Un nuovo ordine del discorso
Chi liquida il sessantotto come una rivoluzione a parole, gli rende omaggio senza saperlo. Fra i tratti che lo caratterizzano rispetto ai movimenti politici del secolo scorso, c'è proprio il rapporto con il linguaggio. Non mi riferisco alla caduta dei tabù linguistici, che era già in corso fra beat, hippies, avanguardie culturali. Penso allo sforzo di ridare a parole usurate - libertà, uguaglianza, solidarietà- il loro senso pieno, e soprattutto al tentativo di costruire un nuovo orizzonte dei discorsi. Applicata a quella stagione, «rivoluzione culturale» non significa soltanto un cambiamento negli stili di vita, significa il tentativo di sgretolare l'ordine discorsivo dominante, con la moltiplicazione dei soggetti, dei luoghi, dei temi della parola pubblica. Da questo punto di vista, il 68 è un assaggio di rivoluzione simbolica, e dunque a pieno titolo politica, che ha il suo esempio più noto nella «presa di parola» del maggio parigino- lo scrive, rifacendosi a Michel de Certeau, Michelle Zancarini((Vedi M. Zancarini-Fournel, LA Prise de parole: Michel de Certeau, 1968, l'evenement et l'écriture de l'histoire, (in C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, M. Trebitsch (dir.), Michel de Certeau. Les chemins d'histoire, Bruxelles/Paris, Complexe, pages 78-86. Fra chi insiste sulla natura politica del 68, A. Sofri, La corsa nei sacchi, in «Micromega», 1, 1988.)). Ma non solo del maggio. Nelle assemblee aperte di molte università, nei comitati di agitazione, nei gruppi di lavoro, si mette in scena un'altra idea di cittadinanza, in cui è decisiva la facoltà di presentare/raccontare se stessi in autonomia. Al criterio di autorità si contrappone la libertà di esprimersi e partecipare, rompendo il monopolio della parola pubblica assegnato a intellettuali e dirigenti politici. Sull'onda dei movimenti americani, si denuncia la superbia di credersi al di sopra della parti, si chiede a giornalisti, docenti, intellettuali, scienziati, da che luogo parlino, e il luogo è l'istituzione, l'ideologia, il rapporto con l'oggetto di studio, con il mercato, con le tecnologie - nel linguaggio d'epoca, si chiede di «prendere coscienza del proprio ruolo» e della parzialità della propria visione.
Non è la prima volta che si annuncia il funerale dell'equazione autorità = verità, che si critica il mito della conoscenza oggettiva, l'ambizione di pochi a parlare a nome dei più. Basta pensare ad alcune avanguardie artistiche e, in parte, politiche dell'800 e 900, alle radici del rifiuto della delega. Radici lontane e vicine, dalla polis greca ai consigli operai, dal sogno della democrazia partecipata alla critica della società di massa, in cui ciascuno ha il suo posto e deve rimanerci. Ma ora alla base della trasformazione non ci sono soltanto una filosofia o un'estetica, c'è un modello di legittimazione dei discorsi radicato nella consonanza empatica e politica fra chi parla e chi ascolta. Non si progetta, almeno in teoria, di sostituire un'avanguardia con un'altra, ma di svuotarne il concetto. Punto di partenza e di arrivo, la rivendicazione del valore di ogni esperienza come spinta alla trasformazione di sé e del mondo.
Rossana Rossanda ricorda così un'assemblea alla Sorbona: «Una delle rivoluzioni più grandi è che l'individuo, la persona, diventa molto importante nel collettivo, perché afferma un principio antigerarchico. Ognuno ha diritto di parlare come gli altri, come i capi. Si metteva in discussione che aveva il diritto di sedersi dietro a un tavolo a parlare, con gli altri a ascoltare (...) Mi ricordo che a Parigi, durante il maggio, in una asseblea arrivò Sartre, ma nessuno lo fece passare davanti e lui dovette aspettare che tutti gli altri parlassero»((R. Rossanda, le donne: il '68 e dopo, p. 52 in A.V. Cinque lezioni sul sessantotto, Torino, Dossier n. 1 di Rossoscuola 1987.)).
