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Entretien avec Alessandra Campani

Par Maurizia Morini : Lectrice d'italien MAE et historienne - ENS de Lyon
Publié par Damien Prévost le 17/05/2007

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Alessandra Campani, 37 anni, è laureata in Filosofia e vive e lavora a Reggio Emilia. Da dieci anni svolge attività di studio e ricerca sul tema della differenza e relazioni di genere, conduce laboratori rivolti ad adolescenti nelle scuole di II grado; si occupa di violenza contro le donne come socia dell'Associazione Nondasola. Partecipa a progetti di politiche di genere in tutta Italia.

- Sei una giovane donna, immagino bambina negli anni settanta, come hai conosciuto il femmnismo?

Sono nata nel 1969 dunque durante l'inizio del femminismo in Italia. Sono cresciuta circondata da donne diverse tra loro sia come personalità che come età. Negli anni le guardavo cercando di capire quali aspetti mi piacevano di più e quali di meno ma soprattutto cercavo di individuare quelli più eroici. Ricordo giornate intere a fissare mia madre, le mie zie, mia nonna e mia sorella, più grande di me di sette anni, mentre vivevano la loro quotidianità. A pelle sentivo che appartenevo a quel genere e per altri versi a un destino. Attorno ai 15 anni questo magico mondo si è un po' dissolto, il confronto con le coetanee non ha prodotto le stesse magie, i loro sogni spesso non erano i miei: fare la moglie, avere dei figli, trovare un lavoro che permettesse di conciliare i tempi con la famiglia  oppure, al contrario, puntare tutto sulla carriera. Attorno ai vent'anni mi guardavo attorno cercando quelle conversazioni tra donne che avevano un tempo riempito le mie giornate seppur da spettatrice perché troppo piccola, ma  invece delle donne ho trovato dei libri. È attraverso la lettura che ho dialogato con le donne, che mi è stato possibile non sottrarmi al mio punto di vista. È attraverso la lettura che ho conosciuto il femminismo come movimento storico, ma soprattutto, in questo modo, ho inciampato nel sapere delle donne. Un sapere che fonda le sue radici nell'identità specifica del genere femminile. Un sapere che è riuscito nel tempo a permeare e trasformare la realtà neutra maschile, costruendone una nuova, dove la soggettività femminile ha trovato spazio e voce.

All'inizio degli anni Novanta mentre frequentavo l'Università per laurearmi in Filosofia mi accorgevo che accanto al sapere accademico maschile c'era un mondo parallelo di sapere, non ammesso ai corsi universitari, che riguardava il mio genere ma che a fatica trovavo. Sapevo che le donne si erano interrogate, diventando sempre più l'oggetto della propria riflessione, restituendo dignità, valore e autorevolezza alla relazione di genere ma non sapevo dove parlarne, con chi parlarne, insomma ero nata troppo tardi per uno scambio collettivo e quello che nella mia città rimaneva di quelle donne e di quegli anni era confuso, frammentato, muto: un  dialogo per poche intime.

- Come giudichi ciò che hanno fatto le donne negli anni Settanta?

Il valore di quegli anni è per me straordinario perché lo associo a un movimento nonviolento di liberazione e di affermazione, nonostante sia consapevole che gli anni Settanta non sono stati certamente nonviolenti. La determinazione per il riconoscimento dei diritti, la costruzione di relazioni tra donne come strumento di battaglia sono gli aspetti che fin da subito mi hanno colpito. Ho sempre sentito che il processo non era basato su questioni di principio ma sulla carne e la vita delle donne. Trovo un po' forzato parlare di femminismo e non di femminismi perché il rischio è quello di voler fare sintesi anziché mostrare la complessità di quegli anni e dei diversi punti di vista anche tra le donne. Io ho sempre guardato a quel periodo cogliendo più le differenze tra le donne che le sinergie, nonostante gli obiettivi comuni. Avendolo studiato, letto, il femminismo, più che vissuto, mi sono dovuta fare una scaletta mentale delle caratteristiche di quegli anni. Il secondo femminismo ha assunto caratteristiche proprie rispetto ai movimenti studenteschi connotandosi per:

