Dossier Francesca Melandri, « Eva dorme » (2010)
Couverture du roman Eva dorme, de Francesca Melandri
(éd. Bompiani, 2025)
Fiche de lecture (par Lisa Naturale)
L’autrice
Dopo aver lavorato per molti anni anni come documentarista e sceneggiatrice per il cinema e la televisione, Francesca Melandri (Roma, 1964) esordisce come scrittrice con il romanzo Eva dorme nel 2010, riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica. È vissuta per quindici anni in Alto Adige, regione dove ha ambientato questo romanzo.
Il romanzo
Storia (la questione altoatesina) nella storia di una madre (Gerda Huber) e di sua figlia (Eva), la trama si snoda dall’immediato primo dopoguerra ai giorni nostri. Dopo un prologo che elucida in parte il senso del titolo (Eva dorme quando arriva un pacco indirizzatole ma rispedito al mittente dalla madre), il lettore comincia un viaggio al contempo temporale e spaziale che lo porterà a scoprire le vicende dei personaggi principali. Gerda, da apprendista cuoca, diventa la “degna sostituta” del cuoco di un grande hotel di Merano. È una ragazza madre ripudiata da un padre (Hermann Huber) taciturno ed inasprito dalle difficoltà della sua vita personale e del contesto storico-sociale (l’Alto Adige nei primi decenni del Novecento). Ha una figlia illegittima, Eva, affidata per dieci mesi all’anno ad una famiglia del piccolo paese montano di cui è originaria. Eva da bambina aspetta con trepidazione l’arrivo della madre con cui passerà le vacanze; cresciuta senza padre, crede di averlo trovato in Vito, il carabiniere calabrese per qualche tempo compagno di Gerda. Sarà proprio per rivederlo, dopo molti anni dalla sua partenza vissuta come un tradimento, che Eva intraprende un lungo viaggio attraverso l’Italia, scoprendo infine una verità nascosta.
Una narrazione che scorre su due binari
I capitoli il cui titolo è un periodo temporale preciso (1919), più o meno lungo (1925-1961; 1961-1963...), si alternano a quelli intitolati con l’indicazione di una distanza chilometrica (Km 0; Km 0-35...).
Questo ritmo binario nell’organizzazione narrativa del romanzo corrisponde al duplice viaggio che l’autrice vuol far compiere al lettore. Da una parte, nei capitoli aventi per titolo un arco temporale definito, vengono narrate le vicende dei personaggi che partecipano alla trama narrativa nell’ordito della Storia dell’Alto Adige. Parallelamente, nelle sezioni denominate dalla lunghezza del tragitto, il lettore accompagna Eva nel percorso fisico (dalla sua casa in Alto Adige a quella di Vito in Calabria) ma soprattutto di introspezione che la porteranno a riconciliarsi con il suo passato.
La duplice dinamica della costruzione del racconto è sostenuta da un’altra alternanza, quella delle voci narranti : un narratore esterno nei capitoli contrassegnati da una data; uno interno (Eva) in quelli designati con la distanza chilometrica. Al lettore vengono quindi proposte due prospettive narrative con finalità diverse.
La prima (eterodiegetica) è il canale per esporre al lettore le vicende dei personaggi calate nel contesto storico-sociale dell’Alto Adige. Possiamo citare a titolo d’esempio il capitolo 1925-1961 dove il processo di “italianizzazione” del Tirolo del Sud/Alto Adige (attribuito all’Italia con il trattato di Saint-Germain del 1919) si intreccia con la storia di Hermann:
"Niente tedesco parlato in pubblico, niente abiti tirolesi, né Dirndl né Tracht né Lederhosen, nulla che permettesse d’insinuare che il nuovo confine del Brennero non fosse il sacro limite dell’italico suolo: questa era la legge fascista." (p. 28-29)
"Qualche tempo dopo, nonostante lo schiaffo e l’umiliazione ((Avendo bestemmiato in pubblico in tedesco, Hermann è schiaffeggiato da un impiegato del catasto fascista senza essere difeso dai suoi concittadini.)), o forse proprio per questo, sul bavero di Hermann prese a scintillare la cimice, la spilletta con il fascio littorio degli iscritti al partito. I gerarchi locali videro la cosa con favore e gli insegnarono a guidare il camion." (p. 29)
Il narratore esterno può fornire al lettore tutte le informazioni utili per inserire i personaggi nella realtà storica che vivono, così da comprenderne meglio le reazioni.
