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Andrea Camilleri, «Il birraio di Preston» (1995)

Par Franca Pinnizzotto : Professeur de Lettres italiennes
Publié par Damien Prévost le 12/02/2008

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Scheda di lettura del romanzo ((Il birraio di Preston)) di Andrea Camilleri, pubblicato nel 1995 da Sellerio.

L'autore

Uomo di temperamento sanguigno e di grandi passioni, Camilleri è un intellettuale dalla poliedrica personalità, prodigiosamente trasversale (come si usa dire), in quanto ha sperimentato le più svariate forme di comunicazione artistica.

Esiste infatti un Camilleri poeta e un Camilleri scrittore, un Camilleri regista teatrale, radiofonico, televisivo e un Camilleri produttore di alcune fra le pagine migliori che la RAI possa conservare nei suoi archivi.

Si devono a lui, ad esempio, la produzione in TV delle commedie di Eduardo De Filippo, la serie del Tenente Sheridan e quella fortunatissima del Commissario Maigret con Gino Cervi e la colonna sonora di Luigi Tenco.

Dal 1974 al 1990 è stato professore di regia all'Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, dopo aver insegnato al Centro sperimentale di cinematografia dove aveva avuto come allievo Marco Bellocchio.

Ai suoi studenti faceva preliminarmente questo discorso:

Qual è l'operazione di un regista? Riuscire a farsi un'idea veramente critica del testo. ... Per me il regista non è altro che l'interprete di un testo, come il direttore d'orchestra lo è di una partitura.

Dunque ci si deve innanzi tutto chiedere:

Quando è nato quell'autore? Perché scrive in quel modo? Qual era la società del suo tempo? Prima di affrontare un testo, ci vuole un'analisi piuttosto lunga e complessa.

Allora, prima di esaminare Il birraio di Preston, possiamo seguire le stesse indicazioni proposte da Camilleri, anche se non sarà facile sintetizzare le informazioni riguardanti questo scrittore che ha molto vissuto, che ne ha viste e combinate tante, che ha partecipato intensamente agli avvenimenti di quasi un secolo e che ha conosciuto personalmente artisti e uomini di cultura tra i più significativi del nostro tempo.

Intanto cominciamo col dire che Andrea Calogero Camilleri, detto familiarmente Nené, è nato a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, nel settembre del 1925.

Il nonno paterno, insieme a Stefano Pirandello, era tra i più avanzati e ricchi imprenditori di zolfo della Sicilia Occidentale. Ma quando in Parlamento fu approvata una legge che dimezzava i costi di trasporto per le concorrenti raffinerie di zolfo di Catania e di Caltanisetta - la Sicilia Orientale ha sempre avuto più deputati e più influenti rispetto all'Agrigentino - Giuseppe Camilleri si mise a capo di una specie di rivolta contro questa legge-capestro. La rivolta fu però subito repressa, ed egli andò in rovina. Ma vendette tutto per pagare i debiti, piuttosto che fallire. La rovina economica della famiglia non intaccò comunque il clima signorile nel quale venne a trovarsi il nostro Autore.

Numerosissimi sono gli episodi e gli aneddoti dell'infanzia di Camilleri che aiutano a capire la formazione della sua identità futura e rispecchiano mirabilmente il mondo siciliano dell'epoca. Ne citeremo qualcuno, ma chi volesse conoscerne di più, può leggere il libro bellissimo, che ha per titolo il verso di una poesia di Leonardo Sciascia, La linea della palma, dove lo scrittore Saverio Lodato riporta una lunga intervista fatta a Camilleri nel 2001, intervista che si è letteralmente trasformata in una stupenda autobiografia.

Scrive Lodato:

Per Andrea Camilleri Porto Empedocle è una grande fonte di idee e di ricordi, di personaggi e di trame, di suggestioni letterarie, di aneddoti e di vita realmente vissuta. È un capitale intellettuale accumulato pazientemente in decenni di vita e al quale attingere...
Essere meridionale per lui significa... appartenere alla millenaria civiltà del Mediterraneo, fatta, innanzitutto, di tradizioni orali, grandi epopee narrative, racconti appresi dalla vita..., ma fatta anche di grandi silenzi, i silenzi che si possono udire solo in un mare aperto o nella più profonda campagna del sud della Sicilia. Cantore di avventure e imprese, Camilleri, a Porto Empedocle, lo è sempre stato.

(Anche se dalla fine degli anni quaranta abita a Roma.)

Un altro testo interessantissimo in cui trovare notizie sulla vita di Camilleri è quello di Marcello Sorgi, La testa ci fa dire - Dialogo con Andrea Camilleri.

Sorgi, a un certo punto, ricorda una definizione molto azzeccata del direttore dell'Ora negli anni ruggenti, che diceva che i siciliani si dividono in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto.

Di scoglio sono quelli che se si allontanano dalla Sicilia, il secondo giorno cominciano ad avere delle crisi di astinenza e il terzo giorno devono assolutamente tornare.

Di mare aperto sono quelli che fanno della loro sicilitudine una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta nel loro cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi su un altro orizzonte.

Naturalmente Camilleri appartiene alla seconda categoria e c'è un episodio infantile che già preannuncia questa sua vocazione: a dieci anni riuscì ad imbarcarsi su un peschereccio che andava a pescare nel Canale di Sicilia. La mattina dopo la partenza, con sua grande sorpresa si risvegliò nel bel mezzo del porto di Tunisi!

Determinanti nella formazione culturale-letteraria del piccolo Andrea furono in particolare la nonna paterna, Elvira, e lo zio Alfredo: persone colte, ricche di creatività e di originalità, che gli fecero leggere tantissimi libri di teatro e di poesia.