- la durata circoscritta di un decennio,

- il rifiuto categorico del modello emancipativo e la ricerca di un'autenticità fondata sulle donne stesse e sul rapporto con le proprie simili,

- l'incisività che ha portato a trasformare la cultura e i comportamenti quotidiani piuttosto che la sfera politica,

- l'aver saputo denunciare i limiti della modernizzazione italiana, restando, per scelta, fuori dalle istituzioni.

La scelta femminile è stata quella di creare un nuovo spazio proprio, per poter discutere di sé, per confrontarsi senza fare ricorso a categorie di analisi maschili. Le donne hanno avuto bisogno di staccarsi, non solo culturalmente e ideologicamente, ma anche fisicamente dai modelli maschili per costruire una propria soggettività.

La separazione dagli uomini e la prefigurazione di quelli che sarebbero divenuti i gruppi di presa di coscienza sono i due elementi che inizialmente mi hanno più colpito, nonché  Carla Lonzi e il primo gruppo italiano che ha praticato ed elaborato, in termini di riflessione filosofica e politica, l'esperienza dell'autocoscienza, ponendosi come avamposto del pensiero della differenza.

È proprio all'interno di questo gruppo che si assiste, per la prima volta, ad una radicale presa di distanza dall'uomo - il cosiddetto femminismo separatista - chiamato in questo modo perchè le donne volevano riappropriarsi di spazi propri e privati per poter parlare, confrontarsi e dar vita a nuovi rapporti significativi tra donne e per far emergere la differenza tra i sessi, ma anche la necessità di raggiungere un'uguaglianza sostanziale. Questa posizione e le relative critiche, mi hanno fatto cogliere da subito una complessità di punti di vista unita alla convinzione che non sarebbe stato poi così facile per me capirci da subito qualcosa.

L'idea di emancipazione femminile è stata più volte sottoposta a critiche, e io sono d'accordo,  poiché non teneva conto della soggettività femminile per cui si auspicava una liberazione della donna all'interno però di un modello tradizionale; al contrario, le nuoveauspicavano una liberalizzazione delle donne attraverso la costruzione di modelli originali che esaltassero le specificità di genere «Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell'uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell'esistenza», come afferma Carla Lonzi, nel Manifesto di Rivolta femminile.

Il femminismo è riuscito a declinare, in termini assolutamente specifici, alcune delle grandi questioni poste dai movimenti culturali e politici degli anni Settanta, infatti: la critica all'autoritarismo e ai ruoli sociali diventa critica alla società patriarcale; l'ideale dell'uguaglianza si trasforma in una ricerca di sé non omologante; il rifiuto delle forme tradizionali della politica porta in primo piano il rapporto tra personale e politico, la ricerca e l'invenzione di pratiche nuove come il piccolo gruppo, l'autocoscienza, le relazioni tra donne.

Gli obiettivi si sono mossi dalla lotta all'oppressione nella famiglia e nel matrimonio, alla richiesta di salari per le casalinghe o di parità salariale tra uomini e donne (legge 903 del 1977); dalla conquista del divorzio (referendum del 1974) alla legalizzazione dell'aborto (referendum del 1981).

In particolare, con la battaglia condotta per la legalizzazione dell'aborto le donne prendono possesso del proprio corpo e della propria sessualità, maturando una nuova coscienza di sé. Alla base di questa lotta vi è un'intensa riflessione femminista sul rapporto con il corpo femminile e anche sulla concezione del piacere sessuale slegato dalla riproduzione, oltre all'esigenza di porre fine alla pratica di aborti in strutture fatiscenti e in condizioni igieniche altamente pericolose per le donne.

