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Il ruggito dell’Emilia: Reggio e la costruzione di un sistema locale nell’Italia del "boom"

Par Antonio Canovi : Historien - Laboratorio Geostorico Tempo Presente de Reggio Emilia
Publié par Damien Prévost le 07/10/2008

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Nell'Emilia contemporanea incontra massima fortuna il paradigma di una società ordinata, fiduciosa nello sviluppo e nella modernità, fatta ricca dalla imprenditorialità diffusa e governata in maniera efficiente dalle amministrazioni locali. L'Emilia felix rinvia indubbiamente ad una rappresentazione mitologica ma corrisponde in sostanza alla forte autostima che mostrano gli abitanti di questa regione (nelle due componenti territoriali principali, Emilia e Romagna)...

In forma di memoria

Nell'Emilia contemporanea incontra massima fortuna il paradigma di una società ordinata, fiduciosa nello sviluppo e nella modernità, fatta ricca dalla imprenditorialità diffusa e governata in maniera efficiente dalle amministrazioni locali. L'Emilia felix rinvia indubbiamente ad una rappresentazione mitologica ma corrisponde in sostanza alla forte autostima che mostrano gli abitanti di questa regione (nelle due componenti territoriali principali, Emilia e Romagna).

D'altronde, se oggi siamo qui a Lione, lo dobbiamo ad una certa reputazione sociale che si è fatta simbologia politica: l'Emilia rossa dei comunisti, il modello emiliano del buon governo locale. Si tratta di una reputazione che, nutrita come era di eventi e temi e luoghi locali, ha trovato il modo di essere raccontata trascendendo i confini territoriali. Pensiamo soltanto, per fare due esempi, alla maniera in cui Bernardo Bertolucci in Novecento ha raccontato la lotta a morte tra i rossi e i neri; o alla saga paesana tra comunisti e clericali scritta da Giovanni Guareschi attorno ai personaggi di Peppone e don Camillo. Qui esce forte, nella diversità dei registri, l'attitudine di un mondo piccolo a generare processi di rispecchiamento che sono universali per la capacità di dare forma politica alle proprie microdinamiche endogene.

Eppure non si dà oggi, in Emilia-Romagna, un lavoro della memoria adeguato alle grandi narrazioni scaturite dalla sua vicenda politica. Provo a spiegarmi.

Ci sono oggi sostanzialmente due punti di vista che si confrontano nella società emiliano-romagnola. In un caso, ed è diventato il racconto dei detrattori di una Emilia rossa che non saprebbe liberarsi dall'odio ideologico, ne è protagonista la violenza. Una violenza politica volta a volta praticata o subita ma in particolare - questo è il punto - oggi assunta a filo rosso di una storia locale che corre dalla prima guerra mondiale sino agli anni Settanta del Novecento. Tralasciando qui l'epoca antecedente al 1945, cito alcuni dei luoghi simbolici più citati: il triangolo della morte tra il 1945 e il 1946; i sei operai uccisi dalla polizia a Modena il 9 gennaio 1950; i cinque comunisti falciati in piazza a Reggio Emilia il 7 luglio 1960; la filiera delle Brigate Rosse sortita dalla provincia di Reggio Emilia ma anche - il tutto con molta leggerezza messo nel medesimo calderone del terrorismo - la rivolta giovanile e studentesca di Bologna nel 1977.

L'altro punto di vista, probabilmente maggioritario nella società civile e comunque largamente condiviso tra i partigiani della Emilia come modello, sceglie per raccontarsi il paradigma della emancipazione. Più o meno con questo andamento: la società rurale e l'adesione massiva all'associazionismo socialista; l'armonia cooperativistica e la brutale interruzione prodotta dal fascismo; l'antifascismo che si incarica di riprendere il cammino relegando così il fascismo a parentesi; il dopoguerra difficile a causa delle discriminazioni politiche ed economiche patite; la trasformazione industriale e l'avvento della società dei consumi dove l'Emilia è finalmente in grado di esprimere le proprie qualità di ingegno, organizzazione sociale, democratizzazione economica. Ma è ancora la rappresentazione su due tempi a non convincermi, in questo racconto: dove vi è un primo tempo nel quale è la politica (il partito comunista) a modellare una società ancora informe, cui fa seguito un secondo tempo popolato di liberi e consapevoli soggetti intenti a coltivare le arti personali e tra loro felicemente cooperanti...

La questione, a mio avviso, è che entrambi questi punti di vista coniugano la politica al passato, ne fanno un lascito: per gli uni (i partigiani del modello) da commemorare, come di cosa trapassata che è servita ad essere oggi altro, cioè l'emblema di una società che ha raggiunto il benessere diffuso; per gli altri (i detrattori del modello) si tratta di una eredità tuttora operante e pesante, incarnata come è in un sistema di controllo politico e sociale dall'altro che assicura (secondo questa ipotesi) una fortissima rendita di posizione a partito politico di riferimento.

Il paradosso è che ad essere emarginata, sino a trovarsi innominata dai luoghi sociali, economici e finanche istituzionali è proprio la politica intesa come sfera pubblica generatrice di relazioni di cittadinanza.

La mia personale impressione è che agisca oggi una pulsione regressiva nella società emiliana, per cui si pretendono (o vilipendono) continuità culturali con il passato senza provarsi ad elaborare le esperienze passate in forma di memoria. Perciò diventa tanto più significativo questo vostro invito.

