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Crisi di un modello (emiliano): Tra Reggio e l’Emilia, appunti sulla fine di un laboratorio sociopolitico

Par Massimiliano Panarari : Essayiste, chargé de cours - IULM de Milan
Publié par Damien Prévost le 07/10/2008

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Reggio - come la sua regione, l'Emilia-Romagna, modello, per lungo tempo, di quel mix raro che teneva insieme funzionamento delle istituzioni, crescita economica e un patrimonio rilevante di capitale sociale (o di virtù civiche) - sta vivendo una crisi, in primo luogo di identità.

Reggio - come la sua regione, l'Emilia-Romagna, modello, per lungo tempo, di quel mix raro che teneva insieme funzionamento delle istituzioni, crescita economica e un patrimonio rilevante di capitale sociale (o di virtù civiche) - sta vivendo una crisi, in primo luogo di identità.

Un aspetto del mosaico della «questione emiliana», la quale costituisce un tema ampio (quanto quella «settentrionale», verrebbe da dire, di cui rappresenta del resto una componente, che, al tempo stesso, trascende nella sua irriducibile peculiarità). Dunque, di fronte a una problematica così indagata e scandagliata (oggetto delle analisi di tanti autorevoli studiosi), ciò che si può proporre - non volendo peccare ridicolmente di hybris - è una serie di quadri, frammenti, suggestioni privi di ogni pretesa di sistematicità, per cercare di evidenziare come il modello emiliano sia oggi davvero sotto stress. Come sanno meglio di altri gli economisti - i suoi primi, più seri classificatori (da Patrizio Bianchi a Gilberto Serravalli) - il «paradigma Emilia», e la sua capacità di esercitare fascino e attrattività (di investimenti materiali e immateriali, intellettuali, emotivi ed emozionali), scaturisce proprio da un mix di produzione, qualità della vita, immaginario di cui l'economia è pilastro, ma non aspetto esclusivo. E, dunque, una modalità forse proficua per misurare la sua febbre consiste giustappunto nel riannodare piste e fili diversi del mosaico e del patchwork, molto postmoderno, del modello emiliano attuale. Un modello che possiamo, a ragion veduta, considerare da qualche anno epistemologicamente più debole, il quale ha conosciuto, dopo l'epoca di formidabile forza degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, una rivoluzione à la Kuhn. Finendo per risultare, per l'appunto, decisamente relativizzato.