Mi sembra interessante riportare questi ricordi di Camilleri:

La figura fondamentale era mia nonna Elvira. Una donna straordinariamente intelligente. Una donna favolosa, serena, olimpica. Mi recitava a memoria interi brani di Alice nel paese delle meraviglie. Di gran lunga passati gli ottanta, volle venire a Roma per vedere Tivoli e il papa, che allora era Giovanni XXIII. Due giorni dopo aver visto il papa, si fece portare a Tivoli da mia moglie. Girò entusiasta per Villa Adriana, poi appoggiò la testa sulla spalla di mia moglie ed esclamò: "Tutto questo è di una bellezza insopportabile". E morì. Morì lì, dicendo questa frase, uccisa dalla bellezza a 85 anni. Quindi era una che capiva.
L'altro personaggio importante della mia infanzia era mio zio Alfredo, il fratello di mia nonna. Un medico poliomielitico che non credeva nella medicina. Un uomo con una naturale predisposizione al teatro.

... Lascia che ti descriva il personaggio. Semiparalitico, come ti dicevo, ma per nulla rassegnato all'immobilità. Gran lettore, tendenzialmente filosofo, passava lunghe ore nel suo studio. Una stanza biblioteca, piena di libri di medicina e di mare - fu lui che per primo mi fece leggere Conrad e Melville - ...Al centro di questo teatrino troneggiava uno scheletro intero... polveroso a cui zio Alfredo aveva dato nome Yorik. Ecco, Yorik era una delle persone con cui mio zio parlava più a lungo.

A proposito del parlare con gli oggetti - con tutto quel che ne consegue come sollecitazione per la fantasia - si legga anche quest'altra pagina dedicata da Camilleri alla nonna:

Un giorno assistetti, non visto, a un dialogo tra lei e una saliera, un dialogo leopardiano tra lei e una saliera del Settecento che apparteneva alla famiglia. Arrivata a un certo punto, cominciò a incazzarsi ferocemente con la saliera facendole i conti: "Tu stai qui, fatta di vetro, e t'inni futti. Nuavutri, invece, semo di carne e sangue, e tu hai visto muriri 'u nonnu di me nonnu... quando sei nata, stronza? Quando ti hanno fatto? Nel 1712. E ti fazzu 'u cuntu: e vidisti mòriri 'a bisnonna, e tu cca, cu 'sta minchia di sali infilato dintra... 'u pipi 'u sali..., e tinni futti, e mori me patri e mori me nonna e mori... e tinni futti... Sai che c'è figlia mia? La mia morte non la vedi..." La pigliò e la catafottè fuori dalla finestra, la povera saliera.

In quest'ultimo brano troviamo il tipico linguaggio di Camilleri, quel mix di italiano e dialetto siciliano e un po' di turpiloquio che costituisce una delle maggiori novità e originalità della sua scrittura.

A questo proposito non posso non citare un fatto dell'adolescenza di Camilleri.

Finite le elementari, egli deve prendere quotidianamente la corriera perché la scuola media è ad Agrigento. Ma per tutto il primo trimestre fa sempre focaccia, vuole essere il capo della sua banda di ragazzini in lotta con altre bande. Riesce nel suo scopo, ma quando riceve la pagella è piena di uno e due. Allora usa la scolorina e sostituisce i voti con altri accettabili.

Il padre però è stato avvisato dal preside (sono due squadristi della Marcia su Roma) e, dapprima, dà una sberla al figlio (la prima e l'ultima di tutta la vita), poi lui stesso rovescia inchiostro sulla pagella e il giorno dopo accompagna il figlio a scuola e dichiara al preside di avere inavvertitamente combinato il guaio mentre si accingeva a firmarla. Se da un lato questo episodio la dice lunga sulla profonda complicità paterna, dall'altro comporterà come conseguenza due anni di internato nel collegio vescovile di Agrigento.

In collegio è obbligatorio parlare italiano, se un ragazzo dice una parola in "siciliano" ecco che il sacerdote educatore gli porge un pezzo di legno dicendo: accipe, che vuol dire prendi. Se un altro ragazzo fa la stessa cosa, riceve dal primo il pezzo di legno che ormai è chiamato "l'accipe". Alla sera, colui che ha "l'accipe" viene punito. A un certo punto Camilleri si studia il vocabolario e pronuncia - sempre per ultimo - parole che sembrano dialettali e invece sono italiane. Quando il prete sta per punirlo, lui, con dizionario alla mano prende la sua rivincita.
Una bella scuola linguistica!

Seguiranno gli anni del liceo e della giovinezza tra il fascismo - con le sue adunate del sabato disertate a favore della costituzione di un giornalino satirico -, i bombardamenti di guerra, lo sbarco degli alleati, l'impegno politico contro il separatismo e il banditismo alla Giuliano, l'Università, i primi premi letterari e il trasferimento definitivo a Roma. Come abbiamo già detto, una vita intensissima e oltremodo ricca di avvenimenti, amicizie, incontri; una vita caratterizzata da assoluta indipendenza di giudizio nell'esprimere pareri e valutazioni sui grandi fenomeni politici e sociali riguardanti sia la Sicilia sia il nostro Paese.

L'opera e la sua genesi

Ma veniamo adesso alla scrittura e al romanzo di cui ci dobbiamo occupare.

È alla fine degli anni Sessanta che Camilleri sente la necessità di scrivere un romanzo: si tratta de Il corso delle cose che verrà però pubblicato dieci anni dopo, nel '78. Il libro, come i successivi, è ambientato in Sicilia e un grande critico ci ritrovò quella "certa realtà siciliana che abbiamo imparato a conoscere, da Capuana a Pirandello, da Brancati a Sciascia."