Che cosa c'entra Togliatti

Il 24 settembre 1946 Palmiro Togliatti, segretario generale del PCI, è a Reggio Emilia. Vi compie tre gesti. Pronuncia un discorso di strategia politica nazionale, passato alla storia con il titolo di Ceti medi e Emilia rossa: si tratta di un discorso pubblico. Poi, a porte chiuse, riunisce le strutture di partito per discutere dell'ordine pubblico in provincia e in particolare di alcune uccisioni violente accadute nell'estate a danno di persone con reputazione di fascista. Quindi fa un terzo gesto, poco considerato anche nella storiografia locale: invia a papà Cervi - padre di sette martiri - un proprio ritratto con la firma autografa.

Quei tre gesti, dopo oltre 60 anni, sono tutti e tre incredibilmente presenti nella memoria collettiva di Reggio, dell'Emilia e di Italia.

  • La politica verso i ceti medi viene annunciata volutamente in Emilia, dove più robusto appare il partito nuovo per l'associazione tra il precedente tessuto socialista e l'alto tasso di insorgenza partigiana. In verità per la svolta -come verrà chiamato con gergo terzinternazionalista il passaggio dall'epoca staliniana alla via italiana al socialismo - bisognerà attendere il 1959. Mi interessa qui rimarcare che questa politica verso i ceti medi fa parlare molti, anche studiosi avvertiti come Berselli, di una Emilia pragmatica. A mio parere si tratta di una lettura parziale, vede una sola faccia della medaglia. L'Emilia si mostra orgogliosa di questo suo saper tradurre in prassi, ed anche buone prassi, quelle che sono le proprie ideologie portanti: l'ha fatto con il socialismo prefascista, l'ha rifatto con il comunismo. Su questo esito bisogna riflettere. Non si dà Emilia, storicamente, senza un pensiero politico nutrito di lotta ideologica; altrimenti saremmo ancora ai ducati e alla massima frammentazione territoriale.
  • La violenza nel dopoguerra non è stata francamente, su questo si sono ripetuti gli interventi degli storici, superiore ad altre province del nord e soprattutto del Piemonte. In ogni caso è inferiore a quello della vicina Modena (dove venne collocato nel dopoguerra, in chiave di azione politica anticomunista, il triangolo della morte). Questa memoria ferita si è riaperta nel 1990, proprio a Reggio Emilia, per l'intervento consapevole di una parte del gruppo dirigente del PCI locale. Guardiamo a questa significativa coincidenza di eventi. Nel 1989 cade il muro di Berlino. Nel 1990 a Reggio si decide - come già si era fatto nei primi anni Sessanta, dopo il volo nello spazio di Yuri Gagarin - di dare il proprio contributo al cambiamento e riposizionarsi così in linea con la modernità (questa la vera religione della sinistra emiliana, dei comunisti e dei suoi eredi). Ma si tratta di un processo pensato alla vecchia maniera, eterodiretto dall'alto; mentre la modernità post-89 finirà, con qualche indizio progressivo di frantumazione, per investire il corpo medesimo del partito-comunità.
  • Il mito fondatore dei Cervi rimane, a tutt'oggi, il solo racconto collettivo che, è il caso di dirlo, resiste ai cattivi revisionismi storici. Della Resistenza rossa non ne parlano più nemmeno le organizzazioni partigiane nate nel 1945 che ne furono alfieri ed interpreti; insomma c'è proprio un comunismo rimosso. Ma restano i Cervi, i quali rappresentano un caso paradigmatico di memoria polisemica. Se infatti andiamo a vedere il volume archetipo di questa memoria, I miei sette figli - il quale uscì nel 1955 inaugurando la collana de Il milione, nel senso letterale che era destinato dal PCI ad essere distribuito in un milione di copie - vi ritroviamo tutte le connessioni che servivano all'epoca: la grande famiglia patriarcale (provenivano dalla mezzadria); il martirologio cristiano (era una famiglia di tradizione religiosa); .l'emancipazione (diventano comunisti); l'internazionalismo (guardano all'URSS e pensano se stessi come un colcos).

Poi, che cosa è successo? Che ad ogni svolta del PCI, il libro - conservando la sua fortuna, si tratta narrazione davvero straordinaria - ha subito qualche ritocco. In due sensi. L'una, grottesca per non dire altro, è stata la rimozione di ogni riferimento all'URSS nelle edizioni uscite dopo il 1989 (il libro ha continuato ad uscire con gli Editori Riuniti, casa editrice sempre collegata al PCI-PDS). Ne è mutato, quale conseguenza diretta, il modo in cui viene ricordata la loro vicenda: tolta l'URSS, messo da parte il comunismo, rimane ciò che oggi sembra stare in linea con quello che passa il convento della politica: una grande famiglia contadina e moderna...

Gli anni della Emilia rossa: dalla Liberazione (1945) alla Conferenza regionale del PCI (1959)

La popolazione provinciale di Reggio Emilia conta nel 1945 intorno ai 390.000 abitanti. Poco più di un quarto, circa 100.000 abitanti, fa riferimento al comune capoluogo; ma anche qui la maggioranza dei residenti continua ad abitare nelle case sparse o nelle frazioni di campagna. L'Emilia, ancora nel censimento del 1951, presenterà un tasso di occupazione agricola superiore alla Sicilia.

I partigiani smobilitati sono poco meno di 10.000, la Resistenza è stata una esperienza diffusa soprattutto nelle campagne della pianura. L'ingresso nella democrazia coincide con una forte mobilitazione politica e l'iscrizione massiccia al sindacato (la Confederazione Generale del Lavoro resterà unitaria sino al 1947) e ai rinati partiti politici. Se alla Liberazione la Federazione provinciale del Pci conta 6.200 iscritti, ad ottobre - nell'arco di sei mesi - già si sfiorano la cifra di 44.000 compagni. La conta delle tessere, nel partito come negli organismi di massa, diviene in quegli anni, un po' ossessivamente, il metro quotidiano per giudicare l'attività politica svolta. Nel 1950 a Reggio si toccano i 66.000 iscritti al partito. Sono tanti, si tratta di circa un adulto su cinque. Tasso che diventa uno su tre tra i giovani (sono 18.000 i giovani comunisti sotto i 21 anni). Le forze del lavoro, come viene riassunto il blocco formato da Camera del Lavoro, Confederterra e altre categorie minori, superano i 100.000 iscritti (su 138.000 considerati organizzabili), con una prevalenza di uomini, 55.842, ma anche molte donne (35.484) e forse non moltissimi giovani (5.658) e ragazze (4.977).