Un tentativo di radiografia

Come ha notato, fra gli altri, Aldo Bonomi((A. Bonomi, Nelle quattro regioni del Po il motore ha ripreso a girare, «Il Sole 24 ore», 30 settembre 2007.)), partendo dai rapporti Unioncamere regionali((Si tratta di valutazioni sulle quali concordano vari soggetti e istituti di ricerca, come ERVET (Emilia-Romagna Valorizzazione Economica Territorio), l'ente che funge da agenzia di sviluppo regionale.)) dall'anno 2002 al 2006, il sistema economico emiliano-romagnolo ha mostrato una notevole capacità di reinventarsi per stare al passo dei tempi globalizzati. La regione dei distretti per antonomasia - indagati, studiati e poi, per alcuni versi, reindirizzati e riorientati (secondo una «ricerca-azione» da manuale) dal gruppo di economisti raccolti intorno alla facoltà di Economia di Modena da Sebastiano Brusco((S. Brusco (a cura di A. Natali, M. Russo, G. Solinas), Distretti industriali e sviluppo locale, BIl Mulino, Bologna 2007.)) - mostra la capacità di tesaurizzare le esperienze precedenti e di dare vita a sistemi territoriali competitivi mediante filiere e veri e propri network d'imprese. Reti imprenditoriali che trovano i loro nuclei forti e «noccioli duri» in circa 5 mila aziende manifatturiere, le quali ne aggregano a loro volta altre 20.000, operanti nell'industria e nei servizi. Questa regione a economia diffusa, dopo aver vinto la sfida della crescita e dello sviluppo locale, passando da quella plaga desolata e poverissima che fu all'indomani dell'Unità d'Italia a territorio di elevato benessere, ha affrontato bene il postfordismo (l'assimilazione alla cui logica era in parte scritta nell'evoluzione del peculiare e differenziato sviluppo industriale emiliano-romagnolo) e ha saputo traghettare se stessa - assai più agevolmente di altre zone - nel «quarto capitalismo»((La nozione di quarto capitalismo è entrata nel discorso al Lingotto di Torino di Walter Veltroni (27 giugno 2007), segnale potenziale di un mutamento delle preferenze industriali del centrosinistra, tradizionalmente più a proprio agio con la grande impresa (oltre che, naturalmente, con quella pubblica) e perennemente in affanno con le varie declinazioni del capitalismo molecolare e postfordista.)), caratterizzato da medie imprese ad alto tasso di internazionalizzazione, che operano nei settori del manifatturiero. E anche il «capitalismo imprenditoriale» di piccola impresa, come lo chiama Enzo Rullani((E. Rullani, La rivoluzione delle imprese, «Il Sole 24 ore», 4 novembre 2007.)), tipicamente emiliano, ha mostrato notevoli doti adattative e creative, riposizionandosi in modo soddisfacente sotto il profilo competitivo e perseguendo strategie innovative, attraverso la vendita di idee (anziché solo di merci) e l'allungamento delle reti della commercializzazione e della fornitura, alla ricerca, in giro per il mondo, di mercati presso i quali collocare i propri prodotti. E anche l'innesto dell'economia della conoscenza (la celebrata knowledge economy), in uno spazio territoriale privo di realtà metropolitane a eccezione di Bologna (se di area metropolitana si può correttamente parlare, essendo comunque molto distante dagli standard numerici comunemente associati al di fuori d'Italia a tale categoria), è avvenuto piuttosto positivamente. In Emilia, insomma, non si è affatto prodotta la temutissima deindustrializzazione, e neppure quella delocalizzazione spinta che ha attraversato, tra le altre aree del paese, in maniera compulsiva e parossistica il Triveneto, all'inseguimento forsennato del costo del lavoro più basso.

Al contrario, l'economia locale (nella quale svolge un ruolo significativo, come noto, la cooperazione - o movimento cooperativo, come si autodefinisce, in omaggio alle proprie radici) si è ristrutturata intelligentemente, investendo in settori a tasso medio-alto di tecnologia, che occupano attualmente il 37% della forza lavoro presente in regione e rappresentano la metà delle esportazioni (di cui un decimo riconducibile a pieno titolo all'high tech)((Dati Unioncamere riferiti al 2006.)).

Se gli indicatori economici e di crescita - ammesso e non concesso che questa possa venire considerata di per se stessa un toccasana, proprio mentre una corrente di economisti ci dice, dati alla mano, che il PIL non rende più felici((Una posizione, quella della critica al PIL che, da orientamento di nicchia, sta allargandosi progressivamente e vede confluire visioni e linee di segno diverso: dalle teorie della decrescita alla maggiore sensibilità in sede di Unione europea, come dimostra il convegno, tenutosi il 19 e 20 novembre 2007 a Bruxelles, sul tema Beyond Gdp - proprio la Commissione europea, del resto, in un'altra fase storica, aveva introdotto la questione dei limiti dello sviluppo (incontrando critiche feroci e bipartisan da parte delle forze politiche degli stati nazionali).)) - restituiscono il quadro di un'area decisamente in salute, andando a guardare con attenzione, per parafrasare uno slogan divenuto celebre, molti segnali evidenziano tuttavia un'«Emilia sazia e (un po') disperata».

