce da lontano e designa essenzialmente una combinazione di realtà economiche fondate su medie e piccole imprese ad alta qualificazione, sostenuta da un governo di sinistra, con ampio consenso sociale e che realizza un welfare state di alto livello.

L'economia regionale ha una tradizione prevalentemente agricola - mezzadrile e bracciantile - e quando nel secondo dopoguerra si avvia il processo di riconversione industriale, la disoccupazione nelle campagne e i licenziamenti dalle industrie sono elevati. Le lotte per il lavoro sono quindi prevalenti in questo periodo, ma l'eredità resistenziale, legata peculiarmente al Partito comunista è molto forte e si esplicita in lotte per la proprietà del lavoro, per il suo controllo.

Gli operai e i contadini emiliani, dopo la guerra e la resistenza, esprimono una orgogliosa cultura del lavoro, accompagnata da una forte dimensione politica; una identità questa, caratterizzata da assunzione di responsabilità individuale e collettiva che promuovendo forme diffuse di solidarietà, iniziative sociali e ricreativo-culturali, in assenza delle isituzioni pubbliche statali, sostengono le amministrazioni locali rosse.

L'etica del lavoro, l'identità comunista sono quindi alla base di un modello vincente in termini di modernità sociale e sviluppo economico, sia in forma di imprenditoria individuale che cooperativa.

Gli anni dell'immediato dopoguerra, come si è accennato, non furono anni facili ma il Partito comunista emiliano seppe utilizzare una dinamica vincente per la modernizzazione della regione, mediando tra la conservazione di tradizioni e l'innovazione; in altri termini si può affermare che è stato il partito della mediazione, fra le esigenze di differenti gruppi sociali e ha evitato conflitti troppo aspri.

Nel corso degli anni l'occupazione in agricoltura cala, mentre cresce quella industriale e sono soprattutto le province di Modena e Reggio Emilia quelle in cui avviene maggiormente lo sviluppo industriale.

Una caratteristica peculiare della struttura industriale è rappresentata dai cosiddetti distretti industriali, territori in cui sono presenti in gran numero piccole-medie imprese a conduzione familiare che operano su segmenti di un medesimo ciclo produttivo, con rapida diffusione di conoscenze tecniche, di mercato e valorizzazione di talenti e attrezzature. La struttura medio-piccola permette una maggiore flessibilità e accanto alla diversificazione produttiva rappresenta la peculiarità del modello; il successo in termini economici è talmente forte che il reddito pro capite dell' Emilia Romagna è uno dei più elevati d' Europa.

Si è detto quindi, imprenditorialità diffusa e cooperativa (nei due significati di solidarietà e impresa cooperativa), tradizione di partecipazione di massa ai movimenti politico-sociali che hanno portato a costruire migliori condizioni di vita.

Non è necessaria una lunga argomentazione per sostenere il filo rosso che lega l'impegno civile e politico degli emiliani alla diffusione che la resistenza antifascista ha avuto fra la popolazione, proprio perchè univa alla possibilità di liberazione dai nazifascisti, la prospettiva di rivendicazioni sociali a lungo sopite, del riscatto di ingiustizie patite a seguito dell' alleanza fra fascismo e proprietà agraria. E ciò riguarda non solo la scelta di prendere le armi, di agire in clandestinità ma un coinvolgimento e un sostegno ampio, dalle case di ospitalità e latitanza, agli scioperi, alla partecipazione femminile, al sostegno dei contadini in pianura e in montagna.

Ricordiamo a titolo esemplificativo il primato che ha la regione, in Italia, per il numero di partigiani ufficialmente riconosciuti. Tale impegno ha contribuito a costituire una forte impronta individuale e collettiva che politicamente ha determinato la crescita del Partito comunista, per il ruolo che questa formazione ha espresso durante la Resistenza, con l'evidente risultato di continuità fra esperienza resistenziale e le scelte politiche successive. Una lunga liberazione che in alcuni casi, nel reggiano e nel modenese, si è espressa anche con atti di violenza dopo il 25 aprile 1945; si era voluto, in un certo senso, portare a termine l'operazione resistenziale nei confronti di precisi responsabili del fascismo e del collaborazionismo.

Una "lunga liberazione" che in altri casi ha rappresenato la speranza rivoluzionaria, l'occasione per un nuova società in cui non secondario era il modello sovietico; sogno, che come è ben noto, non ha retto di fronte agli sviluppi storici degli anni successivi.

L'ideologia della Resistenza tradita si è sedimentata e conservata in alcuni ex resistenti e riemergerà, parzialmente, alla fine degli anni sessanta in una nuova generazione. Si fa riferimento al gruppo di militanti fuoriusciti dal PCI di Reggio Emilia nel 1969 e che contribuiranno alla nascita della formazione delle Brigate Rosse; per costoro determinante è stato il convincimento che idealmente si potesse riprendere l'ipotesi rivoluzionaria dove si era interrotta.