Con il cambiamento d’angolazione narrativa nei capitoli intitolati con il numero di chilometri percorsi da Eva, l’io narrante riporta il lettore nell’immediatezza dei fatti, al tempo stesso vissuti e raccontati, percorrendo con lui i 1397 chilometri del suo viaggio verso Vito e rendendolo partecipe delle sue riflessioni.
Queste ultime riguardano sia le sue vicende personali:
“Ho mai pensato a Vito mentre stavo crescendo? Non saprei dire. La sua uscita dalla nostra esistenza fu così repentina. Così inaspettata, almeno per me. Per mia madre no, certo, ma a me nessuno diede alcuna spiegazione” (p. 59)
che i paesaggi che osserva dal finestrino del treno:
“Alla destra del treno, il promontorio di Gaeta spunta come una mitologica testa di cetaceo dalle acque del Mediterraneo. Verso lo scintillio del mare digradano oliveti e agrumeti, campi gialli, fucsia e rossi. Colori d’abbondanza, generosi, di vita buona. A sinistra invece, verso l’entroterra, le montagne scorrono scabre e dure, grifagne. Anche se molto più basse, intimidiscono quasi come i nostri ghiacciai.” (p. 223)
Passando da una prospettiva espositiva all’altra, Eva-personaggio diventa Eva-narratrice, un ponte gettato tra le due rive della trama, che viene a rinforzare la dualità dell’edificio narrativo.
Ritratti di “famiglia”
Tre generazioni (Hermann, Gerda e Eva) costituiscono i rami principali dello stesso albero genealogico, quello degli Huber.
La trama comincia a dipanarsi facendo entrare in scena il personaggio di Hermann. È il 1919, l’anno dell’accordo di pace di Saint-Germain ma anche della morte dei suoi genitori : il filo della Storia si intreccia fin dalle prime pagine con quello delle vicissitudini personali. Il lettore segue il percorso esistenziale di quest’orfano di lingua tedesca e cultura tirolese da quando, all’età di undici anni, è costretto a lavorare come garzone / Knecht nei masi fino ai suoi ultimi momenti di vita, nel 1992. Tra i due estremi cronologici, Hermann è entrato nelle SA, è partito con moglie e figli come Optant (emigrante nella Germania hitleriana) ed è tornato nella sua vallata alla fine della guerra, riuscendo dopo molti sacrifici a comprare un camion per lavorare come trasportatore di legname, senza però integrarsi fra la gente rimasta sul posto. Incapace di accettare la “perdita” – che sia quella della madre, unica persona veramente amata, o quella della Heimat (patria come casa), – Hermann è profondamente segnato dalla solitudine, taciturno, incapace non solo di mostrare il minimo segno di affetto ai suoi famigliari ma anche di accettare quello di sua moglie Johanna. Malgrado la sua durezza d’animo, la sua umanità, quella “tenerezza nascosta” che Johanna credeva di aver scorto in lui quando l’aveva scelta come moglie, riaffiora in rari episodi: alla morte del figlio Peter (terrorista per la “redenzione dell’Heimat”, p. 218) e al ricordo di sua madre che le appare in un sogno ricorrente e che, incosciente, vede nei tratti di Gerda che le somiglia così tanto.