Prima di approdare al genere poliziesco con l'ormai mitico Montalbano, Camilleri esplora il genere storico e scrive: Un filo di fumo, La strage dimenticata, La stagione della caccia, La bolla di componenda a cui seguiranno: Il birraio di Preston, Il re di Girgenti e La concessione del telefono.

Per scrivere alcuni di questi libri, utilizza l'Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876), che non è quella di Franchetti e Sonnino, ma quella parlamentare pubblicata dall'editore Cappelli di Bologna nel 1969, che si rivela per Camilleri "una vera miniera".
Egli, infatti, dichiara nell'intervista a Sorgi:

Diciamo una cosa veramente per me fondamentale: che io non ho una possibilità di invenzione che non abbia riferimento reale. Cioè io non so inventarmi nulla dal nulla. Proprio ho una necessità di partire sempre da qualcosa di già accaduto, letto, sentito dire. Io ho sempre bisogno di un punto di partenza, minimo se vuoi, del fatto accaduto, di qualcosa che è già successo. Guarda, può essere una frase, sulla quale posso anche scrivere un romanzo di duecento pagine, ma bisogna che quella frase sia stata detta. Questo è il punto di partenza, che è come un eccitante, come un Viagra per usare un termine di oggi: mi provoca delle reazioni di invenzioni immediate. Naturalmente dopo un po' ti rendi conto che quello è stato solo un pretesto, però un pretesto necessario.

Per Il birraio di Preston, pubblicato da Sellerio nel 1995, lo spunto nasce dalla succitata Inchiesta, là dove viene riportata la testimonianza di un giornalista siciliano che riferisce che le cose a Caltanisetta vanno meglio da quando è stato allontanato il prefetto fiorentino Fortuzzi. Costui, già inviso alla popolazione, aveva superato la misura il giorno in cui, dovendosi inaugurare il nuovo teatro regio di Caltanisetta, aveva imposto la rappresentazione di un'opera sconosciuta, Il birraio di Preston, appunto, nonostante l'opposizione di tutti, persino delle autorità locali.

"Il bello è - annota Camilleri - che non si è mai saputo il perché di questo suo intestardirsi sul Birraio." Fatto sta che successero incidenti, i cantanti furono subissati da fischi e

A un certo momento dovette accadere qualcosa di più serio, perché, dice sempre il giornalista, entrarono in teatro militi a cavallo, truppa con le armi.

La storia, sia pure così scarnamente accennata nella deposizione, mi pigliò e cominciai a travagliarci sopra. Ne è venuto fuori questo romanzo, che è tutto inventato, a parte, naturalmente, lo spunto iniziale.

Ma, una volta trovato il punto di partenza, come nasce il libro, come procede Camilleri? Sempre nell'Intervista concessa a Sorgi, egli dice:

Nei romanzi storici io comincio a scrivere proprio da quel punto. Non esiste un capitolo primo che narri cronologicamente il fatto. Io comincio a scrivere quella cosa che mi ha colpito, scrivo quell'episodio, comincio a costruirci attorno. Naturalmente poi il racconto si allarga. Allora devo fare dei passi avanti, dei passi indietro rispetto al nucleo centrale, costruendo come una sorta di ragnatela a rovescio. Cioè io parto dal punto centrale e da questo nascono una serie di diramazioni che finiscono col formare il romanzo. Ora non è detto che quello che io ho cominciato a scrivere sia il nucleo centrale del libro, può darsi che scrivendo si sposti, non sia più tanto centrale.

Questo modo di lavorare, così particolare, è assai evidente nella costruzione del Birraio, dove il lettore si rende subito conto che la fabula - cioè la narrazione cronologica dei fatti - non coincide assolutamente con l'intreccio.

La voce narrante, infatti, procede in un continuo e quasi vorticoso rincorrere ora questo ora quel personaggio, coinvolto più o meno direttamente nella vicenda dell'incendio del teatro di Vigata, con lunghi e complessi flashback e digressioni spesso esilaranti.

Intanto osserviamo che il libro è suddiviso in 24 capitoli (esamineremo dopo i titoli e la loro funzione) e lo spazio temporale in cui si svolgono i fatti narrati è di circa 36 ore.

Ma, naturalmente, ogni capitolo non è scandito sulla base delle ore, anzi la fine della narrazione avviene al capitolo 23 con la morte di don Memé Ferraguto, il mafioso confidente e spalla del prefetto Bortuzzi.

C'è una grande sapienza narrativa nella struttura di questo romanzo, che comporta una personale partecipazione del lettore il quale può, a piacere, cambiare l'ordine di successione delle varie parti, creandosene uno tutto suo.

Ma c'è di più: il lettore può anche scegliere il punto di vista con cui guardare all'intera vicenda, può schierarsi cioè dalla parte della Storia ufficiale (quella con la lettera maiuscola) oppure da quella del romanziere che, nel narrare, si fa carico delle microstorie (quelle con la lettera minuscola) di tutti i personaggi.

Alla fine, vedremo come.

Intanto in questa storia paradossale - e nello stessotempo così realistica nella Sicilia di fine Ottocento e nonsolo -, ci scappano ben sette morti e qualche ferito, e su tuttosembra dominare l'amara coscienza dell'assurdo e il dolore sordo per l'immutabilità di questa condizione.