Ovviamenti altri eventi hanno avuto pesi fondamentali sulla formazione politica del gruppo di giovani che si riunivano nell'appartamento, nel centro storico di Reggio. Minaccia o tentato golpe del generale De Lorenzo nel 1964, del neofascista Junio Valerio Borghese nel 1970, la strage di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969 e il terribile ricordo dei cinque morti e numerosi feriti, ad opera della polizia, il sette luglio del 1960 a Reggio Emilia.

Quel luglio è impresso nella memoria collettiva della città, per l'intensità della violenza e per la natura di chi è colpito: giovani iscritti al PCI, tre dei quali ex partigiani.

Si tratta dell'episodio più grave di una situazione tesa da mesi, da quando nell'aprile dello stesso anno, il governo Tambroni aveva ottenuto la fiducia con i voti del Movimento Sociale Italiano (partito neofascista); nei mesi successivi diverse manifestazioni e frequenti scontri con la polizia esprimeranno gli umori degli italiani.

A Reggio il 7 luglio è sciopero, proclamato dalla CGIL, come in altre province, per protestare contro i duri interventi della polizia, avvenuti a Roma e Licata; si parla di migliaia di persone in piazza, ci sono i partigiani, ci sono i giovani delle magliette a strisce.

La polizia spara sulla folla: lacrimogeni, colpi di pistola, raffiche di mitra; la gravità e la predeterminazione dei comportamenti della celere sono ampiamente e drammaticamente documentate. Il giorno successivo è sciopero generale in tutto il paese e ai funerali dei cinque reggiani uccisi parteciperanno una folla immensa.

Ci siamo volutamente soffermati sulla descrizione del 7 luglio, per le conseguenze nel tempo di quegli scontri che costituirono un ricordo indelebile di violenza di Stato contro cittadini e lavoratori, per i giovani che in quegli anni si stavano avvicinando all'esperienza politica.

Alcuni di quei ragazzi fra il 1969 e il 1970, in collegamento con altri a Torino e Milano saranno i capi storici delle Brigate Rosse e i protagonisti della violenza politica degli anni Settanta.

Sul piano economico, i primi anni Sessanta sono gli anni del boom: a Reggio Emilia vengono sfruttate pienamente le risorse di competenze, di etica del lavoro, di risparmio e di investimento, di decentramento produttivo, di cooperazione che costituiranno la base del benessere degli anni '70.

Nello stesso tempo il centro sinistra nazionale, le lotte sociali, la contestazione studentesca e operaia permetteranno di ottenere leggi e risorse finanziarie per costruire asili nidi e scuole per l'infanzia comunali, strutture per anziani, servizi territoriali psichiatrici, consultori per l'utenza femminile. Servizi sociali innovativi che sperimentano la positiva alleanza fra amministratori "attenti", generazionalmente figli della Resistenza e delle lotte degli anni Cinquanta, operatori disponibili a farsi carico dei problemi, e partecipazione diretta dei cittadini.

Un welfare reggiano fondato sullo sviluppo di servizi, ben differente dal welfare assistenziale, come accade nelle regioni meridionali, che elargisce sussidi; e che dopo una fase di sperimentazione, produce una vera e propria cultura dei servizi.

Sul finire del decennio e ancora di più negli anni Ottanta, tuttavia, una serie di cambiamenti determinano rapide trasformazioni: la scelta della politica del compromesso storico, il ricambio a livello dirigenziale nelle istituzioni locali e nel PCI, una partecipazione meno critica e burocratizzata, la rapida diffusione del lavoro a domicilio che sottende ampie logiche di sfruttamento, l'affermarsi di uno stile di vita mirato ad una rapida ascesa sociale e di accumulo di denaro conducono anche i servizi del welfare emiliano e reggiano verso un periodo di riflusso e di crisi.

A livello amministrativo locale si apre al Partito popolare e la nuova scelta politica, in una logica di risparmio e rigore, va verso l'appalto di servizi sociali ai privati in una scelta di aziendalizzazione che significa pure un nuovo modo di considerare il rapporto con l'utente, e un carico di cura a carico della famiglia, soprattutto delle donne, considerevole.

Accennare al ruolo dell'istituzione familiare nell'economia sociale rinvia all'analisi della funzione che essa ha giocato nella costruzione del sistema "Emilia", proprio perché la coesa organizzazione familiare è stata, nella regione, un supporto fondamentale per lo sviluppo economico.

Nello stesso tempo la salvaguardia della famiglia è stata espressione di strategia politica centrale dei partiti della sinistra, per lo meno fino ai primi anni Settanta. Anche nei periodi di crisi, comunque, la famiglia emiliana ha saputo adattarsi, trasformandosi ma senza rotture definitive ed ha mantenuto la sua funzione di unità economica, di luogo di erogazione di servizi per i suoi componenti, di coordinamento con i servizi sociali e di trasmissione di tradizione e valori. In sostanza, questo sistema integrato ha funzionato come un ammortizzatore, mediando e assorbendo tensioni, nei periodi di cambiamento nel mercato del lavoro e nel mutamento degli atteggiamenti culturali.