Gerda, la figlia bellissima fin da bambina, con “gli zigomi alti, la fronte tonda, la bocca carnosa, i lunghi occhi azzurri” (p. 41); Gerda, la figlia che lui, Hermann, ha accettato di mandare a lavorare nella cucina di un grande hotel di Merano anche se la famiglia non si trova più in ristrettezze economiche; Gerda, la figlia ripudiata perché incinta di un uomo che non l’ha sposata. Ma Gerda è anche la sola dei figli Huber ad essere riuscita a prendersi la rivalsa sul suo destino. Contrariamente al fratello Peter che, sentendo indebolirsi la sua identità tirolese, cerca di ritagliarsi uno spazio in una terra forzatamente “italianizzata” diventando un terrorista, Gerda non entra in conflitto con il contesto (familiare, sociale, politico) in cui si muove. In grado di accettare ma anche di scegliere, Gerda fa prova di una straordinaria capacità ad adattarsi e a risollevarsi. Obbedisce al padre andando a lavorare a sedici anni, ma da lavapiatti “lesta e capace” (p. 76) diventa la sostituta del capocuoco Herr Neumann. Dopo aver dato alla luce Eva, figlia illegittima, presso le suore dell’Opera nazionale maternità e infanzia a Bolzano, decide di non darla in adozione: ”Era la prima cosa al mondo che Gerda potesse chiamare sua” (p. 110). Assumendo il nuovo ruolo di ragazza-madre, Gerda ne accetta le difficoltà (conciliare lavoro e cura della bambina; affrontare il peso della riprovazione sociale), riservandosi un tempo esclusivo per mantenere saldo il rapporto con sua figlia nei due mesi di vacanza passati con lei. E Gerda continuerà a decidere quando metterà fine alla relazione sentimentale con Vito, il carabiniere calabrese in servizio in Alto Adige, affinché non sia lui a dover scegliere tra l’Arma e l’amore per una donna non sposata e la sua figlia illegittima. Infine, Gerda sceglierà di respingere il tentativo di Vito di riallacciare il rapporto affettivo interrotto con Eva, rifiutando il pacco destinatole dall’unico uomo che per qualche tempo aveva naturalmente assunto il ruolo di padre per sua figlia.
Terzo ramo della famiglia Huber, Eva-narratrice è una donna non più giovane, alta, bionda, “piacevole”, con i lineamenti di sua madre, “ma in versione approssimativa” (p. 18), elegante. Organizza eventi mondani e, quindi, viaggia molto per lavoro. Dal sonno “raro” (p. 19), proprio dopo una notte insonne di ritorno da un viaggio a New York, risponde al telefono di malagrazia: è Vito che le chiede di rivederla. Eva parte subito, in treno, attraversando tutta l’Italia. Comincia così un viaggio nei ricordi: lei bambina e sua madre, lei ancora bambina e Vito; a venticinque anni quando, dopo la morte di Ulli, pensa di lasciare l’Alto Adige / Südtirol per l’Australia ma poi resta perché è una Dableiber ((Al tempo dell’Opzione, gli abitanti di lingua tedesca che avevano deciso di restare in Alto Adige.)); il suo matrimonio lampo di due settimane; ma soprattutto lei ed Ulli, il cugino prediletto la cui assenza è una ferita lancinante e persistente. È l’Eva che riflette sulla sua storia prendendo coscienza della sua appartenenza non solo all’Alto Adige / Südtirol ma anche ad un’Italia che le appare in tutta la sua varietà paesaggistica ed umana.
Eva guarda l’Italia dal finestrino e si racconta in terza persona nei capitoli datati: ostinata a nascere malgrado i tentativi di sua madre di abortire; neonata che per niente somiglia al padre biologico e che passa i primi mesi di vita in una cassetta delle mele a mo’ di culla nella cucina dove lavora Gerda; bambina che crede di avere infine una famiglia sua quando nella sua vita entra Vito. Arriviamo così al 1978-1979, quando giunge il pacco di Vito mentre Eva dorme. È l’Eva osservata con distanza per meglio essere compresa nel suo contesto privato e regionale.