Vediamo da vicino le donne: si tratta di un soggetto sempre in chiaroscuro nel rapporto intrattenuto con la politica. Reggio Emilia esprime a tutti gli anni Cinquanta un protagonismo veramente straordinario, per i numeri ma anche per la qualità del personale politico.

In primo piano vi sono due figure.

Nilde Jotti: eletta parlamentare costituente nel 1946 (diverrà compagna del segretario generale del PCI Palmiro Togliatti), terminerà la sua vita politica, negli anni Ottanta, come presidente della Camera dei Deputati.

Carmen Zanti: cresciuta a fianco di un padre in esilio politico prima ad Argenteuil quindi a Nizza (il padre con la guerra verrà rimpatriato in Italia, prende parte alla Resistenza, finisce fucilato dai nazisti nel 1945), negli anni Cinquanta diventerà segretaria della Federazione mondiale delle donne a Berlino e poi senatrice della Repubblica.

L'organizzazione femminile di riferimento - unitaria tra comuniste e socialiste - è l'Unione Donne Italiane: nel 1950 l'UDI raccoglie 45.000 iscritte e vende 12.000 copie della rivista Noi Donne; alla metà degli anni Cinquanta, quando le altre organizzazioni militanti vanno in sofferenza, le tessere salgono a 59.500 (una donna su tre in provincia, comprese le bambine, è affiliata all'UDI, il dato percentualmente più alto in Italia).

Richiamo un'ultima cifra che apre una considerazione sulla strategia politica di questo poderoso movimento comunista. Nella provincia 12.500 contadini piccoli proprietari fanno riferimento - sono sempre dati reperiti attorno al 1950 - all'Alleanza Contadini (rappresenta il dato per provincia più alto in cifre assolute). Ed alla alleanza dei braccianti con i ceti medi rurali fa esplicito riferimento Palmiro Togliatti nel discorso pronunciato a Reggio Emilia il 24 settembre 1946, divenuto noto come Ceto medio e Emilia rossa. Gli orientamenti nazionali del PCI dovranno sempre fare i conti con il peso enorme dell'Emilia-Romagna, maggiore della stessa Toscana anche sotto il profilo della consistenza economica delle sue organizzazioni cooperative. Nel 1959, alle soglie del boom economico, in Emilia Romagna si contano 445.062 iscritti al PCI; su un totale nazionale di 1.789.269, significa dunque uno su quattro.

Questa predominanza non si registrava però, non allo stesso modo, in termini elettorali. Su ciò mi pare utile richiamare l'attenzione: dopo l'exploit del 1946, la media dei consensi in Emilia sta sotto il 40% dei voti espressi e, soprattutto, non cresce nel corso degli anni Cinquanta (mentre in Italia sale e si porta al 25%). Sarà invece con la nuova politica dei servizi sociali (oggi vengono chiamati servizi alla persona) intrapresa dagli enti locali soprattutto nei nuovi quartieri residenziali in via di urbanizzazione che nel corso degli anni Sessanta si arriverà a sfiorare, ed in alcuni casi anche a superare, il 50% dei consensi.

Ora, nell'intento di avvicinarmi al presente, avanzo una considerazione proprio sui numeri.

Negli anni fondativi della Repubblica la tessera, di partito o associativa, esprime non tanto una opinione ma un'appartenenza identitaria. Questo non vale peraltro solo per i comunisti, anche se per essi prima di ogni altro. Il PSI reggiano, dopo l'uscita della corrente socialdemocratica nel gennaio 1947, raccoglie comunque 11.000 iscritti; la DC ne conta 8.500, ma sono ben 31.000 gli aderenti alla Azione Cattolica.

I paradossi del modello emiliano: quando il paradigma cosmonautico serve alla grande modernizzazione

Intorno al 1958 - come ha colto la storiografia più avvertita - nel PCI emiliano si apre una riflessione radicale sugli orientamenti di fondo della strategia politica.

A presiedere tale cambiamento c'è un primo macroevento, di natura politica, passato nella letteratura come il 1956. In quell'anno spartiacque si intrecciano il XX congresso della destalinizzazione del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, la sanguinosa invasione sovietica dell'Ungheria ma anche la crisi di Suez con l'apparizione sulla scena del nazionalismo arabo di Nasser. Dopo il 1956 si farà strada un punto di vista terzo nel mondo bipolare che si era creato al termine della seconda guerra mondiale; su questo stretto crinale si incamminerà la cosiddetta via italiana al socialismo.

Un secondo aspetto rilevante attiene all'economia nazionale. Alla metà degli anni Cinquanta - si tratta di un'opinione largamente condivisa dalla storiografia economica - si può dichiarare conclusa la fase ricostruttiva. I prodromi di questo passaggio, in Emilia, si vedono attraverso il calo degli occupati agricoli: se bisogna attendere il 1953 per scendere sotto il 50%, già nel 1958 la soglia si abbassa di altri dieci punti percentuali, quindi tocca quota 35 nel 1961 e si attesta al 22% nel 1970. Il cambiamento è epocale: la regione con il maggior tasso di occupazione agricola in Italia diviene una grande regione industriale.