Il tema del rapporto delle donne con il proprio corpo è rientrato con forza negli anni novanta ma più che altro in termini di problematicità, di malattia, penso infatti a studi, come quelli di Barbara Duden, e dibattiti, che hanno coinvolto molte giovani donne, sull'anoressia, sull'isteria, la bulimia e tutto l'aspetto della medicalizzazione.

Quando parlo, con donne più vecchie di me, del femminismo ho sempre l'impressione di non poter stare nel mezzo ma di dovermi schierare;  in realtà invece credo proprio di potermi prendere il lusso di raccogliere da un collettivo, da un gruppo o da un movimento la lettura e l'analisi che più mi piace senza dovermi schierare per forza contro qualcuno.

Detto questo riprendendo un'affermazione di Lidia Menapace in un'intervista, credo che il femminismo non è mica lo stesso sempre, e inoltre i femminismi sono tanti mi sono sempre più convinta che rispetto al femminismo non è possibile vivere di rendita.

- Si può parlare di eredità o passaggio fra generazioni?

La maggior parte delle giovani donne ha conosciuto il femminismo degli anni Settanta senza averli vissuti, se non attraverso l'ascolto, la lettura, la discussione. Maturare l'idea di stare dalla parte delle donne in percorsi individuali che si incrociano, più o meno fortuitamente, con altri percorsi individuali segna sicuramente una distanza dalle donne delle generazioni precedenti, e forse, proprio per questo, anche una estraneità, un non sentirsi parte, una difficoltà di relazione che viene mediata da competenze professionali o percorsi di studi. Il confronto con le nuove generazioni è un tema che si pone spesso più in una logica di trasmissione che di riformulazione  di pratiche politiche. Le nuove o aderiscono alle cause per fiducia, per echi di memoria e quindi si allineano senza sconvolgere un ordine stabilito oppure il bisogno di entrare in un gruppo e desiderare legittimamente di portare il proprio contributo non può che avvenire (per il momento storico che viviamo) su un piano relazionale/personale o su un piano di conoscenze e competenze relative alle questioni di genere. Questo aspetto però va attentamente guardato, altrimenti, è un continuo misurare le distanze o le vicinanze di ognuna delle altre a una politica per le donne senza però fare chiarezza, e senza soprattutto metterla (quella politica) con forza a disposizione di tutte per renderla un patrimonio comune soggetta a critiche e a confronti. L'inganno della neutralità può essere un buon tramite di relazione e inizio di pratica politica con le nuove. Uno sguardo non neutro sul mondo può riempire ancora la parola femminista? Cosa possono trovare le giovani donne nella parola femminista? Cosa vuol dire per le vecchie, oggi, essere femministe?

Se penso ad alcune pratiche femministe forse un po' successive, come la pratica dell'affidamento, per esempio, io so che a me non è mai venuto in mente di potermi affidare a qualcuno, né che qualcuno si affidasse a me, eppure so che la pratica dell'affidamento è stata, ed è, centrale per poter esplicitare la propria posizione.

Parlare di simbolico della sorellanza piuttosto che di simbolico della madre che senso ha oggi per chi è nato alla fine degli anni Settanta? Sono queste o altre le questioni che appassionano le giovani donne?  Le molte parole che sono ancora in circolazione come relazione tra donne, corpo, separatismo, autocoscienza, affidamento, la disparità hanno sempre lo stesso valore semantico?

- Oggi lavori con e per altre donne.

Come si è già capito io non ci sono arrivata per età a fare il femminismo ma ho incontrato donne con cui praticare esperienza dalla parte delle donne.

Nel 1995 insieme ad altre ho fondato l'Associazione Nondasola - donne insieme contro la violenza. Dal 1997, lavoro come operatrice nel centroantiviolenza per donne che subiscono violenza, che l'Associazione gestisce, in convenzione con il Comune di Reggio Emilia.

Ho sentito, fin da subito, la possibilità di un radicamento della teoria nella pratica.