Questo sdoppiamento narrativo tra Eva narrante ed Eva narrata si dissolve nel capitolo finale KM 0 - OGGI : dopo l’ultimo incontro con Vito che le ha permesso di capire il motivo di un’assenza vissuta come un abbandono, ora può riabbracciare sua madre. E questa volta, è Eva a guardare sua madre che dorme.
Perché Eva dorme?
Il titolo appare a più riprese, prima nel paratesto e poi nella narrazione stessa.
Nell’epigrafe, è contenuto in una citazione dal Paradise Lost (1667) di John Milton (1608-1674):
“Let Eve (for I have drench’d her eyes)
Here sleep below, while thou to foresight wak’st”
A parlare è l’arcangelo Michele che in una visione profetica mostra ad Adamo il destino dell’umanità. Nel frattempo, Eva dorme perché Dio vuole risparmiarle la visione della sofferenza futura della sua discendenza.
Come Dio, anche Gerda lascia dormire Eva (prologo p. 9) e non le rivela il tentativo di Vito di riannodare con lei il forte legame che li univa, forse per non ravvivare il dolore della separazione o per non fornire motivo di illusioni.
Più avanti nella narrazione, ritroviamo Eva addormentata nel ventre di sua madre. Anche qui, il sonno la protegge dalla realtà esterna rappresentata dai tentativi di Gerda di liberarsi di una maternità non desiderata e quindi non ancora assunta:
“Ma Eva continuò a dormire il sonno dei feti, di creatura e di creatore insieme, il sonno di un dio che sogna l’inizio del tempo : il proprio” (p. 101).
Infine, il sonno della riconciliazione cala su Eva adulta addormentata in grembo a Vito che dirà :
“Eva lo [il caffé] prende dopo. Adesso dorme” (p. 354).
Eva ha ritrovato la figura paterna che le è mancata in così tanti anni, ha ottenuto le risposte alle sue domande e, soprattutto, ora sa di non essere stata abbandonata.
Perché leggere questo romanzo?
La scelta di due prospettive narrative permette un approccio plurimo all’opera romanzesca.
Poiché le vicende dei personaggi (principali e secondari) sono tessute nella trama della storia dell’Alto Adige / Südtirol, la lettura risulta tanto più avvincente quanto i loro destini individuali sono influenzati dal contesto storico (regionale e nazionale). Tuttavia, se da una parte le ricerche approfondite della scrittrice sugli eventi ed i conflitti identitari di questa regione danno un notevole spessore alla finzione narrativa, d’altra parte contribuiscono talvolta all’equilibrio instabile tra il racconto documentario e quello fittizio.
Inoltre, questo romanzo affronta la tematica dell’identità linguistica e culturale: la presenza di termini come Vaterland (("terra patria" (Austria nel romanzo))), Walsch (("italiani")), Daitsch (("tedeschi")) (oltre ai già citati Heimat, Dableiber) calano il lettore nella realtà della questione altoatesina; il lessico culinario bilingue nella cucina dell’albergo dove lavora Gerda (l’italiano per pesci, frutta e verdura; il tedesco per carne e dolci) testimonia della convivenza dei due mondi. Ma è soprattutto Eva ad incarnare questa doppia identità. Lei che ha pensato di andare a vivere in Australia per liberarsi dal peso dell’”ossessione” dell’Alto Adige “per se stesso” (p. 104), che non sopporta più di sentirsi rivolgere una domanda (“lei cosa si sente, più tedesca o più italiana ?” p. 271) a cui risponde invariabilmente: “Il mio passaporto è italiano, la mia lingua è il tedesco” (p. 271), che proprio grazie al viaggio verso la Calabria e verso Vito-padre-casa capirà che :
“L’Italia è il mio Paese.