C'è dell'altro. I grandi numeri della trasformazione coincidono con il passaggio da un'economia dei produttori ad una incentrata sulle modalità della distribuzione. Il 1960 viene celebrato, letteralmente, come l'anno del miracolo economico. Irrompe sulla scena italiana ed europea la figura di matrice nordamericana del consumatore. Non è certo a caso che i giovani protagonisti delle lotte di piazza condotte nell'estate 1960 contro l'alleanza stretta con i neofascisti dal governo a guida DC vengano identificati, e così riunificati dalla Sicilia all'Emilia, per il proprio abbigliamento: rimarranno nella memoria collettiva come i ragazzi delle magliette a strisce. Ma è anche vero che quei più giovani protagonisti, così abbigliati in nuova foggia, continuano a morire sotto i colpi dei celerini come era accaduto un decennio prima ai loro fratelli maggiori. Una volta di più Reggio Emilia - con i suoi cinque lavoratori uccisi in piazza, il 7 di luglio - interpreta in quella congiuntura il ruolo di città-simbolo.

Ce lo conferma la persistente domanda di riconoscimento che continua a prodursi attorno a quella memoria: lì, per dirla con Gregory Bateson, cambiarono gli atteggiamenti. Cosa intendo dire? Se a distanza ormai di mezzo secolo l'esito della grande trasformazione industriale appare ad un primo sguardo uniforme o comunque totalmente compresa nei processi di modernizzazione capitalistica, un antropologo della globalizzazione come Appadurai ci suggerisce che non si dà processo capitalistico avanzato senza produzione della località. Raccontare di alcune vicende occorse a Reggio Emilia tra gli anni Sessanta e Settanta significa allora confrontarsi sui paradigmi che sorreggono due vulgate altrimenti destinate a pronunciarsi reciproca indifferenza: il riflesso condizionato dell'omologazione nella società dei consumi (il tutto per l'uno); la conclamata diversità emiliana (l'uno per il tutto).

Le parole di Livio Spaggiari - il quale è stato uno tra i più importanti dirigenti della cooperazione in una realtà economica e sociale talmente importante da far guadagnare a Reggio Emilia la nomea di provincia cooperativa d'Italia - possono gettare uno squarcio sul clima dell'epoca.

Il COOP 1 di via Garibaldi era di proprietà del CCPLl. Era adibito a garage, solo che l'anno prima aprì la STANDA a Reggio, in mezzo a un grande scandalo perché il comune si prestò ad aprire un supermercato a Reggio, la provincia cooperativa e quant'altro! Gira e rigira, il giorno in cui Gagarin fu lanciato nello spazio - me lo ricordo perfettamente - si decise che nel garage del consorzio, che non era ancora finito, si facesse il COOP 1.

Per Coop 1 si intende il primo supermercato cooperativo di tipo moderno, a scaffali aperti; quanto al CCPL, è il Consorzio Cooperativo di Produzione e Lavoro. Sono istituzioni cooperative locali, ancorché importanti. Il riferimento mirato alla competizione nello spazio tra sovietici e nordamericani può far sorridere ma non deve sorprendere. Quella cosmonautica è una metafora evidentemente destinata a colpire l'immaginario popolare, ma ad agirla in Emilia non sono grigi funzionari bensì quadri amministrativi e cooperativi comunisti e socialisti che ne faranno un uso tanto moderno da risultare a taluni persino spregiudicato. Gli esempi si sprecano. Nel caso citato si trattava di scegliere, per la cooperazione di consumo, tra la resistenza nelle proprie roccaforti a contatto della campagna e dei quartieri popolari di periferia o la discesa nel meno difeso ma più ampio e ricco mercato della città; in altri casi, come a Sant'Ilario d'Enza, un comune sulla via Emilia per Parma, il richiamo a Yuri Gagarin innescherà la costruzione del primo (e ultimo, per la verità) grattacielo nel paese (ovviamente costruito da un'altra cooperativa, questa volta edilizia).

Nella sinistra emiliana il boom economico accende una gran voglia di mostrarsi come gli attori politici meglio efficienti e preparati: più avanti, per dirla con un'espressione che ha trovato fortuna popolare, dei propri antagonisti politici ed economici. Il capitalismo lo si va a sfidare in casa, così rinverdendo tutta una tradizione di riformismo socialista che era stata spazzata via dal fascismo.

Questa consapevolezza della sfida spiega il profondo avvicendamento tra quadri dirigenti che scuote tra il 1959 e il 1962 il mondo comunista emiliano. Il mutamento viene quasi sempre motivato per ragioni ideologiche (la destalinizzazione) ma assume senz'altro i caratteri di un passaggio di mano tra le generazioni. A Reggio Emilia Remo Salati (era laureato, quindi considerato un compagno intellettuale) prende il posto di Onder Boni, operaio meccanico, alla guida della federazione comunista; Renzo Bonazzi, avvocato, succede a Cesare Campioli, operaio di famiglia contadina poi formatosi nell'esilio politico a Parigi, come sindaco del capoluogo.

A partire da quel sommovimento il PCI, con l'alleanza di forze socialiste e democratiche, interpreterà a livello nazionale il ruolo di partito delle autonomie locali. In Emilia tale e tanto protagonismo si tradurrà, come anticipato, in una corposa crescita dei consensi. Ciò corrisponde, si badi bene, alla riarticolazione della società sulla base di un progetto compiuto di modernizzazione: una economia di piena occupazione incentrata sull'agroindustria e i distretti industriali vocati all'export; una rete di servizi sociali imperniato attorno al Municipio (ciò che ha fatto parlare di welfare municipale); un sistema di governo locale che identica nel PCI il ruolo di partito-guida, delegato ad assolvere la duplice funzione di stabilizzazione sociale (presentandosi come partito della comunità) e di riformismo democratico (presentandosi come antagonista al governo centrale).