La trama

Riassumere il contenuto del libro è veramente difficile, perché si tratta di un romanzo corale, dove non è necessario approfondire i caratteri dei singoli personaggi. Infatti sono soprattutto importanti la loro funzione e la loro tipologia che permettono di cogliere l'atmosfera del tempo, le modalità di relazione fra le varie componenti sociali, le connivenze fra Stato-politica-mafia, le ataviche regole non scritte dellas opraffazione e la faticosità di chi a queste regole non vuole sottostare.

Ma proviamo a sintetizzare la storia.

Dunque, il prefetto di Montelusa, da cui dipende lacittadina di Vigata, è il fiorentino Eugenio Bortuzzi, un funzionario assolutamente incapace di comprendere la realtà locale, che considera barbara e bisognosa di "evoluzione culturale".

Essendo poi uomo cocciuto e ottuso (ama prevalentemente i libri con lef igure!), si intestardisce nell'imporre la rappresentazione della sconosciuta opera Il birraio di Preston di tal Luigi Ricci, per l'inaugurazione del teatro regio di Vigata il 10 dicembre 1874.

Anche le altre autorità locali gli fanno notare l''inopportunitàd i tale scelta (il cui scopo sfugge veramente a tutti) sia perché i notabili del paese, quelli del circolo Famiglia e progresso, l'avevano fortemente criticata, sia perché creava un inasprimento nei già difficili rapporti tra il potere delloStato e la popolazione .

Ma non c'è niente da fare, Bortuzzi non cede e quella deve essere l'opera dell'inaugurazione. Anzi, per reprimere ogni manifestazione di dissenso, il prefetto si serve del suo confidente e spalla destra, il mafioso 'u 'zu Memè,d on Emanuele Ferraguto, individuo violento, cinico e prepotente.

Costui controlla personalmente l'attacchinaggio dei manifesti, dopo che per molte volte sono stati strappati; ruba un gregge di pecore e poil o restituisce per arrivare a costringere un giornalista a scrivere un articolo in favore dell'opera; organizza pestaggi per gli ignari lettori degli avvisi sull'inaugurazione, che osano esprimere commenti negativi; organizza una messinscena per far arrestare l'onestissimo falegname don Ciccio Adornato, il più colto e raffinato intenditore di musica del paese, colpevole di aver dichiarato l'inconsistenza dell'opera prescelta.

A fronte del Prefetto colluso col potere mafioso, emerge la figura - di fantasia - del Delegato di polizia Puglisi. Questo personaggio - una proiezione ottocentesca del commissario Montalbano, una vera citazione comunque - esprime invece una profonda e acuta comprensione degli uomini e delle circostanzed el suo paese, di cui fornisce una lettura realistica e veritiera.

Egli infatti teme che l'inaugurazione del teatro possa diventare occasione di tumulto, sia per lo scontento dovuto all'imposizione di un'opera non voluta, sia perché da una settimana si sa che in paese c'è un giovane repubblicano mazziniano, venuto da Roma, dalle idee non tranquillizzanti.

Per questo Puglisi chiede al Questore, che è di Milano, di arrestarlo in modo da prevenire un eventuale gesto che avrebbe potuto scatenare un moto rivoluzionario.

Con motivazioni basate esclusivamente su calcoli di prestigio personale, il Questore preferisce che l'arresto avvenga il giorno dopo l'inaugurazione!

Arriva così il fatidico mercoledì 10 dicembre. Il teatro è pieno di gente ben decisa a manifestare il proprio dissenso, mentre i militi a cavallo ricevono l'ordine tassativo di non far uscire nessuno dal teatro prima che l'opera sia finita. Naturalmente succede di tutto: commenti a voce alta rivolti direttamente ai cantanti sul palco, scambio di battute ironiche fra spettatori dislocati a distanza, un chiasso tremendo, con grande sconcerto per i poveri cantanti. Il trambusto poi aumenta quando, anche fra un atto e l'altro, il Prefetto comanda ai militi di impedire a chiunque di alzarsi dal proprio posto. Ma le signore devono andare in bagno, i mariti protestano... il Prefetto allora acconsente che vadano... accompagnate dai militi!

Il medico Gammacurta, però, non ne può proprio più e riesce ad uscire da un sottopalco, ma quando è fuori e sta girando dietro l'angolo del teatro un milite gli intima l'alt. Non se ne cura e il milite spara. Intanto in teatro inizia il terzo atto. La soprano è molto agitata. Si sta preparando per un acuto, quando esplode uno sparo e allora l'aria trattenuta le esce in una stecca mai udita prima. Contemporaneamente si sente l'urlo potentissimo di una signora e un boato che fa gridare in sala: "è una bomba!"

Si può immaginare il caos che ne nasce, caos accentuato dal fatto che il capitano dei militi aveva anche chiuso a chiave dall'esterno tutti i palchi.

Lo sparo era quello di un milite che, per un colpo di sonno improvviso, si era afflosciato ferendosi con la sua stessa arma; la paura poi generata dallo sparo aveva spinto i musicisti dell'orchestra a gettare a terra i loro strumenti che, data anche la loro posizione e l'acustica del teatro, avevano procurato l'effetto bomba.

In tutto questo bailamme il povero delegato Puglisi si riempie di rabbia e aumenta la sua ostilità verso i suoi ottusi superiori. Alla fine la gente - tra urla, improperi e svenimenti delle signore - riesce ad andarsene, ma dopo due ore il teatro va in fiamme e l'incendio si propaga anche nella casa vicina abitata al primo piano da una vecchia signora, che viene salvata a forza, e al secondo piano da Riguccio Concetta vedova Lo Russo, che però non si fa sentire. Le fiamme comunque non arrivano al secondo piano grazie all'intervento del marchingegno creato dall'ingegnere tedesco, Fridolin Hoffer, che finalmente può sperimentare la sua invenzione che da tanto desidera brevettare. L'incendio del teatro viene attribuito a un mozzicone di sigaro, ma sin dal primo sopralluogo il delegato Puglisi ne coglie l'origine dolosa.