La convinzione di base di chi lavora nei Centri e nelle Case, e che è proprio a partire dal riconoscimento del valore del proprio genere che si affronta e si concretizza l'aiuto dato alle donne.

La lettura dell'origine della violenza si colloca nell'analisi sociale, culturale e politica dei ruoli maschili e femminili e nella ridefinizione di alcuni concetti:- il paradigma della differenza di genere viene riconosciuto e rivendicato. Il genere femminile è considerato portatore di valori unici ed originali e non semplicemente come riflesso  di altri,- il riconoscimento della donna come persona, intendendo con questo tutte le sue risorse, potenzialita' e capacita',- l'analisi dei meccanismi socio-culturali e politici, che tendono a perpetuare, confinandole nella normale quotidianità, la violenza sulle donne.Spesso, quando si fa riferimento alla professionalità, la si identifica con la quantità di sapere accademico, in prevalenza titoli di studio, riconosciuta dalla cultura ufficiale.

In realtà, la mia professionalità, fa riferimento alla conoscenza, alle esperienze, alle competenze maturate all'interno della relazione con altre donne sia della Associazione che di donne vittime di violenza. Nel caso della violenza alle donne, il sapere non proviene dalla cultura ufficiale, ma da un sapere alternativo che è nato appunto nel movimento delle donne a partire dagli anni Settanta. Ecco perché l'intervento con e per la donna vittima di violenza, comprende assieme al lavoro con l'altra, quello su se stessa.

Io, donna, operatrice, lavoro con un'altra donna in una relazione empatica per sviluppare insieme un progetto di vita diverso da quello segnato dalla violenza che è il problema per cui la donna si è rivolta al Centro e mi chiede aiuto. È una relazione dispari, rispecchiante, strettamente intrecciata da un lato con la realtà della donna, il suo vissuto di violenza e il suo desiderio di cambiare e dall'altro con la mia realtà individuale e di gruppo, con il mio sapere e il mio credere possibile il cambiamento.

Il luogo in cui ci incontriamo è un servizio di parte creato da donne per donne che vogliono cambiare, parlare, ridere, acquisire autorità femminile. È lì che si mette in gioco la relazione progettuale. Dove si costruisce e da dove si riparte per il mondo, in un dentro-fuori che costruisce il cambiamento. Il quadro è quello di un metodo di lavoro che porta la progettualità nell'esistenza e che attraverso tappe, scelte e definite insieme, si muove verso un cambiamento della realtà della donna, analizzata e misurata da due sguardi diversi.

La violenza fisica, psicologica, sessuale e il vissuto di impotenza che l'accompagna, appartengono tanto alla realtà materiale che a quella mentale. Dargli uno spazio di lavorazione è ciò che permette in prima istanza l'elaborazione di un progetto da spendere nel mondo. L'empatia e la misura di un'altra donna, autorevole per sé e per la realtà, sono le condizioni attraverso cui modulare il proprio progetto.Da alcuni anni sono la Responsabile dell'area formazione. In realtà è una formazione che mostra nella sua complessità l'azione politica, continua e costante, di un centroantiviolenza. La formazione è rivolta da un lato agli operatori dei servizi pubblici e privati, finalizzata alla costruzione di un lavoro di rete sul territorio e dall'altro all'attività di prevenzione/formazione rivolta a studenti e studentesse delle Scuole di primo e secondo grado.

Per noi che lavoriamo con le donne che subiscono violenza é un'esperienza quotidiana rilevare la differenza di sensibilità e attenzione al problema della violenza, una serie di scarti nella percezione e nella lettura dei bisogni, nelle modalità di comportamento, di atteggiamento e di linguaggio nei confronti delle donne. Queste differenze nell'approccio al problema della violenza a volte si traducono, in risposte proficue altre volte in incomprensioni o in risposte che ci sembrano inadeguate o più genericamente appaiono come un segno di scarsa consapevolezza della diffusione sociale del fenomeno.

