Le Brigate Rosse: dal PCI alla lotta armata
Il libro che ho scritto, L'appartamento, nasce da una riflessione che mi è venuta spontanea dopo che facevo il giornalista da diversi anni nella mia città. Si svolgevano le elezioni amministrative del 2004 in cui si doveva eleggere il sindaco. In campagna elettorale fu tirato fuori un vecchio episodio che risaliva alla fine degli anni Sessanta e che coinvolgeva un politico che poi sarebbe diventato vicesindaco della città. Alberto Franceschini, reggiano, uno dei fondatori delle Br, raccontò in un libro intervista realizzato con il giornalista italiano Giovanni Fasanella, che il futuro vicesindaco di Reggio, quando aveva vent'anni, era andato nelle campagne reggiane con lui per andare e prendere un mitra che i partigiani avevano nascosto nel dopoguerra quando ancora c'era il mito di poter fare la rivoluzione. Quella dichiarazione fu smentita dal diretto interessato, ma i giornali locali, ovviamente, scrissero a lungo di quell'episodio che avvenne nel 1969, circa un anno prima che si costituissero le Br. Raccontarono che all'epoca, in città, c'era un luogo in cui i giovani fuoriusciti dalla Federazione dei Giovani Comunisti Italiani si riunivano che si chiamava l'Appartamento e di come molti degli appartenenti all'Appartamento sarebbero poi finiti nelle Brigate Rosse. Io, all'epoca, avevo due anni e non avevo mai sentito parlare di questo luogo, anche perché la genesi delle Br nella mia città è, come si può ben capire, un argomento tabù di cui la sinistra parla malvolentieri. Iniziai così a fare delle ricerche e da queste indagini venne fuori il libro l'Appartamento.
Il focus da cui sono partito è appunto dato da questo appartamento, un luogo in pieno centro a Reggio in cui, fra il 1969 e il 1970, si raccoglievano i giovani estremisti e non dell'epoca sognando di fare la rivoluzione. Rimasi colpito dal fatto che una buona parte di quei ragazzi sarebbero poi entrati nelle Br e avrebbero sconvolto l'Italia negli anni successivi. Così ho iniziato a cercare le persone che frequentavano, o comunque gravitavano intorno all'appartamento e ho iniziato a porre loro e a pormi delle domande sul perché proprio a Reggio siano nate le Brigate Rosse e su quale fosse il rapporto fra i giovani brigatisti e il PCI, il partito da cui erano fuoriusciti. Nel libro ci sono le risposte e le riflessioni di politici, ex brigatisti e persone che, a vario titolo, hanno frequentato l'appartamento. Diciamo che ne L'appartamento ho indagato il motivo per cui sono nate le Br reggiane e il tipo di rapporto che legava i futuri brigatisti al Partito comunista. Esistono particolari motivi storici e sociali per questa genesi? Come mai molti di questi giovani estremisti fuoriuscivano dal PCI e dalla FGCI? Il partito si rendeva conto che potevano essere pericolosi? E se lo sapeva, li controllava? Non ci fu, almeno nei primi anni, una sottovalutazione del fenomeno? Io una risposta me la sono data e credo che la nascita delle Br a Reggio non sia avvenuta per un fatto casuale.
Non basta fermarsi al 1967-70. Bisogna andare anche più indietro e approfondire le ragioni di questo fatto che caratterizza e rende diversa una vicenda che pure si è svolta in molte FGCI, in molte organizzazioni di giovani comunisti in Italia, ma che a Reggio ha avuto un altro sbocco e un altro esito. Questo non per accodarmi al revisionismo montante in questo periodo storico in Italia e quindi per cercare responsabilità dirette del PCI che non ne ha avute e che, invece, ha sempre combattuto fermamente il fenomeno del brigatismo. Ho voluto capire come mai, in una terra dove il partito comunista era onnipresente, siano potuti germogliare e crescere i frutti avvelenati del terrorismo. Già, come mai?