Il mattino dopo Puglisi si preoccupa della sorte di Concetta, e scopre che è morta insieme al suo amante, a causa delle esalazioni del fumo. Scopre altresì il cadavere del dottor Gammacurta colpito alla schiena da un proiettile. Poi risale all'origine del fatto: due salvadanai di terracotta riempiti di petrolio, con uno straccio per miccia, erano stati gettati nel sottopalco. Il delegato intuisce che è opera del giovane romano. La sua rabbia aumenta ulteriormente, giacché lui lo aveva previsto.

Ad ogni modo comunica il tutto alla questura - sottolineando anche la responsabilità del Questore che non lo aveva ascoltato - ma inconcepibilmente riceve l'ordine di arrestare il mazziniano solo all'indomani mattina.

Nella notte, intanto, quest'ultimo viene avvisato da qualcuno della questura del prossimo arresto; viene fatto così fuggire, ma durante il viaggio viene ucciso.

Quando Puglisi, con un collega, all'alba va per arrestare il giovane romano nella casa che lo aveva ospitato, naturalmente non lo trova, ma il suo ospite, Decu, - uno dei quattro mazziniani vigatesi - colto da spavento spara a Puglisi uccidendolo. Il compagno di Puglisi reagisce eliminando a sua volta il Decu.

I morti a questo punto sono sei. Ma se ne aggiunge un altro.

Don Memè Ferraguto ha ecceduto in prepotenze, chi ha più potere di lui non può più tollerarlo. Il campiere dell'onorevole Fiannaca, mentre lo aiuta a raccogliere arance, gli taglia la gola:

Dopo, con la punta dello scarpone, voltò il morto a panza all'aria e gl'infilò tra i denti un foglio di carta bianca senza nessuna scrivuta ma intestato. L'intestazione faceva: 'Regia Prefettura di Montelusa'. Accussì, chi voleva capire, capiva.

Morto Puglisi, le autorità sistemano le cose in modo da non apparire responsabili di nulla. Viene così accusato dell'incendio del teatro lo scemo del paese, e un questurino dichiara:

La mia pinione è che a dare foco è stato Cocò Impiduglia, u fissa, lo scemo del paisi. Impiduglia manco sape parlari, un cane ha cchiù ciriveddru di lui, è pejo di un armàlu. Tutti i vigatesi sannu che lui havi una sola soddisfazioni:dari focu a la prima cosa che capita. L'abbiamo arrestato quattro voti, e sempri perché aveva abbrusciato ora un pagliaio, ora una baracca di ligno. Secondo mia, e in tutta coscienza, magari stavolta è stato lui.

Insomma, Puglisi si è sbagliato... e comunque non può più fare obiezioni.

Qui finisce la trama della vicenda, ma non il libro. Come avevamo anticipato prima, l'ultimo capitolo è intitolato Capitolo primo. Cosa assolutamente insolita, che aggiunge un altro tassello all'originalità della costruzione di questo romanzo. Questo ultimo/primo capitolo è scritto in prima persona, quarant'anni dopo le vicende narrate, dal primo personaggio che si incontra all'inizio del libro: Gerd Hoffer, il figlio di dieci anni dell'ingegnere tedesco inventore del famoso marchingegno spegnifuoco.

Gerd Hoffer è il primo da cui il lettore apprende l'annuncio dell'incendio ed è un bambino - dice la voce narrante - nato poeta e scrittore.

Infatti

Si emozionava se sulla lontana distesa d'acqua si addunava della debola luce di una lampara ad acetilene di una qualche paranza spersa, allora di botto dentro la testa gli scattava come una musica, un affollarsi di sensazioni che non sapeva come dire, rare parole gli si affacciavano e sparluccicavano come stelle in un cielo nivuro. Gli veniva la sudarella, e tornato a letto, non riusciva più a serrare occhio, si votava e si rivotava, fino a quando il lenzuolo diventava una specie di corda che l'impiccava. Da lì a qualche anno sarebbe diventato poeta e scrittore, ma ancora non lo sapeva.

Eccolo dunque 40 anni dopo - e non ci deve sfuggire la circolarità della costruzione di Camilleri. Circolarità che racchiude la vicenda dell'incendio del teatro.

Vicenda che è stata narrata dal punto di vista della fantasia e allora necessita di un Capitolo primo che dica la verità, che narri le cose dal punto di vista dello storico, proprio così come lo storico Gerd Hoffer ha ricostruito:

entro i confini di una ricostruzione saldamente ancorata alla verità dei fatti, quale essa emerge da atti istruttorii, documenti, lettere, testimonianze.

E in questa lettura storica, allora, Prefetto e Questore sono eccellenti rappresentanti dello Stato unitario, il mafioso non è tale ma un preziosissimo collaboratore, il delegato Puglisi è invece un delinquente e un debosciato, e infine l'incendio non era doloso ma causato da un mozzicone di sigaro.

Se questa è la verità, allora il capitolo primo deve fare da apertura al libro.

Il quarantenne Gerd inizia così la sua Storia:

Altri avrebbero potuto farci un libro di fantasia, un romanzo...

Di nuovo la genialità di Camilleri: qui la verità è proprio quella della fantasia, del romanzo; l'inganno sta nella Storia ufficiale, nei documenti, nelle collusioni tra poteri, nella legge violenta del più forte.