Una volta conquistato l'ente regione (nel 1970), la regione Emilia-Romagna si proporrà all'attenzione generale come manifestazione concreta e prova storica del buongoverno possibile della sinistra. Simbolicamente, il tempo dell'Emilia rossa lascia il posto al modello emiliano.

Metano per il nuovo Municipio

È il 16 maggio 1960. Romeo Schiatti, assessore socialista alle finanze nel comune di Reggio Emilia, apre davanti al consiglio comunale il dibattito sulla costituzione dell'Amministrazione Municipalizzata Gas.

Signori Consiglieri, sono certo che non sfuggirà a nessuno di voi l'importanza dell'atto che noi siamo chiamati ad assumere questa sera. Si tratta di un importante servizio sociale che nel 1924 grazie al concorso di un gruppo di amministratori legati al servizio dei monopoli viene alienato agli attuali concessionari. In questa circostanza particolare desidero rendere merito agli amministratori socialisti che gestivano la cosa pubblica dall'inizio del secolo e precisamente nel 1903 che, sensibili agli interessi dei loro amministrati, riuscirono a creare l'azienda municipale del gas e dell'elettricità. Con il ritorno di questa azienda in possesso del Comune noi non intendiamo riaffermare solamente l'importanza del concetto di municipalizzazione, quale strumento di progresso e benessere al servizio della collettività, ma di attenuare seriamente un potere che, da anni e anni, impera nel nostro Comune. Noi siamo perfettamente convinti che un servizio pubblico, spoglio delle preoccupazioni speculative, può essere costantemente migliorato ed essere una sicura garanzia non solo per il patrimonio civile ma per gli stessi interessi della comunità.

Il dibattito, cosa niente affatto scontata, si conclude con il voto unanime del consiglio. Su questo occorre interrogarsi. Non sono certamente i richiami alla tradizione riformista a strappare l'assenso dei consiglieri di parte DC; piuttosto, è l'accento posto sulla (per utilizzare una formula politica allora in voga) lotta contro i monopoli. Per la verità, non si tratta di una parola d'ordine nuova: era almeno dalla metà degli anni Cinquanta che a sinistra veniva agitata. La novità, forse, stava letteralmente nella materia prima di cui ci si stava occupando, il metano. Dopo tutto Enrico Mattei, attraverso un rapporto diretto con i paesi produttori, stava facendo dell'ENI una chiave di volta dello sviluppo nazionale italiano. La cosa, notoriamente, non era affatto gradita dai grandi monopolisti (soprattutto nordamericani e inglesi) del petrolio; al punto che non si sono mai dissolti i dubbi su qualche responsabilità da parte delle Sette sorelle nell'incidente aereo che causò la morte del manager e partigiano di origine marchigiana e fede democristiana.

A Reggio Emilia l'orizzonte dei servizi municipalizzati si riconnetteva, certamente, ad una tradizione politica. Suonava come una riconferma. Dopo tutto, come ebbe modo di testimoniare Renzo Bonazzi parlando di quegli anni, [vi era]

la convinzione profonda era che certi servizi, che avevano una rilevanza economico sociale, potevano essere meglio gestiti dall'amministrazione pubblica che da quella privata.

Il metano possiede una qualità ulteriore: fin dai primi vagiti, oltre che democratico si annuncia come moderno. La lotta (altro termine chiave di quegli anni) per la metanizzazione viene impostata contro il monopolio della Società elettrica emiliana (S.E.E.E.) e, non a caso, si conclude vittoriosamente per i municipalizzatori negli stessi mesi in cui si decide a livello centrale la nazionalizzazione dell'energia elettrica.

La creazione dell'azienda municipale data al primo agosto 1962; la rete distributiva arriverà (presa in affitto dall'Emiliana, la quale ancora distillava il carbone) con il primo ottobre 1963; il primo giugno successivo si comincia a distribuire una miscela metano-aria che ha lo stesso potere calorifico del precedente gas di distillazione; con il primo agosto 1964 (per una cifra di tutto rispetto, 160 milioni) l'AMG ottiene finalmente la proprietà degli impianti.

La campagna per la metanizzazione ottiene grande successo per due ragioni complementari. In primo luogo, come è stato ben scritto, sul versante della cultura politica.

Comincia così a farsi strada l'idea che il metano possa essere il volano e il propellente per uno sviluppo diverso (e perciò alternativo) da quello immaginato e progettato da Confindustria, Governo centrista e grande capitale monopolistico.

Il secondo fronte, vincolante per determinare il successo di ogni servizio, è l'adesione offerta dall'utenza. I numeri crescono in maniera impressionante: gli abbonati raddoppiano tra il 1963 e il 1964 (sono 11.500 a dicembre), volano a circa 18.000 nel 1966. Con il metano si fa la cucina ma si può anche alimentare - e qui risiede un elemento di costume proprio di quegli anni - lo scaldabagno. Farsi la doccia in casa, comodamente, quando se ne ha voglia è un rito assolutamente inedito per i più. Cosa che era soprattutto vera per gli abitanti dei caseggiati popolari: il metano esce così dai confini del centro storico o dei quartieri di ceto borghese e arriva sino al limite dei villaggi operai sorti nel periodo bellico lungo l'estremo perimetro urbano. Di lì a poco, verranno prese in esame le domande provenienti dalle Ville nel forese.

In questo modo, connesso all'utilizzo del metano, l'Amministrazione comunale ha modo di promuovere e sostenere una propria via di modernizzazione democratica. Per dirlo con un'espressione di rara efficacia, propagandata dall'interno medesimo della municipalizzata: c'era da portare l'effetto città nelle campagne.