Si deve partire da lontano per analizzarne le cause. Dal dopoguerra, appena dopo la Liberazione. Senza voler stabilire nessi di continuità, peraltro inesistenti, fra partigiani e futuri brigatisti, vi è da dire che questi giovani erano affascinati dal sogno della rivoluzione tradita. Volevano riprendere in mano quei disegni rivoluzionari che, all'indomani della Liberazione, nel 1945, erano stati frenati da Togliatti e dai dirigenti più avveduti del PCI di allora che avevano scelto la via democratica. Ma nel partito comunista degli anni Sessanta, anche se minoritaria, era ancora forte e ben nutrita (ed era rappresentata soprattutto da Pietro Secchia) una fronda di militanti che ancora inseguiva il mito della Resistenza tradita. Erano soprattutto ex partigiani che non si rassegnavano a veder tradito quell'ideale. Questa componente era ben presente anche a Reggio, città che ha dato tanto alla Resistenza e che, proprio per questo, contava un maggior numero di nostalgici di quegli anni. D'altronde è costante la presenza nei racconti degli ex brigatisti di personaggi appartenenti alla storia partigiana e del simbolico, e non solo, passaggio di armi da questi ex combattenti ai giovani estremisti. Parlo di passaggio non solo simbolico, dato che le armi dei partigiani emergono ancora nelle campagne emiliane e perché molti ex brigatisti raccontano di avere effettuato le prime rapine con armi dei partigiani. Dunque, anche se quello delle armi non è un aspetto da enfatizzare, dato che poi le Br usarono delle armi moderne, non è nemmeno un passaggio da derubricare a semplice curiosità dato che il legame fra brigatisti, ex partigiani e mito della Resistenza tradita è molto forte e dura tutt'oggi.
Un altro episodio che rende l'humus della città di Reggio favorevole alla genesi del brigatismo è il tremendo ricordo dei martiri del luglio 1960, che voi avete messo come simbolo di questo convegno con la famosa foto degli scontri di piazza. Di quelle cinque vittime provocate dagli spari della polizia sulla folla che quel giorno protestava contro il governo Tambroni appoggiato dagli ex fascisti del Movimento Sociale Italiano. Gli scontri di piazza di allora lasciarono un ricordo indelebile della violenza della polizia e dello Stato contro i lavoratori in migliaia di adolescenti che si stavano avvicinando alla politica. Alcuni di loro, purtroppo, ne furono condizionati negativamente. D'altronde le vicende di quegli anni autorizzavano pensieri foschi sulla tenuta della democrazia in Italia. Questi fatti influirono sulle scelte di quei giovani estremisti, così come influì la strategia della tensione e la serie di bombe che esplodevano alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, causando vittime e dolore in tutta Italia. Per non parlare, poi, dei tentativi di colpi di Stato (il tentato golpe di De Lorenzo e poi quello del fascista Junio Valerio Borghese) e del quadro internazionale che vide, in rapida successione, il verificarsi della guerra in Vietnam, il colpo di Stato in Cile, l'ascesa al potere dei colonnelli in Grecia. Tutto questo contribuì a spingere sulla strada dell'eversione questi giovani già animati da propositi estremisti. La loro fu la risposta folle e assassina a un certo clima che, in quegli anni, montava in tutta Italia. A Reggio alcuni di quelli che poi insanguineranno il Paese con le loro gesta usciranno dalla FGCI e dal partito che non era più in grado di controllare queste pulsioni estremiste. E qui, forse, c'è un'altra specificità del caso reggiano. A Reggio Emilia il PCI era tutto e conteneva infinite contraddizioni. Non c'era spazio, a sinistra del partito comunista, per formazioni extraparlamentari (e quando nacquero ebbero vita breve). Mancava un luogo di dibattito (allora non c'era l'università a Reggio Emilia). La FGCI di allora, dove molti di questi giovani estremisti militavano, era piuttosto viva ma dipendeva pur sempre dal PCI e a quello doveva rendere conto. L'unica scelta, per Franceschini, Gallinari e compagni, fu quella di fondare l'appartamento. Il partito li emarginò, li bollò come figli degeneri. Da lì a fondare le Br il passo fu breve, non ci volle neanche un anno. Eppure questi giovani erano sì schegge impazzite, ma pur sempre frutto della politica di quegli anni. Nei primi anni Settanta, mentre le Br muovevano i loro primi passi, da parte di PCI e DC ci fu probabilmente una sottovalutazione del fenomeno. Per il Partito comunista, forse, era dovuta a un certo imbarazzo per quelle che definiva sull'Unità le sedicenti Brigate Rosse e anche al bisogno di non farsi scavalcare a sinistra dai movimenti e dai gruppi extraparlamentari. Per la DC, probabilmente, fu anche frutto di un calcolo scellerato, dato che questi giovani estremisti fuoriusciti dal PCI facevano comodo per agitare lo spauracchio del comunismo in campagna elettorale. Fino a metà degli anni Settanta, ma secondo altri anche fino all'assassinio del sindacalista Guido Rossa (e siamo nel 1979), ci fu la percezione, di fronte all'emergere del partito armato, che fosse un fenomeno manovrato e manipolato da elementi esterni. Lo stesso Ugo Pecchioli, storico ministro ombra del PCI negli anni Settanta, in prima fila nella collaborazione con lo Stato nella lotta al brigatismo, nei verbali delle riunioni a Botteghe oscure, ancora nel 1977, parlava di ritardi e debolezze nel contrasto al terrorismo, soprattutto all'interno delle fabbriche. Nella base si parlava di compagni che sbagliavano, riferendosi alle Brigate Rosse.