Va comunque considerato che, soprattutto in questi ultimi anni, i cambiamenti culturali e materiali sono diventati più evidenti ed hanno prodotto alcune smagliature, in particolare fra i giovani; tali incrinature hanno fatto percepire una presa di distanza dalla realtà circostante, apparentemente senza profonde fratture. Il tessuto emiliano sembra tenere ancora insieme il vecchio e il nuovo, in una circolarità mista di tradizione e mutamento, di varchi e ricomposizioni.

Parliamo di famiglia come di un insieme di soggetti, e senza un'equilibrata distribuzione del potere fra i componenti, con una prevalente divisione rigida dei ruoli. Una famiglia protettiva e aperta al tempo stesso: protettiva nel limitare il distacco e l'autonomia dal contesto delle donne e aperta sul piano lavorativo. Ricordiamo che l'Emilia ha uno dei più alti tassi, in Italia, di manodopera femminile occupata. Vi è uno stereotipo antico nel presentare il ruolo forte delle donne emiliane: le rezdore che reggevano la casa della mezzadria e della famiglia contadina e vi è un'immagine più recente di donna presente e attiva nella scena regionale.

Dalla resistenza alla ricostruzione, nelle organizzazioni politiche, nel lavoro, nei servizi sociali.

Si tratta di un protagonismo che non ha tuttavia i connotati dell'eccezionalità; per le regole della politica le donne sono state considerate, a volte non integrabili, troppo dirompenti con un conseguente mancato riconoscimento in termini di carriera e cariche e la regione ha prevalentemente conservato strutture di potere, organizzazione e tempi maschili nell'agire politico.

Nonostante la collocazione parziale e o marginale, le donne sono state presenti, soggettivamente partecipi nei partiti, nel sindacato, nel movimento cooperativo e nel contesto emiliano rappresentano la trasmissione dei valori del lavoro e della partecipazione che sono alla base del suo sviluppo storico.

Un'emancipazione che ha trovato supporto politico, esprimendosi con mobilitazioni di massa, rivendicazioni di uguaglianza e una abitudine a riflettere sulle vicende politiche e sociali ma più resistente sui temi della soggettività e nella messa in discussione dei ruoli familiari .

Un'identità femminile caratterizzata da forza di volontà, concretezza, e fare, fare da sé; soprattutto una notevole capacità e necessità di adattamento al principio di realtà.

Questa immagine solida e tradizionale si è impattata, negli anni Settanta, con il femminismo e la carica dirompente che esso esprimeva. La pratica femminista ha messo duramente in discussione la divisione sessuale dei ruoli, la rigidità familiare ma nella regione, proprio per il contesto in cui si è inserita, si è espressa con toni meno estremi. Le rivendicazioni relative al divorzio (referendum del 1974) e all'aborto (referendum del 1981) hanno visto l'incontro/scontro fra la linea dell'emancipazione e della liberazione ma soprattutto, attraverso la questione aborto, le donne trovano un equilibrio fra politica e soggettività femminile.

Più in generale i temi del femminismo si insinueranno nelle istituzioni (con i coordinamenti sindacali di sole donne, la presenza nei comitati di gestione nei consultori) e negli anni Ottanta diverse ammnistrazioni locali appoggeranno iniziative culturali come convegni, centri di documentazioni femminili, case per le donne.

In sintesi il femminismo in Emilia-Romagna ha espresso tratti particolari quando, incontrandosi con una cultura tradizionale femminile di conciliazione, di donna forte ma equilibrata ne ha intaccato la linea emancipatoria ma con un risultato di scambio circolare tra valori dirompenti e modelli comprensivi e reciproci cambiamenti.

Insistiamo su questo aspetto di mutamento nella continuità per lo specifico contesto emiliano, ma considerando il periodo più recente, i cambiamenti culturali e materiali sono più marcati e, soprattutto in alcune aree, sono il segno evidente di una rottura e distanza fra i cittadini e la realtà circostante.

Circoscrivendo il discorso all'area reggiana, nell'arco di pochi decenni, la zona si è trasformata radicalmente, delineandosi come una comunità postindustriale, terziarizzata, concentrata sulla finanza e che ha attratto un alto numero di immigrati.

Cambiamenti questi che hanno inciso nella vita degli uomini e delle donne e più complessivamente nella trama sociale del territorio.

Apparentemente la società reggiana non sembra orientata verso la disgregazione e sostanzialmente l'argine della tradizione, fondato su sacrificio, spirito d'impresa e solidarismo, sembra mantenere queste peculiarità; tuttavia le generazioni che avevano costruito questo stile di vita stanno scomparendo e rimane aperto l'interrogativo sui comportamenti e le scelte delle nuove generazioni.

 

Pour citer cette ressource :

Maurizia Morini, "Una città, una storia. Reggio Emilia: un percorso nella memoria collettiva", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2008. Consulté le 19/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/les-annees-de-la-contestation/una-citta-una-storia-reggio-emilia-un-percorso-nella-memoria-collettiva