Non c'è rappresentazione migliore di come la soggettività si formi e si ridefinisca nel rapporto con gli altri, in particolare la soggettività emersa nel 68 e pensata dal 68, con il suo innamoramento per il collettivo e nello stesso tempo per l'individualità. L'aspetto più amabile del movimento è stato un'accezione di libertà diversa da quella classica, secondo cui la mia finisce nel punto in cui comincia la tua, quasi dovessero inevitabilmente competere e tollerarsi a vicenda. Allora le libertà sembravano camminare insieme, non libertà «di», «da», «fin dove», ma libertà «con», vissute in una sintonia in parte immaginaria, in parte reale. Nelle università occupate si vive qualcosa di simile a quello che Hannah Arendt definisce felicità pubblica, un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale sia intrecciata a quella collettiva, che la politica non sia più un mestiere per specialisti, ma coincida con lo stare insieme e comprenda il gioco, il riso, l'affettività. Di qui il suo aspetto di comunità «calda», di antidoto alla solitudine nella società di massa. Di qui, lo ricorda Morin, la sensazione di un benessere fisico fino allora sconosciuto((E. Morin, Culture adolescente et révolte étudiante, in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», III, 1969, pp. 766-768, ora in Id. (con I. Nahoum), L'esprit du temps 2. Nécrose, Grasset, Paris 1975, pp. 170-171.)), l'impressione, lo scrive Stephen King, di essere fatti di una «materia stellare»((S. King, Cuori in Atlantide, in Cuori in Atlantide, Sperling & Kupfer, Milano 2000, p. 455.)).
Bisogna però dire che si è trattato di un dono effimero, di una scheggia di tempo nel tempo del 68 - stato nascente, fase della «follia», della festa. E di un dono parziale. Le parole non pesano tutte allo stesso modo, non tutte le differenze hanno la stessa radice. Una cosa è quella che passa fra i discorsi dei leader e quelli dei militanti di base, dei colti e dei meno colti, di giovanissimi e di adulti, di demagoghi e di democratici, e soprattutto di uomini e di donne. Queste sono disparità visibili, affrontabili sebbene di rado affrontate nel 68. Altra cosa è il talento verbale, che ha ben poco a che fare con l'anagrafe sociale, culturale, politica e che dà un potere informale spendibile all'interno di una élite, tanto più se quell'élite ha a sua volta aspetti informali.
Già nel 68 la femminista americana Jo Freeman(Joreen)((Joreen [J. Freeman], The Tyranny of Structurelessness, in A. Koedt, E. Levine, A. Rapone, Radical Feminism, Quadrangle, New York 1973, originariamente in «Notes», giornale di scritti del movimento, 1970.)) aveva lanciato un avvertimento: più domina l'informalità, più cresce il peso delle élites, e le élites non «sono niente di più, e niente di meno, di una cerchia di amici» cui succede di partecipare alle stesse attività politiche. Nel 68 ce ne sono parecchi, e sono anche una sua ricchezza. Ma, che il gruppo lo voglia o meno, ne nasce una disuguaglianza netta, e per di più non nettamente identificabile, perché il potere è mascherato dalle relazioni. Non diversamente da un sistema sociale o da una filosofia economica, un gruppo ispirato al «laissez-faire» funziona come una cortina di fumo dietro cui si nascondono i rapporti di forza. Con il risultato che le responsabilità si confondono, i processi di decisione diventano opachi, il potere capriccioso - e le parole possono avere un peso sempre più differenziato.
Partire da sé
Un trait d'union fra individiale e collettivo, le due sponde vitali dei movimenti politici, è il principio sessantottino del partire da se stessi -un se stessi che include la condizione di ciascuno, gli stati d'animo, sogni, frustrazioni, felicità, dolori. Partire da sé è innanzitutto dare credito a una idea di politica tesa a frantumare la divisione pubblico/privato. E' vero che la linea di confine tra le due aree è sempre stata mutevole, che spesso si è tradotta nel dominio della politica sulla vita. Non per questo è meno importante l'idea che i comportamenti personali abbiano rilevanza politica di per sé, non in funzione di un progetto complessivo; e che la rivoluzione debba passare attraverso la vita quotidiana. I terreni del cambiamento si moltiplicano. La scommessa diventa trasformare se stessi, in uno scontro interno fra la parte di ciascuno che rappresenta le forze dell'autoritarismo, la parte che incarna il bisogno di liberazione, la parte che cerca di sottrarsi a questa dicotomia. Ecco il senso della parola d'ordine «portare il Vietnam dentro di sé», che Susan Sontag definirà una tensione continua «dentro la mia testa, sotto la mia pelle, alla bocca del mio stomaco», «una malattia»((S. Sontag, Viaggio a Hanoi, Bompiani, Milano 1969 (ed. or., Trip to Hanoi, Farrar, Straus and Giroux, New York 1968) citato in P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 37.)).