Non me l’ero detto prima, mai. Ma forse non è un caso che lo faccia ora, oggi che quest’Italia lunghissima, splendida, sfigurata, rivestita di fiori, monumenti e abusi edilizi la sto percorrendo tutta per raggiungere l’unico uomo che mi abbia mai fatto sentire a casa. Colui che non è stato mio padre, ma quasi.
Vito” (p. 195).
In conclusione, che si tratti di lettori interessati alle storie familiari o allo studio dei caratteri dei personaggi, oppure di lettori attratti piuttosto dal racconto di fatti storici inseriti in un testo letterario, Eva dorme risponde alle loro attese.
Fiche de lecture (par Sarah Vandamme)
L'autrice
La romancière, documentariste et scénariste Francesca Melandri est née à Rome mais elle évolue dans un cadre très cosmopolite : son travail de documentariste l’a menée dans divers pays du monde et elle vit actuellement la moitié de l’année à Berlin. Elle a reçu à Vienne en mai dernier le prix Bruno-Kreisky pour le livre politique et le discours qu’elle a prononcé à cette occasion, publié en français dans Le Monde, donne une idée de ses engagements humanistes. Eva dorme, publié en 2010, est son premier roman et forme avec Più alto del mare (2012) et Sangue Giusto (2017) un ensemble que l’autrice a appelé Trilogia dei padri, qui interroge la notion de patrie à travers la question de la filiation. Dans Eva dorme, cette question est posée à travers l’histoire et l’identité de la région du Haut-Adige – ou Tyrol du Sud si on prend le point de vue germanique. Dans une note à la fin du roman, l’autrice indique que son intérêt pour cette région lui a été transmis par sa mère, qui y a fréquemment séjourné. Il est d’ailleurs remarquable que le lien de l’autrice avec la région dont elle parle de façon si juste et documentée soit plus sentimental que généalogique.
Le contexte historique
L’intrigue de Eva dorme commence avec une figure d’ancêtre, Hermann Huber, né en 1925 dans la partie germanophone du Haut-Adige et se déroule sur plusieurs générations jusqu’à nos jours. Selon un procédé très contemporain, le récit alterne régulièrement les chapitres dont le point de vue et la narration diffèrent. Les chapitres historiques, rédigés à la troisième personne et au passé, retracent la vie de la famille Huber tout au long du XXe siècle, en se centrant sur la figure de Gerda. Fille du petit paysan Hermann, elle est employée comme commise dans un grand hôtel sur les pistes de ski récemment ouvertes et mène la dure vie de fille-mère dans l’Italie des années 1960 et 1970. Dans les chapitres contemporains, écrits à la première personne et au présent, sa fille Eva, alors quadragénaire, traverse l’Italie en train lors d’un week-end de Pâques pour se rendre au chevet de Vito, un carabinier calabrais qui avait aimé Gerda lorsque Eva était toute petite, et avait été pour elle une figure paternelle lumineuse.
À travers la famille Huber, l’autrice aborde l’histoire plutôt méconnue de cette région de frontière à l’identité complexe et son italianisation, forcée à l’époque fasciste puis plus insidieuse dans l’Italie républicaine. Le terrorisme du BAS (Comitato per la liberazione del Sudtirolo), qui a précédé celui des Années de Plomb, est également évoqué à travers le personnage du frère de Gerda, Peter, qui ne se remet jamais des humiliations subies et prend ce mauvais chemin. L’explosion du tourisme de montagne est un autre élément important du contexte historique. Il est à l’origine de l’enrichissement de certaines familles et de l’appauvrissement d’autres et est symbolisé dans le roman par différentes machines : le remonte-pente où Gerda reçoit le premier baiser de son séducteur et la dameuse que Eva conduit avec Ulli son cousin bien-aimé, lors de nuits propices aux confidences.