Le statistiche (dell'Istat e di ricerche di varia matrice e provenienza)((R. Cartocci, Mappe del tesoro, il Mulino, Bologna 2007.)) mostrano come in queste terre il capitale sociale sia largamente presente, sull'onda di un'eredità assai positiva e apprezzata, che affonda, però, le sue radici decisamente nel passato. La riproduzione di tale patrimonio, immateriale ma dagli effetti molto concreti e tangibili, costituisce un aspetto problematico. Sul quale pesano, naturalmente, fattori generali, generazionali e di mutamento dello Zeitgeist, ma che palesa una speciale drammaticità proprio nella regione per antonomasia delle bocciofile e delle polisportive, dei donatori di sangue, dei circoli ARCI e ACLI. Mostrando così tutte le difficoltà della trasmissione del testimone, come accade, sotto un altro profilo, a proposito del passaggio generazionale delle imprese, avvertito con forte allarme e segnalato a più riprese da alcune associazioni di categoria.

Il valore d'uso e di scambio che ha avuto maggiormente corso in Emilia (e l'ha fatta grande), infatti, è stato, sino a non molto tempo fa, l'idea della «responsabilità personale» - insieme al pragmatismo e al proverbiale senso pratico - ovvero un imperativo morale di ascendenza quasi protestante nell'Italia barocca e pietistica, che si vedrebbe collocabile naturaliter nella Torino sabauda (e, in particolare, nella sua purtroppo brevissima parentesi azionista), piuttosto che nella Bologna dei tortellini e delle due Torri. Proprio perché per stabilizzare il reddito medio pro capite su livelli secondi solo all'iperglobalizzata (e tragicamente diseguale) regione della «Grande Londra», garantire un'ammirevole coesione sociale, produrre montagne e stratificazioni di record da Guinness dei primati (dagli «asili più belli del mondo» del metodo pedagogico di Loris Malaguzzi a Reggio Emilia alla motoristica di Modena, dall'avventura intellettuale del Mulino a Bologna alla concertistica di Parma, dalla musica leggera alla meccanica di precisione equamente distribuite sul territorio), occorre avere uno spiccato senso di responsabilità, sola garanzia del fatto che le cose vadano a buon fine. E anche, necessariamente, una certa considerazione di sé. L'autocoscienza del proprio valore che sotto la bonomia e l'apparente modestia gli emiliani, e i romagnoli, hanno sempre posseduto in quantitativi abbondanti, come pure, continuando nelle verità talmente autentiche da essere divenute cliché, quel tasso di creatività (mista a una «follia felliniana») senza la quale non si produce, per esempio, la scocca della Ferrari.

Senza fare della «psicostoria» spicciola, lo specchio in cui la gens Emiliana si rifletteva, traendone la consueta (oltre che del tutto meritata) immagine ottimistica e rassicurante, si è incrinato, producendo recentemente qualche serio problema di autostima.

Un sensazione di disagio palpabile, di malessere diffuso, che si coglie visitando le città lungo la via Emilia, o per meglio dire percorrendo quell'unica conurbazione, pressoché senza soluzione di continuità, quella «metropoli espansa», che è la Los Angeles emiliana, come andava di moda dire alcuni anni fa. La baumaniana vita liquida non ha per niente risparmiato le (fino a poc'anzi) solidissime pianure intorno al Po, e pare anzi averne intaccato la psicologia collettiva.