Che cosa significasse, nella sostanza della proposta politica, questo ammirato e così mobilitante effetto città lo sintetizza Renzo Bonazzi, il comunista intellettuale che rileva nel 1962 il posto di sindaco ad un simbolo della liberazione, l'operaio antifascista (era emigrato in Francia per lunghi anni) Cesare Campioli.

Agli inizi degli anni '60, conclusa la fase di risanamento e ricostruzione, avvertivamo la necessità di accompagnare la ripresa delle attività economiche ed il profondo cambiamento della struttura produttiva con la realizzazione di servizi che garantissero oltre che maggiore efficienza, anche una migliore qualità della vita. [...] Doveva quindi essere un servizio pubblico offerto a tutti i cittadini che intendessero valersene.

Siamo sempre a quel passaggio, destinato a segnare un punto di non ritorno, tracciato esattamente a cavallo dei due decenni. L'Amministrazione municipale reggiana si muove alla ricerca di una nuova e più efficace strumentazione nell'offerta dei servizi alla persona. Viene messo in campo, insieme alle idee, un personale politico più giovane e meglio rappresentativo del milieu culturale e dell'associazionismo politico (segnatamente, il movimento delle donne e, in misura minore, degli studenti). Soprattutto - perché su questo piano si giocherà la compatibilità finanziaria di questa svolta - ad essere ribaltata è la concezione liberale del pareggio del bilancio: prima era la regola aurea cui ci si atteneva, più o meno obtorto collo, mentre ora - in aperto contrasto con la GPA - le amministrazioni socialcomuniste teorizzano la necessità del deficit nel bilancio dell'ente locale per sostenere i grandi investimenti pluriennali nei settori ritenuti strategici per uno sviluppo sociale.

Gli amministratori locali della sinistra, ponendoci l'energia e la convinzione dei neofiti, vanno così moltiplicando i settori di intervento municipale: dai piani urbanistici ai piani di edificazione economica popolare (PEEP), dai trasporti alle aree industriali, sino alla gestione diretta o tramite municipalizzate delle reti tecnologiche, all'impianto di nuovi servizi volti alla cura della persona (socio-sanitari, educativi).

Non sarebbe nemmeno corretto dire che tutto ciò che è politico vada iscritto al PCI. Diversi tra gli uomini (e le donne, come Lidia Greci all'assistenza) che fanno la differenza in quegli anni sono ad esempio socialisti; e da Reggio approda a Bologna Pietro Crocioni, per occuparsi dei quartieri e dei processi partecipativi (farà il vice del sindaco Fanti).

D'altra parte la competizione ingaggiata a sinistra con la Dc costituisce un fermento - e qui esce di nuovo il clima del momento: per aprire porte piuttosto che per chiuderle - per tutte le parti politiche in causa. Dalla semenza dossettiana era uscito già nel 1956 il Libro bianco con le prime proposte di decentramento a Bologna; uno spirito che, nel brodo di coltura del Concilio ecumenico Vaticano II, modificherà sensibilmente l'atteggiamento di una parte della chiesa e del mondo cattolico nei confronti dei comunisti (le ripercussioni furono numerose anche a Reggio, certo il caso più eclatante fu quello, a Bologna, del cardinale Giacomo Lercaro).

L'azione del PCI emiliano sta allora dentro un preciso clima politico e culturale ma è anche vero che immette nel corpo di questo movimento riformatore una determinata tradizione anticapitalistica e tanti quadri militanti; due fattori senza i quali sarebbe difficile immaginare la diffusione e tenuta nel tempo di un simile movimento.

Si osservi, in una sorta di tavola sinottica, la coincidenza cronologica di eventi e politiche a contenuto innovativo messi in campo a Reggio Emilia tra il 1962 e il 1963. Già si è detto delle esperienze del Coop1 (un investimento economico di prim'ordine, con evidenti implicazioni sul piano della rappresentazione politica cittadina) e della AMG (portatrice di un'idea di sviluppo reticolare talmente convincente da tradursi nel 1974 in consorzio intercomunale con il nome di AGAC). La redazione del primo PEEP data ad esempio al novembre 1962, quando la legge istitutiva era di pochi mesi precedente. Vi sono poi le scuole comunali dell'infanzia: il 5 novembre 1963 apre in un edificio prefabbricato il Robinson Crusoe, il primo nato di una prestigiosa filiera, ma già nel marzo 1962 era stato approvato il progetto per la costruzione della futura Anna Frank nel quartiere modello di Rosta Nuova.

Sono esempi tratti dal vasto campo degli interventi posti in atto dal nuovo Municipio; tra i più significativi per la capacità che dimostrarono di mobilitare le reti locali e così di fissarsi nella memoria collettiva di una intera generazione.

Le figure del cambiamento: i giovani, le donne e i servizi

Al centro dell'attenzione vi sono figure sociali, quali le donne e i giovani, se non proprio inedite tradizionalmente più periferiche rispetto alla vita politica.

Jone Bartoli, in una relazione rivolta alle attiviste dell'UDI, ricorda ad esempio come nel solo 1960 si fosse registrato tra le donne un tasso di abbandono dell'attività agricola pari al 34 per cento, persino superiore a quello maschile. Allo stesso tempo, l'incremento percentuale del tasso di occupazione femminile tra il 1952 e il 1959 risultava essere pari al 27,1% contro il 5,4 tra gli uomini. Ma dove si occupano queste giovani donne in fuga dalle campagne? Una parte (con una punta nei borghi appenninici) prende la via dell'emigrazione e va a servire come donna di casa o portinaia presso famiglie e condomini borghesi (specie in Lombardia); altre, e sono tantissime soprattutto nell'area di pianura circostante il comprensorio carpigiano della maglieria, comprano una macchina per filare e svolgono il proprio lavoro a domicilio.