Analisi linguistico-stilistica

A proposito poi dei titoli dei capitoli (tranne naturalmente quello finale), dobbiamo ancora dire qualcosa: nell'indice scopriamo che ognuno di loro corrisponde all'incipit di romanzi o opere della letteratura mondiale, oltre a costituire l'inizio dei capitoli stessi.

Una scelta davvero stupenda: è forse un invito a leggere quelle opere, che evidentemente Camilleri ama? Ad ogni lettore la sua risposta; certo che è una scelta molto stimolante e un ulteriore mezzo per far lavorare il ciriveddru (come dice lui) e la fantasia.

Questi incipit non sono comunque gli unici richiami letterari. Ne ritroveremo parecchi analizzando i personaggi, come ha acutamente sottolineato Salvatore Silvano Nigro nell'introduzione all'edizione dei Romanzi storici e civili di Camilleri nei Meridiani di Mondadori.

Vediamone alcuni, partendo da Puglisi di cui abbiamo già messo in luce caratteristiche interessanti, e come sia già una citazione anticipata del commissario Montalbano.

Il delegato Puglisi che, guarda caso, viene ucciso nell'espletamento del suo dovere, e si contrappone così nettamente alle squallide figure del Potere Centrale (Prefetto e Questore), è un bel personaggio: non solo ha il fiuto dell'investigatore, ma è ricco di umanità e, nonostante abbia sempre a che fare con delinquenti e morti ammazzati, riesce a mantenere un animo poetico.

Camilleri gli assegna una singolare sinestesia che illumina la sua sensibilità: "Puglisi dà colore agli odori."

Colore latte e appannato da strati di nuvole, il sole di prima mattina principiò a spuntare sopra Vigata, e pareva non avesse tanta gana di farlo. Nell'aria stagnava un odore testa di moro, vale a dire di un marrone scuro scuro che tirava al nìvuro. Ce l'aveva questa di dare una tinta all'odore il delegato Puglisi. E una volta che aveva detto al questore di essere stato colpito, durante un appostamento, da un odore giallo di frumento mietuto, per poco quello non l'aveva spedito dritto al manicomio.

In un'altra circostanza, quando Puglisi viene chiamato dai vicini di casa per una furiosa lite fra Agatina e suo marito, lei gli compare "con la faccia gonfia ma gli occhi scuri e vivi ... (e ) le labbra rosso viola (odoravano di zafferano e cannella)" e quando andrà a cercarla per sapere se la sorella aveva dormito da lei:

In un fiat la porta venne aperta. Agatina gli stava davanti in cammisa da notte, la sua pelle sciaurava di càvudo di letto, e il colore che immediatamente se ne rappresentò Puglisi fu quello rosa tremolante di un riccio di mare appena aperto.

La sorella di Agatina, la venticinquenne Riguccio Concetta vedova Lo Russo, come abbiamo già visto, abitava al piano di sopra della casa che era stata intaccata dal fuoco del teatro. Non essendosi fatta vedere dopo l'incendio, il delegato si insospettisce e, appurato che non aveva passato la notte dalla sorella, si fa consegnare la chiave dell'appartamento. Scopre così che Concetta era rimasta soffocata nel letto, abbracciata all'amante Gaspano, a causa del fumo proveniente dall'incendio.

Preso da compassione e pietà, Puglisi riveste i corpi, li separa e cerca di dare alla scena una diversa connotazione, come cioè se l'uomo fosse entrato dall'esterno in camera per salvare Concetta dall'incendio e fosse invece soffocato prima anche lui.

All'arrivo di Agatina, Puglisi apprende che quella era stata la prima e ultima notte d'amore fra i due amanti, e poi non riesce ad eludere il trasporto quasi furioso di Agatina che gli si avvinghia stringendolo appassionatamente a sé.

Quindi, mentre nella camera ci sono i due cadaveri degli amanti, in cucina si svolge una scena d'amore.

Non so se si possa definire siciliana questa situazione, ma mi ricorda quella raccontata da Pirandello che, preadolescente, sempre a Porto Empedocle, si trovò contemporaneamente davanti al cadavere di un impiccato da un lato e a una coppia che faceva all'amore dall'altro.

Ma torniamo a Riguccio Concetta vedova Lo Russo. Le pagine dedicate a lei, sono, a mio parere, tra le più belle di tutto il romanzo.

Mogliera di un marinaio annegato nelle acque di Gibilterra, non le riusciva di pensare con altre parole, sapeva adoperare solo quelle marine che il marito le aveva imparato da quando si era maritata a 15 anni fino ai 20, quando aveva dovuto pigliare il lutto stretto.

Così quando vede entrare per la prima volta in chiesa Gaspano, appena lo "taliò capì che per qualche minuto il suo timone sarebbe stato ingovernabile", non si lascia turbare dal fatto che lui ha un occhio solo, anzi

Capì, in quel preciso intifico momento, che ogni cosa nella navigazione cangiava per lei: lui, per forza, doveva essere il suo porto, a costo di doppiare Capo Horn. E magari lui l'aveva sentita, tant'è vero che girò la testa fino a incontrare i suoi occhi, e lì gittò l'ancora.

Si svolge quindi un veloce dialogo tutto mimato (che mi pare un altro capolavoro della scrittura di Camilleri):

Poi, dato che oramai era cosa fatta, lui riunì le dita della mano destra a cacocciola, a carciofo, e le agitò ripetutamente dal basso in alto e viceversa. Era una precisa dimanda.

'Come facciamo?'