Ma già nel 1962 uno dei leader dell'Sds, Tom Hayden, aveva aperto la strada in un meeting all'università del Michigan: «dopo la distruttività incomprensiile di due guerre e di una terza in arrivo, dopo che la Guerra fredda ha distrutto i rapporti fra gli uomini (..)è venuto il tempo per la riaffermazione del personale((S. Evans, Personal Politics. The Roots of Women's Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage Books, New York 1980 , pp. 107 e segg.)).
Il tema del partire da sé riguarda la componente del 68 che verrà definita antiautoritaria, esistenziale, empirica - termini del lessico politico per indicare le situazioni in cui ci si concentra, più che sul «quadro generale» e sull'«analisi di classe», sulla lotta al potere accademico, sull'autoformazione, sulla soggettività. Come, in Italia, a Trento, a Torino, alla Cattolica di Milano. Ed è una doppia eresia: lo è per la tradizione liberale, secondo cui le differenze devono esprimersi nella sfera privata, senza interferire in ambito pubblico. Lo è per la sinistra di allora, in cui l'impegno cominciava (almeno in linea di principio) dall'oblio della dimensione personale.
Ma anche fra gli antiautoritari, il sé da cui si parte e che in teoria abbraccia l'esperienza di ragazzi e ragazze, si modella su un soggetto giovane, bianco, eterosessuale e soprattutto maschile. E arriva fin dove sa, può, vuole. In linea di principio se si teorizza il superamento delle barriere pubblico/privato e personale/politico, non si può non incontrare il modello base di questa e di altre dicotomie, il rapporto maschile/femminile e uomo/donna. I più sensibili potrebbero intuire il vizio originario di un'idea di democrazia fondata su un ordine politico e simbolico a misura d'uomo. Nella pratica non succede, e non è così strano. La tradizione filosofica occidentale ha divulgato l'idea che esista un unico soggetto, quello maschile, che rappresenterebbe l'intera umanità. Per capire quanto sia «inventato» l'universalismo studentesco bisogna guardarlo da questo punto di vista -lo farà il femminismo, che porterà a maturazione teorica e pratica il principio del partire da sé, e smonterà i meccanismi per cui alle categorie del sessantotto le donne restano quasi invisibili (o meglio, resta invisibile la loro differenza). Qualcuna dirà poi che «non è per nulla chiaro come i compagni sono arrivati a stabilire la politicità del loro personale»((M. Fraire, Il nostro movimento e il loro, in «Quaderni piacentini», 64, 1977, p. 47.)).
Quel principio ha però un primo merito: il 68 non ignora affatto il pericolo di partire da sé e di rimanerci, riconosce l'importanza di uscire dall'università e di collegarsi a altri strati sociali. Ma, nella sua componente antiautoritaria, rifiuta di farlo al modo delle cosidette vecchie sinistre, che proponevano un'alleanza fra interessi differenti tenuti insieme dalla mediazione del partito. L'obiettivo, ambizioso, è convolgere altri soggetti, tendenzialmente tutta la società, in una «lunga marcia attraverso le istituzioni», che nel pensero di Rudi Dutschke non punta a una presa del potere di tipo leninista, ma a stimolare nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni una ribellione ispirata alle esperienze e condizioni specifiche. Una ribellione a partire da sé.
Se si vuole ancorare il movimento al marxismo, bisogna almeno dire che è un figlio illegittimo - o almeno lo è una sua parte. Marx (e Lenin, Mao, persino Stalin) sono ben vivi nei gruppi politici preesistenti che soprattutto in Francia e in Italia si inseriscono nel movimento, sono vivi nelle componenti studentesche che considerano l'università la base di reclutamento per l'ennesimo partito «veramente rivoluzionario», e vedono il suo soggetto elettivo nella classe operaia - gli operaisti, forti a Roma e alla Statale di Milano, i maoisti italiani e francese. Ma tra fine 67 e inizio 68, a emergere sono i temi, l'atmosfera, le forme di lotta più nuove, è la critica alle istituzioni che con il loro «autoritarismo massificante» legittimano la ribellione. Nasceranno anche grazie a questo clima nuovi diritti e nuovi soggetti in grado di rivendicarli in prima persona dall'interno della loro condizione materiale e immateriale.