Se la parte può valere per il tutto, si può assumere un caso emblematico, quello di Sassuolo, in provincia di Modena, la capitale del distretto ceramico, in cui si concentra una larga fetta della produzione nazionale di piastrelle((G. Lonardi, Piastrelle, la crisi Usa non frena un settore da 7 miliardi di euro, «Affari & Finanza», «la Repubblica» 5 novembre, 2007.)). Le previsioni di Assopiastrelle (Confindustria) sino al dicembre 2007 delineano per il settore un ridimensionamento del volume dell'export del 2-3%, e, al contempo, un incremento dei ricavi pari al 3%. Mentre la competizione globale si fa più accesa e serrata, gli industriali emiliani reagiscono evidentemente qualificando la produzione, all'insegna di uno sforzo di creatività che persiste e si riproduce, e spingendo sull'internazionalizzazione che non si traduce sic et simpliciter in delocalizzazione, ma serve a garantire la presenza in loco per presidiare i mercati esteri. Mantenendo, in ogni caso, come l'associazione industriale ama ripetere a ogni pie' sospinto (anche in funzione di mantra rassicurante), la gamma alta e l'«intelligenza» della produzione in Italia - ovvero, nella fattispecie, tra Modena e Reggio Emilia. Eppure, mentre il know how viene incentivato e potenziato, mostrando un caso di scuola di manifatturiero all'emiliana che si reinventa, il distretto ceramico si trova a dover fare i conti con le inefficienze e le problematiche nazionali (la viabilità, in particolare l'assenza di una bretella che colleghi direttamente la cittadina all'Autostrada del Brennero, sovraccaricando in modo insostenibile il traffico ordinario, e ancora l'inadeguatezza dello scalo portuale di Ravenna) e le diseconomie di origine internazionale (come i costi dell'energia superiori a quelli sostenuti dai concorrenti europei e, specialmente, dall'aggressiva e inarrestabile locomotiva spagnola).

L'economia, dunque, combatte e non si arrende - anche se il territorio e gli ecosistemi, eccessivamente antropizzati, ne pagano spesso un prezzo eccessivo - ma si trova non di rado sola. E se Sassuolo, insieme a Modena e Carpi, è sede dell'eccellente Festival Filosofia organizzato dalle amministrazioni locali insieme alla Fondazione Collegio San Carlo, qualche tempo fa è stata teatro di sgomberi di immigrati responsabili di occupazioni abusive di case, con lo scatenarsi di forti tensioni, mai avvertite finora nella placida città delle piastrelle. Una situazione che aveva fatto parlare di riots e di Bronx per indicare il quartiere sassuolese dove molti immigrati vivono. Uno shock, dunque, in cui finivano per confluire fenomeni di natura diversa, su molti dei quali si preferisce stendere un velo più o meno pietoso, o di fronte a cui si ritiene meglio distogliere lo sguardo, dall'esigenza fortissima di manodopera straniera a basso costo per lavori non qualificati e che gli italiani preferiscono evitare (il caso dell'impressionante e abnorme involuzione edilizia della città di Reggio Emilia, a dispetto degli sforzi della giunta in carica di regolare le costruzioni, è sotto gli occhi di tutti), l'economia illegale degli affitti in nero (un tipico caso di falsa, falsissima coscienza degli italiani), le ovvie e inevitabili differenze culturali (che presentano una dismisura rispetto agli sforzi di mediazione messi in campo dagli enti locali). Ma gli esempi che si possono prendere sono tanti, e parlano tutti di una società complessa che mette in crisi il modello di coesione cui generazioni di emiliani erano state accostumate e dal quale erano state civilizzate.