Ces évocations historiques sont exhaustives sans être indigestes, et certains passages font penser au Rigoni Stern des Stagioni di Giacomo ou de la Storia di Tönle, notamment dans la façon de compresser à certains moments la chronologie pour faire l’histoire des gens à travers celle des lieux :
Così, già pochi anni dopo la guerra, al posto del vecchio maso del prato ripidissimo che aveva spaccato la schiena a generazioni di Staggl, sorse un grande albergo, mentre l’ampia vista sui ghiacciai dalle sue camere attirò presto una clientela internazionale. Paul aveva costruito altre tre carrucole su altrettanti prati vicini. Anche chi non avrebbe mai acconsentito a pagare l’ascetico pedaggio di fatica e sudore della salita per pochi minuti d’ebbrezza, ora poteva diventare sciatore.
I turisti accorrevano ogni inverno sempre più numerosi. (p. 71)
On voit ici l’habileté de l’autrice à rendre efficacement, en quelques lignes, l’idée d’un changement de civilisation qui se produit sur quelques saisons. Les personnages, complexes et crédibles, incarnent véritablement l’histoire et ne sont pas de simples prétextes pour faire une fiche informative. En revanche, l’association à la narration de la figure historique de Silvius Magnago, homme politique germanophone à l’origine du « Pacchetto per l’Alto Adige » de 1962 qui régit l’autonomie de la région, semble un peu plus artificielle et les pages qui lui sont consacrées moins efficaces.
La question de la langue et de l’identité
La partie contemporaine du roman pose de façon encore plus directe la question de l’italianité de cette région, et plus particulièrement de ses habitants germanophones. Comme un leitmotiv tout au long de son récit, Eva rapporte la question qu’on lui pose tout le temps : « Ti senti più italiana o più tedesca? ». À ces deux identités sont couramment associés des préjugés : les italophones imaginent que les germanophones sont des Nazis et les germanophones que les italophones sont des fascistes (p. 247). À travers ce personnage de femme sarcastique et cosmopolite – elle organise des évènements dans un milieu que l’on imagine huppé et international –, l’autrice tourne en dérision cette question, tout en finissant par y répondre élégamment :
Improvvisamente, un sillogismo semplice:
l’Alto Adige è la mia Heimat-
l’Alto Adige è in Italia-
ergo
l’Italia è il mio…
Come si dice Heimat in italiano? È una parola che con l’Italia non c’entra niente, sa troppo di pane al cumino, di Stube tiepida quando fa freddo, di Adventskalender. Neanche “patria” va bene, questa invece sa di monumento in granito, di linee di confine tracciate da cancellieri distratti, di ragazzi mal equipaggiati spediti a morire da generali anziani. “Paese”? Ecco, sì:
L’Italia è il mio Paese. (p. 195)
C’est en parcourant le territoire italien du Nord au Sud, en observant les paysages par la fenêtre du train – les descriptions sont justes et simples – et les corps si différents – les traits physiques sont en revanche un peu caricaturés – qu’Eva accepte et comprend son italianité. Une italianité riche et pacifique, qui vient de la multiplicité des langues et des cultures. Certains personnages secondaires non italiens, qui sont de passage comme les touristes ou installés en Italie, complètent ce paysage multiculturel.
Comme on le voit dans l’extrait cité plus haut, les termes intraduisibles sont laissés en dialecte du Tyrol du Sud, en italique, et la plupart du temps traduits en note. Certains dialogues très courts sont traités de la même façon mais la plupart sont simplement en italien, et le lecteur doit se représenter que les personnages parlent en dialecte. Il n’y a donc pas de véritable fusion dans la narration entre les deux langues, mais l’opacité pour un lecteur italophone de ce dialecte germanique rend ce procédé sans doute nécessaire et facilite en outre la traduction. Il y a d’autant moins de hiatus dans la partie contemporaine du récit qu’on imagine une narratrice désormais italianisée.
Pour citer cette ressource :
Lisa Naturale, Sarah Vandamme, Dossier Francesca Melandri, Eva dorme (2010), La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2025. Consulté le 17/10/2025. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/dossier-francesca-melandri-eva-dorme-2010