Il secondo merito del metodo del partire da sé è aver aperto nei discorsi pubblici uno spazio prima impensabile per la parola autobiografica. Nella fase inziale, quando chiunque può salire su una cattedra e prendere un megafono, qualcuno lo fa per arringare i compagni, qualcuno per raccontarsi. Ricorda Rosssanda che alla Sorbona i narratori «erano donne, studenti, pensionati i quali volevano semplicemente raccontare la loro storia. Non sempre era una storia molto interesante, ma era la storia dell'unica vita che uno ha. Volevano che non rimanesse soltanto propria, avevano bisogno di dirla, e che gli altri intorno li ascoltassero per non sentirsi uno zero assoluto, un numero anagrafico [...]». È vero che registro autobiografico e registro politico non sono necessariamente separati, ma nessun movimento lo aveva fino allora affermato con tanta semplicità. Una cosa sono il metodo dell'Sds di iniziare le riunioni locali con l'autopresentazione personale degli organizzatori, oppure la pratica dei partiti comunisti di chiedere agli aspiranti iscritti la loro storia: in questi casi il racconto è sempre in funzione dal lavoro politico. Nel primo sessantotto, risponde iinvece al desiderio di dire «chi si è realmente».
Bulimie autobiografiche
Agli ex sessantottini si rimprovera spesso una verbosità smodata, che rifletterebbe il bisogno di autobiografia diffuso negli ultimi decenni, o farebbe rivivere la rivoluzione parolaia del 68. Può essere vero per la prima ipotesi, sicuramente è falso per la seconda.
Quante discontinuità fra i racconti di oggi e il partire da sé di allora. Non è tanto questione di soggetti. I narratori della Sorbona non sono puri spiriti, immuni dall'autocompiacimento e dal desiderio di affermazione. Le differenze sono di contesto e di sostanza. Diverso il luogo: tv e giornali anziché un'assemblea politica. Diversi i nuclei narrativi: racconto di eventi singolari toccati a gente cosiddetta comune, anziché storie comuni rivelate nella loro unicità. Diverso lo spirito: la voglia di riscatto si fa sentire oggi come ieri, ma in un caso si affida all'industria dello spettacolo o all'editoria e cerca un pubblico, nell'altro conta sull'ascolto faccia a faccia e cerca dei compagni. Soprattutto è diverso il senso: nelle università occupate ci si racconta nella prospettiva di cambiare se stessi e il mondo, oggi lo si fa per cambiare la propria carriera di vita all'interno di una società immutata, e restando a propria volta immutati. Sono sempre lo stesso, dicono a volte i protagonisti di talk show. Vero o meno, quella che si mette in scena è un' identità ripetitiva, appiattita su una ipotetica medietà. Si tratta di un modello, naturalmente, da cui i racconti possono discostarsi. Ma rispetto al 68 è quasi un capovolgimento.
Un rapporto fra la verbosità attribuita agli ex sesantottini e l'oggi può invece esserci, è ovvio, anche se ci è riflettuto poco. La società dello spettacolo si è gonfiata al punto che il primo termine tende a dissolversi, il secondo a debordare ovunque -come avevano previsto i situazionisti; la rivendicazione della soggettività è diventato bulimia autobiografica. In vari casi il partire da sé viene eletto a nuovo domicilio legale delle buone intenzioni. Caduto in relativo disuso, il paradigma intenzionalista che controbilanciava errori e crimini con la purezza dei cuori rivive nelle biografie/autobiografie dei terroristi anni settanta, e in parte minore dei «ragazzi di Salò». Le cose vanno ancora peggio in politica (l'Italia è il caso limite), dove la linea di confine pubblico/privato si è quasi dissolta non perché si sia politicizzato il personale, ma perché si è privatizzato il politico.
Un esperimento di autoricerca
Gli ex sessantottini non sono necessariamente più attrezzati della media a contenere lo scivolmento dal bisogno di racconto all'autobiografismo all'autogiustificazione. Molto dipende dal temperamento e dalle situazioni personali, dai contesti in cui si racconta- l'intervista per un libro o un giornale, uno scritto proprio, un incontro fra amici. A Torino, nel dicembre 1987, dopo che alcuni ex del sessantotto avevano organizzato una festa per il ventennale dell'occupazione di palazzo Campana, a qualcuno è venuto in mente che sarebbe stato interessante rivedersi per continuare a parlare e raccontarsi le proprie storie di vita. Ci siamo assemblati a caso, indipendentemente dalle vecchie amicizie e appartenenze, e tempo qualche settimana eravamo una microcomunità chiusa all'esterno, 13 persone che si ritrovavano ogni 15 giorni per intervistarsi a vicenda, dodici a interrogare una a rispondere.