L'immigrazione, come evidenziano le articolate e composite ricerche del Medec((Si può leggere una sintesi dei risultati di un'indagine sull'immigrazione in F. Anderlini, Bologna ospitale? Solo un ricordo, «la Repubblica», 20 settembre 2007, dalla quale emerge come a Bologna (ma le conclusioni possono essere estese, pur nelle differenze, anche alle altre città della regione) l'indice di disponibilità nei confronti degli stranieri sia crollato di 14 punti dal 2003 a oggi.)) che monitora costantemente lo stato dell'opinione pubblica bolognese, rappresenta un fattore problematico e generatore di ansie, in un Paese che - come certifica la Caritas - ha visto aumentare in questi anni del 20% la presenza degli stranieri entro i suoi confini. E l'Emilia rappresenta la regione capofila in termini di presenza di immigrati, al punto da indurre i suoi abitanti a serie riflessioni sulla sostenibilità di un flusso migratorio in entrata tanto massiccio, mentre l'«infrastrutturazione di accoglienza» appare decisamente inadeguata. Bologna ospitale, ci dicono le indagini, rischia davvero di diventare un (glorioso e piacevole) ricordo da archiviare, mentre aumentano sofferenze, disagi, paure, secondo quella spirale che contraddistingue esemplarmente il Primo mondo postmoderno, pervaso da sindromi sicuritarie e da fenomeni di disgregazione sociale, dove a scarseggiare ogni giorno di più è il bene immateriale primario su cui si fondano le democrazie, la fiducia. Vale a dire, il bersaglio preferito dell'industria della paura, mai tanto pasciuta come oggi, tra cancelli elettrici, antifurti, barriere, telecamere, fughe dalla città verso «sobborghi» lindi e ripuliti che fanno tanto Weltanschauung anglosassone, per la gioia di quello che Naomi Klein chiama il «capitalismo dei disastri» (col suo correlato, la shock economy). Certo, Vignola e San Lazzaro non sono come Detroit o Johannesburg, ma quando si ribadisce continuamente la loro estraneità ed eccezionalità positiva i metri di paragone, va ricordato, sono Modena e Bologna, Emilia, e non gli Stati Uniti o il Sudafrica. Perché la paura è un sentimento che travalica il dato di fatto ma parte sicuramente da esso, e su questo occorrerebbe una meditazione approfondita, che non liquidasse il tutto, con un'alzata di spalle, come percezione infondata.

Sul vecchio laboratorio Emilia, infatti, è calata di prepotenza l'epoca delle passioni tristi di cui ci parla il filosofo e psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag, quel sentimento grigio di assenza di fiducia nel futuro che ha fatto dilagare in Occidente il consumo di psicofarmaci, che i dati dei SERT (i servizi pubblici di prevenzione e lotta alle dipendenze) descrivono in significativo incremento anche in Emilia. Laddove, per riprendere le parole del criminologo ed ex consulente per la sicurezza del Comune di Bologna Massimo Pavarini, «insofferenza, indignazione, panico invasivo e identitario finiscono per comporsi in una miscela che esalta il sentimento di progressiva estraneità dei residenti rispetto al territorio»((M. Pavarini, Bologna: riflessioni sul degrado, «Il Mulino», 1/2007: 123.)). E il senso di distanza e di non appartenenza al territorio, in uno spazio di vero e proprio «neocomunitarismo di sinistra» e di democrazia russoviana quasi realizzata quale l'Emilia-Romagna (mantenendo come costante parametro di comparazione il resto dell'Italia, beninteso, dove il particolarismo è invece il filamento portante del DNA comune e condiviso), costituisce l'inequivocabile sintomo di una malattia terminale. Malattia terminale del corpo sociale, dunque malattia della democrazia. Quel morbo che mescola xenofobia, rifiuto dell'altro, chiusura in una Heimat desolante e piccina (molto più del mondo piccolo di guareschiana memoria), che a volte sembra aleggiare insieme alla nebbia (per nulla felliniana) di certa provincia emiliana, tremendamente simile, da questo punto di vista, a quella lombarda e a quella veneta.