Dalle testimonianze contenute nel mio libro, ma che si possono trovare anche in altre pubblicazioni, emerge come, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, in molti sapevano, anche dentro al PCI, come si stavano muovendo i giovani brigatisti. Il partito era al corrente che giovani estremisti andavano e venivano da Torino e Milano facendo proseliti in città. Eppure, nonostante una fitta ma sotterranea collaborazione fra questura e PCI, non accadeva nulla. Come mai? Io credo che, pur combattendo con vigore il brigatismo ed essendone pure vittima, il PCI non abbia mai fatto fino in fondo i conti con quella storia. Pur contrastando le sedicenti Brigate Rosse il partito comunista non ha mai analizzato fino in fondo il rapporto che lo legava a questi figli illegittimi e non ha mai tentato di capire la specificità di casi come quello reggiano.
Un'opinione condivisa all'epoca anche da Antonio Bernardi, segretario provinciale reggiano del PCI, che in un comitato federale del 1977 affermava:
Reggio ha visto un nucleo consistente di propri giovani che sono stati protagonisti della formazione delle Brigate Rosse, che del terrorismo rappresentano, io credo, il nucleo più efficiente, il cuore, comunque, in questa fase politica. La nostra città rimane un caso esemplare nella nascita delle Brigate Rosse e fondamentale, io credo, per capirne la natura, il modo di formarsi, l'ideologia che le ispira, i fini che perseguono. Senza esagerare il ruolo avuto da Reggio, tuttavia il nucleo reggiano nelle Brigate Rosse non rappresenta un fatto secondario nella vicenda e noi, io credo, non dobbiamo considerarlo un accidente, un fatto casuale.
Parole di Bernardi, nel corso del Comitato federale del PCI tenutosi il 21 dicembre del 1977 per discutere de L'impegno dei comunisti nella lotta per la democrazia contro le minacce eversive e il terrorismo. Dopo sette anni, finalmente, a Reggio il PCI prendeva coscienza che la maggior parte dei brigatisti arrestati nelle prima fase delle Br erano reggiani, si accorgeva che nella genesi e nella catena di comando delle Brigate Rosse i reggiani occupavano posti di primo piano e iniziava domandarsi il perché e a chiedersi se, per caso, vi fossero delle responsabilità da parte del partito in tutto questo.
Continuava Bernardi:
Reggio dunque, compagni, rappresenta un punto delicato nella vicenda delle Brigate Rosse. Questo ci costringe a misurare ciò che qui accade, il senso delle vicende politiche, del nostro agire, pure di singoli episodi. E noi dobbiamo saperlo questo, dobbiamo discuterne senza complessi da un lato, ma anche senza reticenze... Allora occorre affermare con assoluta chiarezza che i brigatisti rossi, e questo significa la vicenda reggiana, nascono anche al nostro interno da un processo di crisi e di rottura del rapporto di alcuni giovani con la linea generale del partito, con la storia del partito e con la sua organizzazione.