Insieme agli stili di vita, si modificano le aspettative: l'andare in città, o comunque la scelta di lasciare il vecchio fabbricato agricolo per l'appartamento, acquisisce il senso di un approdo nella modernità. Claudia Finetti richiama opportunamente un passo conclusivo della conferenza regionale dell'Unione donne italiane. Siamo nel 1962.

Si pone l'esigenza di una organizzazione sociale che tenda ad avvicinare il livello di vita della città a quello della campagna e che nell'istituzione di servizi moderni, contribuisca a difendere la permanenza delle famiglie contadine sulla terra.

L'accento posto sui servizi è quello che caratterizzerà in effetti tutti gli anni Sessanta, sino a contraddistinguere il particolare marchio dell'Emilia-Romagna. Ed è proprio questa dimensione regionale impressa all'elaborazione politica il perno attorno a cui viene ripensata - e nelle sue istanze nazionali, prima che in quelle locali - l'azione del PCI. In tal senso, se la piena realizzazione del dettato costituzionale entra a pieno titolo nel cahier des doléances della sinistra italiana, la sua anticipazione - in quanto nuova visione che sovrintende l'agire politico - diventerà una costante dell'azione politica condotta dal PCI.

Il primo sintomo visibile del mutamento di paradigma in corso lo rinveniamo, non a caso, nel documento che presiede all'estensione di un regolamento per gli asili comunali che ci si appresta a fare. È il 19 aprile 1962.

Si tratta all'apparenza di una delibera tra le tante, votate dal consiglio comunale, pure contiene una dichiarazione di intenti che riveste il carattere di una svolta epocale: vi si dice esplicitamente che la commissione preposta si impegnerà affinché, nella terminologia tecnica ufficiale, l'espressione scuola materna venga sostituita con il titolo di scuole dell'infanzia:

per la maggiore aderenza di quest'ultima ai principi della moderna pedagogia, essendo l'infanzia stessa al centro dell'interesse educativo e formativo: non oggetto, quindi, ma soggetto della scuola.

Al di là della semplicità nella formula amministrativa adottata, l'articolazione dell'iter politico predisposto per accompagnare l'intera operazione fa pensare ad un elaborato che sia il frutto di un'intelligenza collettiva. Vi è sovrano un collegio interpartitico che istituisce un comitato paritetico, il quale si compone di un numero variegato di figure politiche. A presiederlo è il socialista Franco Boiardi (assessore alla pubblica istruzione); lo compongono tre assessori - Lidio Artioli e Giulio Bigi per il PCI, Arturo Piccinini per il PSI - quindi i consiglieri Eugenio Altomani (PSDI), Ezia Annovazzi e Camillo Rossi per la DC, Paolo Crocioni (PSI), Loretta Giaroni (PCI), Anton Maria Grasselli (MSI), Paolo Pagani (PLI).

In sintonia con lo stacco iniziale, le scuole comunali dell'infanzia costituiranno per l'ente locale, lungo gli anni Sessanta, il primo - forse il principale - laboratorio interdisciplinare e infragenerazionale dove accogliere e promuovere partecipazione sociale. Non è questa la sede che consenta di inoltrarsi nella vicenda storica: basti soggiungere che, sull'onda delle microesperienze vissute in quel periodo, prenderanno corpo forme più meditate (e negoziate) di partecipazione, quali i Comitati scuola e città (formalizzati come tali nel luglio 1970). La metodologia di intervento così messa a punto l'ha ben sintetizzata Renzo Bonazzi in una testimonianza resa a Carla Nironi (che delle scuole fu insieme funzionario, attivista, genitore). Si trattava, in sintesi, di unire «la rivendicazione e la protesta alla proposta e all'assunzione di responsabilità» collegando «la richiesta di soddisfare concrete esigenze individuali e locali alla necessità di una riforma generale».

Siamo dunque di fronte ad un movimento di lotta che adotta e replica una prassi di particolare efficacia, fondata sulla concertazione (ancorché dialettica) tra la spinta all'autorganizzazione dei soggetti sociali coinvolti e l'intervento istituzionale dell'ente locale. Per tale via si aprirono realmente spazi politici originali, di maggiore decentramento e democratizzazione dei poteri e delle loro geografie.

L'ora del decentramento partecipato

La diffusione di scuole e nidi tutt'attorno alla città corrispose, di fatto, al primo moto di insorgenza delle periferie urbane; solo, al contrario dello stigma che oggi le avviluppa, è una figura di periferia inclusiva. La rivendicazione di nuovi servizi, in pari dignità con il centro storico e le zone di maggior pregio fondiario, è anzi parte costitutiva di un processo storico di acquisizione della cittadinanza.

In primo luogo, a partire dai processi di inurbamento si manifesta un movimento socio-urbanistico che si dedica alla figura del quartiere, dai tratti più o meno popolare ma sempre aggettivato come periferico e nuovo (per via della collocazione fondiaria, l'età di concepimento e la provenienza dei suoi abitanti). Sono anni di tumultuosa crescita demografica dei grandi centri lungo la via Emilia. E mentre si rimescolano, le città cambiano la forma esteriore ma sottopongono a nuove gerarchie urbane anche il proprio disegno intimo.

Nel gennaio del 1963 (ci troviamo sempre nel biennio magico delle politiche locali a Reggio Emilia) l'Amministrazione comunale (tramite l'Ufficio statistica) avvia uno studio per la divisione del territorio comunale in quartieri e frazioni. L'Assessore al personale, il comunista Lidio Artioli, mostra di avere le idee molto chiare in materia e propone un'interpretazione apertamente democratica del decentramento amministrativo.