È la crisi della rete di protezione sociale e del sistema di Welfare, da sempre più sviluppati ed estesi in Emilia-Romagna che altrove, a moltiplicare in modo dirompente la percezione e il sentimento di insicurezza esploso in virtù di fenomeni (assai poco virtuali) di delinquenza e di criminalità crescenti, e di natura più efferata di quella cui si era finora stati costretti ad assistere. Il mix è potenzialmente esplosivo e sta mettendo a dura prova le tradizionali virtù civiche degli emiliani. Nell'Emilia rossa dei ceti medi, raffigurata in modo insuperato da Palmiro Togliatti nel suo celeberrimo discorso del 1946, pare essersi consumata definitivamente proprio la parabola del ceto medio socialdemocratizzato, peculiare versione locale della middle class, soggetta a una riduzione e a una pauperizzazione planetaria sotto le sferzate del neoliberismo implacabile moltiplicatore delle disuguaglianze sociali. E così, si diffonde anche, sempre più a macchia d'olio, la precarietà lavorativa, di cui sono vittime in primo luogo i giovani, frequentemente costretti a ricorrere al ben noto Welfare familiare (che l'Emilia strutturalmente materna e «mammistica» non nega, finendo però per ritardarne ulteriormente i percorsi di autonomizzazione individuale).

Tornare alla politica

Viviamo i temi di una società vulnerabile nel Paese come in regione. Il «nuovo contratto sociale», di cui si parla da tempo e che contemplerebbe «più servizi, più occupazione, meno Stato»((M. Gaggi & E. Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, Torino 2006.)), si misura in Italia con la presenza di apparati pubblici ipertrofici (e per niente intenzionati a farsi ridimensionare) dalle performance in genere assai scadenti. L'Emilia-Romagna culla del socialismo municipale di fine Ottocento ha avuto proprio nel settore pubblico uno dei suoi punti di forza e delle sue direttrici di sviluppo, al punto da diventare una specie di «regione keynesiana». Un produttore di servizi di livello per la popolazione, un complesso di enti e apparati garanti di cittadinanza, e l'incubatore di idee, progetti e innovazioni, dalla stagione della pianificazione urbanistica alla programmazione regionale, dal policentrismo funzionale e direzionale delle città capoluogo (a volte mal digerito, ma nei fatti sempre praticato) alla legislazione di tutela del suolo e di uso del territorio (un passo concreto in direzione della nozione di sviluppo sostenibile, sorta di must linguistico e teorico destinato a costellare tutti i documenti politici e amministrativi successivi), sino ai tentativi di tenere il passo del progresso tecnologico e di inserirsi nella rivoluzione informatica e delle Ict. Come ha più volte sottolineato uno dei protagonisti del modello emiliano, Guido Fanti((G. Fanti e G. C. Ferri, Cronache dall'Emilia rossa, Pendragon, Bologna 2001.)), il nucleo centrale e il core dell'intrapresa di progresso e cittadinanza che si è sviluppata in questi territori ha coinciso con l'attivazione di una politica di segno riformista ad opera principalmente di un partito che attendeva la rivoluzione((Tanto da far considerare ad alcuni il modello emiliano come profondamente intriso di sovietismo e guidato dal mito dell'URSS: M. Fincardi, C'era una volta il mondo nuovo, Carocci, Roma 2007.)) e che vedeva i suoi gruppi dirigenti nazionali, non a caso, nettamente ostili a riconoscere la valenza nazionale dell'esperimento avanzato di (buon) governo qui praticato. Osservazioni che rendono possibile la lettura nei termini di un filo rosso e del riconoscimento della continuità di un percorso riformista, alimentato da «squilibri permanenti», che conduceva in modo diretto dalla predicazione nelle campagne e dalle battaglie operaie sul finire del XIX secolo degli «apostoli del socialismo» alla Camillo Prampolini o alla Andrea Costa al ruolo egemone del Partito comunista nell'ultimo mezzo secolo del Novecento. Una questione di sinistra, quindi, il modello emiliano, senza nulla togliere al cattolicesimo dossettiano e sociale che tanta e importante parte ha avuto nella stagione del progressismo (basti pensare a quanto esso si riveli debitore sotto il profilo dell'urbanistica di un intellettuale sociale del territorio quale Osvaldo Piacentini). Il tutto sorretto, quasi sempre, da quella bergsoniana (e romantica - viene istantaneamente alla mente il Novecento di Bernardo Bertolucci) «potenza di slancio vitale»((F. Anderlini, La città trans-comunista, Pendragon, Bologna 2006.)), come la definisce Fausto Anderlini, che agiva nelle masse emiliane (in primis rurali e, successivamente, operaie e artigiane).