Bernardi nel 1977 invitava ad aprire un dibattito che nella mia città, ma potrei affermare con la certezza di non sbagliarmi anche in Italia, non c'è mai stato. La sinistra italiana, o almeno quel che resta della sinistra italiana, considera ancora la nascita delle Br come un accidente della storia. Una disgraziata genesi che ha partorito figli illegittimi che non sono mai stati riconosciuti dal PCI e dalla sinistra italiana. Figli che, invece, fanno parte della storia di quel partito che aveva nel suo DNA il mito della rivoluzione proletaria che, infatti, secondo molti partigiani era stata tradita da Togliatti e dai dirigenti del PCI di allora. Il problema dei legami fra terrorismo e PCI, semplicemente, è stato rimosso. Una rimozione che potrebbe costare cara, dato che il problema non è mai stato affrontato e che potrebbe riflettersi in modo assai negativo anche sull'oggi dato che, a quanto sembra, l'esperienza del terrorismo in Italia è ben lungi dall'essersi conclusa.
È proprio questo l'argomento del secondo libro che ho scritto sulle Nuove Br e che è uscito pochi giorni fa nelle librerie italiane. Nel libro faccio riferimento agli arresti di un anno fa a Milano quando sono finiti in carcere 18 presunti brigatisti il cui processo si sta celebrando in questi mesi a Milano. Nel libro mi pongo la domanda se gli anni di piombo potrebbero tornare e se c'è un filo rosso che lega le nuove e le vecchie Br. Molti commentatori dicono che queste nuove Brigate Rosse non hanno nulla a che spartire con le altre e che oggi non c'è questo rischio dato che la pericolosità dei nuovi brigatisti non è paragonabile a quella dei vecchi estremisti. Se guardiamo alla struttura delle Brigate Rosse alla fine degli anni Settanta, quelle che rapirono Moro 30 anni fa, per intenderci, è indubbiamente vero. Quegli estremisti avevano un'organizzazione infinitamente più potente e capillare. Ma se osserviamo la nascita delle Br nei primi anni Settanta e facciamo il raffronto con quello che sta accadendo oggi, allora troviamo alcune similitudini inquietanti.
Ci accorgiamo che le risposte di chi sottovaluta il risorgere dell'estremismo in Italia sono molto simili ai commenti distratti di chi quarant'anni fa vedeva sorgere le prime Brigate Rosse, quelle di Curcio e Franceschini. Anche la pericolosità di quei giovani venne sottovalutata dalle forze politiche di allora (più o meno consapevolmente, mi verrebbe da dire). Il PCI li bollò come figli degeneri, schegge impazzite e non seppe drenare il brodo di cultura della violenza che pure non era estraneo a molti compagni della base del partito comunista che non disdegnavano del tutto le azioni delle Brigate Rosse, soprattutto quando ancora non erano particolarmente violente. La sottovalutazione del fenomeno durò, come molti concordano, fino al rapimento di Moro e all'omicidio del sindacalista Guido Rossa. Poi, anche fra i compagni della base e nelle fabbriche, fu chiaro che i brigatisti erano solo dei delinquenti e degli assassini.
Fino al rapimento di Moro e all'assassinio di Guido Rossa l'atteggiamento del PCI fu altalenante e andava dalla sotterranea e diffidente collaborazione con le forze dell'ordine nel denunciare i compagni brigatisti, alla sprezzante definizione di "sedicenti Brigate Rosse" che non coglieva, forse per un certo imbarazzo, come quei giovani fossero pur sempre frutti degeneri dei lombi della cultura del partito comunista.
La Democrazia cristiana, dal canto suo, non aveva particolare interesse, soprattutto nei primi anni del terrorismo, a stroncare un fenomeno che gettava discredito nei confronti del PCI. La strategia della tensione con le sue bombe, nelle piazze, sui treni e nelle stazioni, faceva il resto dando agli elettori la sensazione di un Paese allo sfascio, insicuro, in cui l'estremismo la faceva da padrone e in cui non ci si poteva certo permettere di dare la maggioranza al partito comunista, né di mandarlo al governo. Si assisteva a una democrazia bloccata, in cui il più grande partito comunista d'Europa non poteva andare al governo e la DC, pur di restarci, faceva accordi con gli altri partiti per escludere il PCI (la cosiddetta conventio ad excludendum).