Concetta lentamente scostò le braccia dal corpo, le lasciò penzolare lungo i fianchi, rivolse il palmo delle mani verso l'esterno con faccia scunsolata.

'Non lo so'.

La strambata violenta che a un certo momento lui decise di fare la pigliò di sorpresa, ma non fece discussione, lesta obbedì. E Concetta, diventata questa volta barca, paranza di vela latina, si trovò con la prua sopra il cuscino e la poppa tutta alzata a cogliere il vento che proprio da poppa, facendola balzare da cavallone a cavallone, irresistibilmente la sospingeva verso il mare aperto, senza più bussola e sestante.

Qui Camilleri utilizza tutta la sua profonda conoscenza del linguaggio marinaro e ne fa un uso pertinentemente rigoroso, ma così ironicamente metaforico da suscitare grande comicità. Per rendersene conto, basta leggere il proseguo della storia fra Concetta e Gaspano.

Del resto, una delle caratteristiche più interessanti del Birraio di Preston è proprio la varietà dei linguaggi, riguardanti sia le forme dialettali parlate sia gli ambiti specifici di diverse attività.

Come non ridere dei dialoghi fra il Questore e la questoressa, in dialetto milanese, che tanto realisticamente esprimono il tentativo del marito di ottenere qualche concessione amorosa e le risposte salaci e respingenti di lei? Ma la cosa aumenta di comicità quando invece veniamo a sapere che lei, la signora Pina, si concede quindicinalmente a un amante, certo Tano Barreca, giovane rappresentante della palermitana casa di profumi e cosmetici La parisienne. L'incontro si svolge sempre alla stessa maniera. Gli accoppiamenti sono rigorosamente tre: il primo, di minuti due,

il picciotto mentalmente [lo] dedicava a so patre Barreca Santo, arrestato una ventina di volte da gente come il marito della signora Pina;

il secondo, di minuti tre, lo dedicava

a suo fratello Barreca Sarino che era stat ammazzato mentre se ne stava scappando dal carzaro della Vicaria per colpa di gente come il marito della signora Pina;

il terzo, lungo e insistente, quasi soffocante, lo dedicava

a se stesso che un giorno o l'altro sarebbe andato a finire in galera per colpa di gente come il marito della signora Pina.

L'ultimo incontro, quello avvenuto dopo il rifiuto dato al marito, è particolarmente intenso, perché - siccome il questore non voleva andare all'inaugurazione del teatro - allora lei gli aveva giurato astinenza perpetua. Cosicché per la prima volta, da quando il solerte Tano Barreca le chiedeva inutilmente se era soddisfatta, "la svinturata arrispose." (Naturalmente in dialetto milanese!)

Ora non sfugge a nessuno il richiamo manzoniano della sventurata Monaca di Monza che risponde allo scellerato Egidio, ma non è l'unica citazione, anzi è una delle tante.

L'ottuso prefetto Bortuzzi, ad esempio, credendo di essere nella fumante Troia, imita Omero e, nello stilare la relazione sui fatti di Vigata, ricalca il "Cantami o Diva del Pelide Achille | l'ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei" e scrive:

Nell'accingermi alla descrizione degli avvenimenti, invero dolorosi, che tanto danno e sommovimento hanno arrecato alla cittadina di Vigata.

Poi c'è la bellissima ed esilarante conferenza del prof. Carnazza che ripropone pari pari una scena-monolgo di Cechov in I danni del tabacco dove il relatore, prima di essere professore, era "marito di sua moglie". E il prof Carnazza inizia così il suo discorso:

Egregie signore e, diciamolo pure, egregi signori. A mia moglie Concetta è stato proposto che io tenessi una conferenza su Luigi Ricci, il compositore dell'opera Il birraio di Preston, che fra qualche giorno verrà rappresentata nel nuovo teatro di Vigata, orgoglio e vanto di quella ridente cittadina. E io la devo tenere, questa conferenza, volere o volare, perché a mia moglie non posso negare niente di niente, mi credano. Perché, vi domanderete?

... Mia madre me l'aveva detto, me l'aveva pistiato e ripistiato: mi vuoi spiegare perché ti sei intestato a maritartela? Concetta ha trent'anni meno di tia, dopo dieci anni di matrimonio tu avrai toccato la sessantina mentre lei si sarà tenuta a trenta. Per non fartela scappare e per tenere la pace in famiglia, dovrai addiventare pejo di un servo, pronto a calare la schina a ogni firticchio che le passa per la testa. Quanta ragione aveva la santarma!

Ma più che di musica Carnazza si intende di vino e non conclude il suo monologo. I rigurgiti dell'alcol lo distraggono e lo distolgono. Sbanda. Non si riprende. Scappa. Chi si intende invece di musica, lo avevamo già visto, è il falegname Adornato Amabile detto don Ciccio.

DonCiccio teneva un particolare: non solo aveva studiato musica, sapevaleggere la carta, ma era puro capace di sonare il flauto traverso conla stessa bravura con la quale si contava sapessero sonare gli angeliquando il padreterno comandava loro di fargli un concertino.

Ladomenica pomeriggio offriva abitualmente un concertino a pochi amiciveri e, una settimana prima dell'inaugurazione del teatro, si videarrivare tutto intero lo stato maggiore del circolo cittadino Famiglia e progresso: dal marchese Coniglio della Favara almedico Gammacurta, dal canonico Bonmartino al preside Cozzo. Alladomanda di cosa pensasse dell'opera Il birraio di Preston,

DonCiccio si calò verso terra chiano chiano, portando il bracciosinistro darrè la schina che gli faceva male, con la manodestra pigliò un riccio di legno, si risusì. Mostròa tutti lentamente il truciolo, come un prestigiatore o un parrinoche in chiesa fa vedere l'ostia consacrata. 'Quest'opira èaccussì' disse.