La sensazione attuale, però, è che quella mission di emancipazione e quel programma di cittadinanza risultino finiti. E che la visione politica si sia arenata (paradossalmente, a ben pensarci) nel naufragio di una sinistra nazionale incapace di cambiare le cose e di fare le riforme, sia che «volesse la luna» sia che si appiattisse sull'esistente. In ogni caso, parolaia, a fronte della versione emiliana, affetta da limiti sicuramente, ma assai fattiva e operativa.

L'Emilia regione precorritrice del postmoderno (ricordate la superedonistica Rimini, capitale degli anni Ottanta, di Pier Vittorio Tondelli?) riesce a essere contemporaneamente postindustriale (affacciandosi timidamente, ma con convinzione sul proscenio dell'economia cognitiva e della conoscenza) e neoindustriale. Ma ha bisogno di tornare a trovare il propellente che l'ha mossa lungo il corso dei decenni. Necessita pertanto di un nuovo primato della politica, aggiornato e reinventato. Quella politica che ora latita, fa piccolo cabotaggio, avendo rinunciato al largo respiro e alla capacità di offrire modelli. La manutenzione non basta, e non è neppure dignitosa (oltre che per niente sufficiente) in vista di un futuro che si preannuncia complicatissimo.

E, soprattutto, non si dà sviluppo locale senza coesione. Ad essere entrato in crisi, qui, è precisamente un paradigma di coesione che era innanzitutto un prototipo di socializzazione e la condivisione di una formula politica, nutriti dell'ambizione (forse più implicita che esplicitata, ma comunque faticosamente sempre praticata) di lavorare nella direzione di quella che possiamo chiamare «felicità pubblica».

Intendiamoci, nell'eterna (e sempre più problematica e faticosa) transizione italiana, l'Emilia-Romagna rimane comunque un luogo di elevata qualità della vita. Ma non è più, giustappunto, l'Emilia felix, e il suo primato, ormai lungi dallo svettare in termini assoluti, permane per ragioni meramente comparative. Tra Piacenza e il litorale adriatico si sta sicuramente meglio che altrove, perché questo Paese chiamato Italia, che non riesce a essere (almeno) «normale» (e che non ha mai fatto una rivoluzione, né liberale, né men che meno di qualunque altro genere), vede la propria situazione, in tutte le statistiche, peggiorare progressivamente, scivolando drammaticamente verso il basso, dalla competitività economica alla trasparenza negli affari pubblici, dal livello dell'istruzione all'allargarsi delle quote di popolazione che vivono vicino o al di là della soglia di povertà((Caritas italiana - Fondazione E. Zancan, Rassegnarsi alla povertà? Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.)). Rispetto a tutto questo, sicuramente è tramontata, in modo irreversibile, quell'eccezione emiliana, che aveva partorito l'omonimo apprezzatissimo modello.

La discussione sulla crisi del modello è oggi aperta ed è ormai entrata nel dibattito italiano e in quello che si svolge all'interno della regione. L'auspicio è che finalmente possa prendere piede, evitando (a volte ipocrite e comunque troppo rassicuranti) minimizzazioni che non rendono un buon servizio a una storia politica, economica e socioculturale che fece dell'Emilia-Romagna (pur con limiti reali) un paradigma e un laboratorio di valenza nazionale ed europea.

 

Pour citer cette ressource :

Massimiliano Panarari, "Crisi di un modello (emiliano): Tra Reggio e l’Emilia, appunti sulla fine di un laboratorio sociopolitico", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2008. Consulté le 28/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/les-annees-de-la-contestation/crisi-di-un-modello-emiliano-tra-reggio-e-l-emilia-appunti-sulla-fine-di-un-laboratorio-sociopolitico