Di fronte a questa situazione molti giovani estremisti videro la lotta armata come unica possibilità per uscire da questa situazione e rispondere con uguale violenza alle cosiddette stragi di Stato. L'apice dell'attacco al cuore dello Stato arrivò proprio con il rapimento Moro nel momento in cui il PCI si preparava ad appoggiare, dal punto di vista parlamentare, il governo di solidarietà nazionale. Le istituzioni, all'epoca, erano deboli. La democrazia era nata in Italia da poco più di un quarto di secolo. Gli scandali politici si moltiplicavano (ENI, Petroli, Lockheed), insieme a quelli finanziari (il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e della Banca Privata di Michele Sindona). Nasceva la P2 e i servizi segreti erano deviati.
La conflittualità esplose nelle fabbriche, si legò al movimento operaio, infiltrò il sindacato e deflagrò dando origine alle Brigate Rosse e ad altri gruppi di estremisti che insanguinarono l'Italia negli anni seguenti. I partiti non seppero dare una risposta adeguata all'insorgere dell'insoddisfazione fra i giovani e nella classe operaia. Si sguarnirono a sinistra e a destra, lasciando spazio agli estremisti degli opposti schieramenti. Il punto più drammatico, come si è detto, fu toccato con il rapimento e l'omicidio di Moro mentre il compromesso storico fra cattolici e comunisti stava dando i suoi primi frutti. Davvero questo scenario non vi ricorda nulla di quello che sta accadendo in Italia oggi?
Oggi come allora l'insoddisfazione sociale cresce fra i giovani e nelle fabbriche per i bassi salari e il precariato. Certo, allora c'era anche la contestazione studentesca ad alimentare il dissenso, ma la storia, anche se ciclica, non si ripete mai allo stesso modo. Oggi come allora le istituzioni sono deboli e screditate.
Non mancano neanche gli scandali politici degli anni Settanta, i crack finanziari, le logge massoniche e i servizi segreti deviati. Oggi gli scandali, che spesso coinvolgono politici e industriali, si moltiplicano allacciandosi a scalate truffaldine alle banche, ad intercettazioni illegali (spesso messe in atto da pezzi dei servizi segreti che non si sa bene a chi rispondano e i cui ex dirigenti sono stati indagati) in cui politici e banchieri parlano con fare disinvolto di come ridisegnare alleanze strategiche ed economiche a destra e a sinistra. Un quadro che mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni come testimoniato da innumerevoli sondaggi.
Il governo Prodi è appena caduto dopo le dimissioni di Mastella, ma ha passato due anni sul filo del rasoio. Basta scorrere le pagine dei giornali dei mesi passati per vedere le quotidiane difficoltà che ha incontrato per restare a galla. Al suo posto è tornato Silvio Berlusconi con il PDL, ma personalmente nutro qualche dubbio che riesca a ridare autorevolezza e credibilità all'azione di governo. Anche negli anni Settanta i governi erano deboli. Oggi come allora i partiti cercano spazio al centro lasciando libere le parti più estreme. L'esperienza del Partito democratico, con l'abbraccio cattocomunista fra ex DC ed ex PCI, è un remake evoluto di quello che Moro tentò di fare giusto 30 anni fa.
A questo si aggiunga l'aggravante che, dopo le ultime elezioni, la sinistra italiana non avendo ottenuto neanche un seggio in Parlamento è, di fatto, una forza extraparlamentare dal futuro incerto. Serve ricordare che anche negli anni Settanta esistevano grosse e cospicue forze extraparlamentari negli anni Settanta in Italia che fomentarono la violenza di quegli anni. Ora io non so se quello che intendano fare i dirigenti dei partiti che componevano la Sinistra Arcobaleno. Certo è che crea non poche preoccupazioni osservare come qualche milione di cittadini in Italia (le forze della Sinistra si aggiravano sul 10% dell'elettorato) si trovi sprovvisto di una rappresentanza parlamentare.