Di pari passo con l'espansione della città e le mutazioni che via via avvengono nel corpo della cittadinanza attraverso i fenomeni dell'immigrazione ed emigrazione sino a renderla più eterogenea, mutano quantità, qualità e dimensioni dei problemi e delle esigenze e nel contempo diviene più labile il tradizionale rapporto fra amministratori e amministrati, fra gli organi del potere locale e la collettività. Di qui ha preso e prende un insopprimibile vigore l'esigenza di arricchire gli strumenti del potere locale e nel caso in esame, dell'Amministrazione Comunale, non soltanto nel senso di accorciare le distanze burocratiche fra Amministratori e amministrati ma, ancor prima, per portare sempre più concretamente gli amministrati al governo di se stessi attraverso idonee istituzioni democratiche.
Occorre aver presenti i tre aspetti fondamentali del problema: quello sociologico, quello urbanistico e quello tecnico - amministrativo.

Si tratta di un ragionamento che propone una visione problematica e critica della democrazia locale, sin nella scansione dialettica delle figure evocate: immigrati/emigrati; amministratori/amministrati; organi del potere locale/collettività territoriali.

La competenza politica si nutre esplicitamente, ed è questo un tratto da sottolineare, meno di certezze e più di interrogativi. Vi si dice che occorre studiare per comprendere i fenomeni socio-demografici incipienti; e che occorrerà, di conseguenza, agire per «dare alla città un più ampio respiro democratico» e, in tal modo, «alimentare una permanente e non contingente circolazione di idee, di propositi, di atti» nel circuito della comunicazione politica. Il compito dell'Amministrazione diventa allora quello di «reperire gli strumenti nuovi che rendano possibile l'adeguamento della propria azione alle esigenze stesse della collettività vista dinamicamente nel suo divenire».

Gli amministratori socialcomunisti hanno la chiara percezione di come - in una fase di transizione epocale - non sia sufficiente dislocare alcuni servizi al di fuori del centro cittadino né tanto meno ridisegnare dall'alto il futuro assetto urbanistico della città. Vi sono da stimolare e raccogliere, così veniva sostenuto, i pareri e le opinioni di chi vive nei quartieri e lavora quotidianamente negli spazi urbani. Oggi verrebbe forse definito e circoscritto come un'agenda partecipata, ma rischieremmo di trarne una rappresentazione molto tecnica e troppo depoliticizzata.

La nuova via intrapresa del decentramento democratico assunse la valenza di una fase costituente: andava aperta al fine di rifondare un patto di coesione sociale con i cittadini e finirà per trovare, qualche anno più tardi, forme inusuali ed efficaci di democrazia rappresentativa come l'istituzione dei Consigli di quartiere.

Bisogna anche ricordare come i rappresentanti dei partiti di minoranza (DC, PSDI, PLI, MSI) avessero, in un primo tempo, mostrato una certa perplessità sull'opportunità di suddividere in quartieri il territorio comunale. L'entità del capoluogo era, a loro parere, ancora troppo modesta per attuare una simile operazione. In realtà, il grande balzo si stava compiendo proprio in quegli anni. Dopo di che Reggio, per una buona trentina d'anni, rimarrà attestata attorno al tetto dei 130.000 abitanti; solo con la congiuntura migratoria apertasi nei primi anni Novanta (e tuttora in corso) il capoluogo reggiano riprenderà a crescere con quella intensità (valicando ora la soglia dei 160.000 presenti).

Nota bibliografica

Questo testo costituisce una rielaborazione e un aggiornamento di testi storici (corredati con note) editi in precedenza. In particolare si segnalano:

  • Antonio Canovi, Reti sociali, cooperazione, distretti territoriali: note sulla costruzione del sistema Emilia, in Come crescere senza perdere l'anima, vol. secondo, quarta giornata Bagnolo in Piano: Cooperazione e Welfare, pp. 45-55, Area Stampa Group, Correggio 2007
  • Antonio Canovi, Il ruggito dell'Emilia. Paradigmi storiografici e politiche locali nella Reggio che cambia, in Una stagione appassionata. Gli anni '60 a Reggio Emilia, Elettra, Carpi 2006
  • Antonio Canovi, Maurizia Morini et al. Siate uno Stradello. Vent'anni di cammino in una cooperativa sociale 1984-2004, Tipografia La Rapida, Casalgrande 2005
  • Antonio Canovi, CentoAnni Ccpl. Il racconto cooperativo di un Gruppo Industriale, Prefazione di Giulio Sapelli, Milano, Federico Motta, 2004
  • Antonio Canovi & Lorenzo Reggiani, Alle origini della Circoscrizione. Indagine storica sul decentramento amministrativo a Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia - Istoreco, Reggio Emilia 2004
  • Antonio Canovi, Declinazione emiliana. Note sull'Emilia rossa, la Repubblica, le Omi Reggiane, in Un territorio e la grande storia del 900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. II, Dal secondo dopoguerra ai primi anni '70, a cura di L. Baldissara et al., Ediesse, Roma 2002
  • Antonio Canovi, Argenteuil. Creuset d'une petite Italie. Histoire et mémoires d'une migration, Le Temps des Cerises, Paris 2000 [tradotto dall'alitaliano da Marie-Pascale Travade]
  • Antonio Canovi, La terra dei Cervi. Un paradigma e mezzo secolo di resistenza, RS-Ricerche Storiche, A. XXXII, n. 85, Ottobre 1998: 24-53

 

Pour citer cette ressource :

Antonio Canovi, Il ruggito dell’Emilia: Reggio e la costruzione di un sistema locale nell’Italia del "boom", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2008. Consulté le 26/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/les-annees-de-la-contestation/il-ruggito-dell-emilia-reggio-e-la-costruzione-di-un-sistema-locale-nell-italia-del-boom-