È quotidiano perciò continuare a ragionare su quali strumenti di conoscenza e di analisi si possono offrire e costruire insieme agli operatori per agire e per uscire dal pericolo del non aver visto, e dunque negare una disparità tra i generi. Nel lavoro con le donne abbiamo imparato a nominare le esperienze, a dare voce ai loro silenzi, a valorizzare i loro vissuti ed è stata proprio questa modalità che abbiamo deciso di trasferire anche  nelle Scuole. Nella progettazione e nella realizzazione degli interventi abbiamo intrecciato alcuni dei presupposti fondanti della metodologia di accoglienza delle donne che hanno subito violenza con quelle tematiche che, seppur indirettamente, continuano a sostanziare la violenza contro le donne come violenza di genere. Andiamo nelle classi rielaborando i racconti e le parole delle donne che quotidianamente vengono accolte. Cerchiamo di decostruire i loro vissuti e trovare quelle tracce e quei segnali che possono diventare per noi obiettivi di lavoro con i ragazzi e le ragazze.

Non esiste un antidoto per non diventare  violenti o per evitare di subire violenza in una relazione. Ma durante gli incontri  la cosa che più funziona é proprio la possibilità di ascoltare come altri e altre si comportano, pensano, riflettono sul tema del conflitto, della violenza, della relazione tra i generi, della differenza e della disparità, del proprio modo di essere maschio o femmina.

Ritengo infatti che si faccia prevenzione, non, o non solo, informando i ragazzi e le ragazze sulle cose che devono o non devono fare per evitare di agire o subire violenza, ma attraversando i loro pensieri, i loro vissuti per esperire, a volte anche attraverso un piano metaforico, come certi comportamenti e atteggiamenti, apparentemente irrilevanti, finiscano in realtà per legittimare la violenza contro le donne.

Questa ultima azione nelle scuole, mi permette di dialogare  anche con i maschi , di capire le loro posizioni rispetto al tema della violenza contro le donne ma più in generale del loro essere maschi, delle loro paure e difficoltà, del senso delle loro aspettative nella relazione con l'altra.

Confrontarsi con i ragazzi e le ragazze ha significato per me ogni volta affrontare una sfida, provare a stare su un filo e cercare un equilibrio: non devo condurli a me, far valere i miei parametri come assoluti ma nello stesso tempo devo posizionarmi per far sì che anche loro possano posizionarsi. Posizionarsi vuol dire dichiarare da dove si viene e in cosa si crede, presentarsi senza infingimenti , senza pretendere di vestire i panni di una neutralità fittizia o peggio ancora di una saggezza che non ha appartenenza,  ma al contrario presentarsi nella complessità del proprio essere questa donna, una donna della mia età che lavora in un Centro antiviolenza. Un partire da sé quindi che implica un muoversi verso l'altro/a per mettersi in gioco in una relazione che non dà per scontato l'approdo.

Oltre al fuori c'è un dentro che è rappresentato dalle altre donne che hanno scelto di far parte dell'Associazione,  è per me importante e rassicurante vivermi con ognuna di loro in una dimensione di rapporto o di relazione. Con alcune condivido solo il progetto con altre condivido la sostanza della relazione e dello scambio autentico di valorizzazione, di attenzione e di possibilità del cambiamento.

È proprio questo stare nel mondo pensando a quello che  si fa per porsi come costruttrici di saperi, e non solo semplici utilizzatrici di quelli altrui, autorizzando l'altra e me stessa a essere, a pensare e a parlare che mi ha permesso, in questi 12 anni, di coltivare la disposizione  alla riflessione, una riflessione politicamente impegnata perché mirata a cercare di volta in volta i criteri che danno senso al mio agire.

 

Propos recueillis par Maurizia Morini (23.04.2007)

 

Pour citer cette ressource :

Maurizia Morini, Entretien avec Alessandra Campani, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mai 2007. Consulté le 22/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-des-femmes/entretien-avec-alessandra-campani