Ma torniamo ai 18 presunti brigatisti arrestati in Italia l'anno scorso. Le critiche che i nuovi brigatisti fanno agli ex comunisti (basta andarsi a leggere i loro documenti) sono le stesse che le Brigate Rosse degli anni Settanta facevano al PCI. Li chiamano borghesi, servi dei padroni, imperialisti e schiavi del Vaticano. Perfino le armi utilizzate dai nuovi brigatisti sono le stesse dato che due pistole trovate nell'arsenale delle Nuove Br appartenevano alla storica colonna milanese Walter Alasia. Anche il linguaggio utilizzato dai capi delle Nuove Br assomiglia terribilmente a quello dei vecchi brigatisti.
Come si fa a non vedere che agli albori del nuovo millennio la storia si sta ripetendo drammaticamente a distanza di nemmeno 40 anni? Mancano il contesto internazionale e la ribellione studentesca, le stragi di Stato e la paura del golpe, il contesto internazionale con il colpo di Stato in Cile, la Spagna di Franco, i colonnelli in Grecia e la guerra in Vietnam. Tutto questo è vero. Sono considerazioni giuste e condivisibili, anche se alla lacuna del quadro internazionale potrebbe sopperire in parte il movimento antiglobalizzazione con le sue frange più estreme.
Però gli altri ingredienti ci sono tutti: governi e istituzioni deboli, partiti litigiosi che cercano spazio al centro lasciando libere le frange più estremiste, corruzione politica e finanziaria, malcontento nella base sociale, sfiducia di cittadini nella politica. Una situazione in cui potrebbe trovare terreno fertile il movimentismo che sta alla base dei nuovi brigatisti. Basso profilo militare per militanti che sono o vogliono essere parte integrante delle lotte sociali e sindacali. E per questo più pericolosi.
Dopo la sconfitta delle Br-PCC del gruppo Lioce-Galesi è l'area movimentista di quelli che sono stati arrestati recentemente che ha preso maggiore forza e vigore. I movimentisti cercano di costruire un progetto rivoluzionario infiltrandosi nelle fabbriche, nei centri sociali, negli scontri di piazza. Lavorano stando dentro le lotte sociali e sindacali. Lo facevano anche le Br nei primi anni Settanta. Il loro basso profilo militare costituisce un elemento di maggiore pericolosità perché, proprio per questo, riescono ad infiltrarsi meglio nelle situazioni di conflitto. La presenza di elementi giovani, al suo interno, è un ulteriore campanello d'allarme. Gli obiettivi sono gli stessi delle Brigate Rosse di una volta che si consideravano giustizieri proletari: il dirigente di fabbrica, lo sfruttatore di immigrati, il fascista, il giornalista considerato borghese e di destra. Le stesse persone che vengono abitualmente insultate tutte le volte che si mette piede in un centro sociale. Cosa sarebbe successo oggi, in questi ambienti, se una di queste persone fosse stata gambizzata? Forse qualche commento ufficiale di rammarico sarebbe emerso ma, sotto sotto, in certe fabbriche e in certi centri sociali non sarebbero rimasti più di tanto sconvolti.
Le Nuove Br sono un miscuglio di vetero-comunismo e tentazioni anarcoinsurrezionaliste che come nuovo nemico hanno la globalizzazione ma, come le vecchie, si propongono di abbattere lo stato borghese. Anche la loro ideologia, leggendo gli scritti del loro leader Alfredo Davanzo, non è molto diversa. Si muove sui binari di una rigida ortodossia marxista e maoista che rimanda, per quel che riguarda la costruzione dei periodi e le frasi, all'armamentario ideologico delle vecchie Br. Basta scorrere le lunghe e burocratiche lettere dell'ideologo Davanzo per incontrare le parole chiave guerra di classe, instaurazione di dittatura del proletariato per combattere la borghesia imperialista. Un insieme di concetti che erano già vecchi trent'anni fa, dato che già allora non c'erano le condizioni per la rivoluzione, e che oggi farebbe solo sorridere se non ci fossero di mezzo le armi e gli attentati contro persone inermi che quel gruppo stava progettando.