Strinse il truciolo tra le dita, lo sbriciolò,ne gettò i minuti frammenti per aria. 'Questa èl'opira, la sua consistenza.

Quando, dopo la liberazione dal suo arresto, il Prefettogli chiede come gli è nata la passione per la musica, donCiccio fa un racconto che è tra i più poetici di tuttoil romanzo.

Prima di concludere, dobbiamo comunque vedere qualemotivazione Camilleri ha escogitato per la cocciutaggine del Prefettonel volere a tutti i costi rappresentare il Birraio. È ancora una volta una trovata di finissimaironia.

Dunque, in stile tra il burocratico altisonante e ilromanticismo più mieloso, il prefetto scrive una lettera allamoglie Giagia e gliela consegna proprio il giorno dell'inaugurazionedel teatro. In questa lettera, ridondante di frasi d'amore, egliripercorre la storia delle difficoltà che ha dovuto sostenereper l'imposizione dell'incriminata opera. Opera che lui ha volutoa tutti i costi perché proprio a Firenze, alla prima del Birraio nel 1847, mentre era in uno stato d'animo didisperazione ha incontrato proprio lei:

Vestivi tutta d'azzurro come il cielo e celeste tu eri infatti, pareva non posassi sulla terra. Folgorato rimasi, impietrai. Fu un attimo, e poi gli occhi tuoi incontrarono i miei. Oddio! La vita mia in quell'attimo cangiò, si rivoltò come per un benefico tremuoto e ciò che innanzi m'era apparso grigio e smorto, miracolosamente ripigliò luce e splendette di vividi colori.

La Giagia però non dà segno alcuno e allora, in carrozza mentre si recano al teatro di Vigata la famosa sera, lui le chiede:
- Hai letto la mi' lettera Giagia?
- Sihuro. Grazie, Dindino.
Giagia era fatta hosì, un c'erano santi....
Dopo una pausa, mentre venivano sballottati per la strada infame, lei aprì nuovamente la bocca e disse:
- Però te tu ti sbagli, Dindino.
- Hosa sbaglio?
- La data, Dindino. Io nun venni mi'a allo spettacolo di cotesto birraio.. Io un l'ho mai visto. Un l'ho mai udito.
- Stai scherzando?
Prima di rispondere si toccò i capelli, il petto, l'anca sinistra, l''anca destra, gli occhi, le labbra.
- No, Dindino mio, mi'a scherzo. Io quella sera in teatro 'un son venuta. Son rimasta a 'asa con la mi nonnetta. Avevo le mie hose, Dindino, e stavo tanto male. Ne sono certa, Dindino, sono andata a riguardarmi il diario. Son rimasta a 'asa.
- Ma noi due non ci siamo visti per la prima volta alla Pergola?
- Certo, Dindo, al teatro della Pergola, ma sei giorni dopo. L'era mi'a questo birraio ma un'opera di Bohherini, mi pare si chiamasse La Giovannina o qualche hosa di simile.
- Si chiamava La Clementina, ora mi ricordo - disse torvo Bortuzzi e quindi ammutolì.

Bibliografia

Opere di Andrea Camilleri

Romanzi storici e civili 

Un filo di fumo, Garzanti, Milano 1980; Sellerio, Palermo 1997
La stagione della caccia, Sellerio, Palermo 1992
Il birraio di Preston, Sellerio, Palermo 1995
La concessione del telefono, Sellerio, Palermo 1998
La mossa del cavallo, Rizzoli, Milano 1999
Il re di Girgenti, Sellerio, Palermo 2001
La presa di Macallè, Sellerio, Palermo 2003
Privo di titolo, Sellerio, Palermo 2005
Le pecore e il pastore, Sellerio, Palermo 2007
Romanzi storici e civili, I Meridiani, Mondadori, Milano 2004

Saggi romanzati, prose memoriali e favole 

La strage dimenticata, Sellerio, Palermo 1984 
La bolla di componenda, Sellerio, Palermo 1993 
Il gioco della mosca, sellerio, Palermo 1995 
Favole del tramonto, con 15 immagini di Angelo Canevari, Ed. dell'Altana, Roma 2000 
Il corso delle cose, Sellerio, Plermo 1998 
Biografia del figlio cambiato, Rizzoli, Milano 2000 
Racconti quotidiani, a cura di Giovanni Capecchi, Libreria dell'Orso, Pistoia 2001 
Gocce di Sicilia, Ed. dell'Altana, Roma 2001 
Il colore del sole, Mondadori, Milano 2007

Monografie e interviste

Giovanni Capecchi, Andrea Camilleri, Cadmo, Fiesole 2000
Simona Demontis, I colori della letteratura. Un'indagine sul caso Camilleri, Rizzoli, Milano 2001
Angelo Scandurra, Andrea Camilleri narratore, in Narratori siciliani del secondo dopoguerra, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, G. Maimone, Catania 1990
Antonio Di Grado, L'insostenibile leggerezza del Birraio, Nuova Prosa n. 27, dicembre 1999: 137-44
Marcello Sorgi, La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri, Sellerio, Palermo 2000
Saverio Lodato, La linea della palma. Saverio Lodato fa raccontare Andrea Camilleri, Rizzoli, Milano 2002
 
Pour citer cette ressource :

Franca Pinnizzotto, "Andrea Camilleri, «Il birraio di Preston» (1995)", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), février 2008. Consulté le 14/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/andrea-camilleri-il-birraio-di-preston