Eppure, oggi come trent'anni fa, c'è una vasta area di consenso attorno a questi nuovi brigatisti. Nel giro di poco più di due mesi, dopo il 12 febbraio 2007, giorno degli arresti, sono state denunciate una cinquantina di azioni importanti in cui complici e simpatizzanti delle Nuove Br hanno rilanciato nelle aziende, sui muri delle fabbriche e in altri luoghi delle città minacce e simboli in favore della lotta di Seconda posizione. Manifestanti sono andati, senza essere fermati dalla polizia, sotto il carcere dell'Aquila a testimoniare solidarietà alla compagna Nadia Desdemona Lioce che secondo loro sarebbe prostrata dal carcere duro, impostole dato che è stata condannata all'ergastolo per l'omicidio di Biagi e D'Antona. C'è chi a Padova ha manifestato in favore degli arrestati del 12 febbraio. Poi c'è Internet. La rete è diventato un mezzo straordinario, per i nuovi estremisti, per comunicare e per inneggiare alla lotta armata e alla rivoluzione. In questo, bisogna ammetterlo, sono diversi dalle vecchie Br. Franceschini e Curcio il web non ce l'avevano. Su internet si può leggere di tutto. Si arriva addirittura alla esaltazione del gesto del compagno Mario Galesi, sul sito svizzero di Soccorso rosso, che ha steso il poliziotto Emanuele Petri, il 2 marzo 2003 sul Roma-Firenze prima di essere ammazzato lui stesso da uno degli agenti della Polizia ferroviaria. Quasi un martire questo Galesi. Nessuno di questi siti, in cui si parla regolarmente di lotta armata, è stato oscurato dalla polizia postale.
Profetica, a mio parere, una provocatoria intervista che il giornalista italiano Carlo Bonini fece su Repubblica il 31 ottobre 2003 al fondatore di Prima Linea, l'ex terrorista Sergio Segio.
La storia - diceva Segio - si ripete con le sue antiche miopie. E nessuno, per convenienza e conformismo, ha il coraggio di scandire una semplice verità...
Continuava Segio:
Le Brigate Rsse, sebbene ne siano componente ultra-minoritaria, sono e coabitano nel Movimento, hanno infiltrato il sindacalismo di base. Sono interne ai loro luoghi, alle loro sedi, al loro dibattito politico. E non sono affatto "nuove". Sono la fotografia di un passaggio di testimone tra generazioni nell'assoluta continuità di una matrice ideologica che non ha rifiutato il concetto di violenza politica, ma la conserva come opzione concreta, se non assoluta.
Secondo il fondatore di Prima Linea
nessuno vuole vedere questa verità. Perché farlo - diceva Segio - significa rinunciare a un paio di comodi luoghi comuni. Utili alla sinistra per rinviare sine die un dibattito politico in ritardo di vent'anni, per continuare a dichiarare la scelta brigatista politicamente estranea alla propria storia, al proprio dna. Cosa, questa, semplicemente non vera. Conosco questi "tic". E non dimentico quel che il PCI e il sindacato dicevano di noi e delle Brigate Rosse. "Sedicenti rosse". Fu un tragico errore che, fatte le debite proporzioni, vedo ripetersi.
L'intervista di Sergio Segio è di qualche anno fa, ma potrebbe benissimo essere stata fatta all'indomani degli arresti del 12 febbraio 2007 tanto fotografa la situazione da vicino.
Le sue dichiarazioni hanno ovviamente suscitato polemiche. Perché c'è ancora chi si ostina a non vedere, a chiudere gli occhi e a dire che le vecchie Br erano un'altra cosa e che le nuove non sono così pericolose. Dicono che il contesto è diverso. È vero. Però bisognerebbe anche ammettere che, insieme alle differenze, ci sono pure tante somiglianze con quello che accade oggi e ciò che è avvenuto allora. Perché la storia si ripete, ma con modalità diverse. Quello che accade in Italia deve far riflettere le forze politiche e i governanti. Giusto per non trovarsi impreparati. Per non far sì che un altro uomo, magari senza scorta, una notte scenda dalla propria bicicletta, appena arrivato davanti a casa sua, e si trovi di nuovo di fronte la canna di una pistola. I magistrati e la polizia, con gli arresti del febbraio 2007, hanno fatto la loro parte. Ora tocca alla politica fare la sua.
Pour citer cette ressource :
Paolo Pergolizzi, Le Brigate Rosse: dal PCI alla lotta armata, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2008. Consulté le 26/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/les-annees-de-la-contestation/le-brigate-rosse-dal-pci-alla-lotta-armata