Da questa autoricerca durata tre anni, sono uscite decine di ore di registrazione, più di 2000 pagine trascritte. Oggi la vedo come una riappropriazione collettiva del principio di realtà nei confronti della memoria che avevamo coltivato di quella fase, o almeno di alcuni suoi aspetti. Era un materiale significativo per quel che diceva e per quel che non diceva, curioso, a tratti davvero nuovo. Non abbiamo mai accettato di renderlo pubblico in qualche forma, eppure tre di noi facevano gli storici, quattro gli insegnanti, uno il sociologo, un altro scriveva narrativa. Le 2000 pagine sono rimaste lì. Per una forma di pudore, per il rispetto verso gli assenti citati, forse per una concezione patrimoniale della memoria. Ma anche perché il gruppo aveva finito per implodere sotto il peso del conflitto uomo/donna, quello di un tempo racontato con un certo coraggio, quello che serpeggiava al nostro interno sotto l'atmosefra da Paradiso bimbi -come scherzava una di noi per indicare l'illusione di sfuggire alle complicatezze della cosiddetta questione sessuale.
Qualche riflessione se ne può trarre. La prima, ovvia: il molti casi il «noi» del sessantotto prescinde dai percorsi successivi e dalla diversità fra le idee che ciascuno aveva allora; se ha ancora molta forza, è perché si regge sull'aver condiviso un clima((Su questo ha scritto in modo ancora oggi utilissimo P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.)). La seconda: se anche quando ci si racconta fra simili scatta il bisogno di salvaguardare quel noi, è perché se ne conosce la vulnerabilità. Che i terreni di tensione siano gli stessi di allora, è una conferma che non esiste una memoria credibile senza la messa in questione del rapporto uomo/donna.
Memorie I
Se stilizzazioni, derive, errori, tic, sono forme proprie di tuttte le memorie, quella del 68 ha almeno un tratto specifico: molto spesso è puntiforme, mostra vuoti, slabbrature, cronologie incerte. È l'effetto del flusso di emozioni (solo per alcuni di natura psichedelica) che avvolgeva l'esperienza, di un modo di vivere appiattito su un eterno presente, della sensazione che il tempo fosse insieme incalzante e infinito. Jerry Rubin, leader del movimento americano contro la guerra in Vietnam, aveva inventato questa boutade: chi pretende di avere ricordi precisi di quegli anni, probabilmente non li ha vissuti.
Le vaghezze e gli errori sono padroneggiabili, anzi, esistono un'infinità di esempi sul modo in cui da un ricordo incerto, da una datazione sbagliata, si può risalire a un mondo di idee e emozioni altrimenti inattingibili. Vale anche per la memoria del 68.
È una memoria ricca. Maschile e femminile, sebbene esista una compartimentazione per cui di femminismo parlano le donne (e rari uomini), di tutto il resto gli uomini, e molte meno donne. Socialmente e geograficamente variegata. Mista negli Usa fino all'esodo dei militanti neri. Ovunque estesa a tutte le componenti della cosiddetta nuova sinistra.
Soprattutto è una memoria doppiamente generazionale. Che aver vissuto un evento da ragazzi aggiunga bellezza al ricordo è noto, la storia orale ha insistito molto sulla variabile dell'età. In questo caso è particolarmente importante, perché si tratta di vicende di giovani in quanto giovani e in comunanza con altri giovani. E perché, a differenza che nei movimenti anagraficamnte eterogenei, è raccontata da adulti/anziani dei medesimi sottogruppi di età. Le memorie passano attraverso corpi invecchiati, di cui in genere si parla poco, mentre non si parla quasi mai, come fosse una colpa, del sentimento di perdurante giovinezza che può irrompere nel ricordo - e nella vita. Anche se i movimenti hanno contribuito alla tendenza a spostare indefinitamente in avanti la vecchiaia, gli ex del 68 sembrano avere una coda di paglia eccessiva, tanto più se li si confronta con altri narratori. La rivendicazione più solare del proprio sentirsi tuttora giovani viene da alcune tranches biografiche di militanti del 1977 riunite in un bel libro da Enrico Franceschini((E. Franceschini, Avevo vent'anni. Storia di un collettivo studentesco. 1977-2007, Feltrinelli, Milano 2007.)).
Ma stranamente sugli aspetti generazionali c'è meno dibattito di quanto ci si aspetterebbe, meno tentativi di comparazione con altre memorie di gioventù, scolastiche, di gruppi di pari. Credo che a fare ostacolo sia il peso simbolico delle guerre moderne, specie la grande guerra, in cui la memoria del soldato, il giovane per eccellenza, è quasi sempre carica di dolore e di senso di morte. Difficile confrontarsi con questo estremo.
Ho invece incontrato punti di contatto fra racconti del '68 e altri di resistenza, in cui le smagliature sembrano legate sia al rischio fisico, sia al modo febbrile di percepire i fatti, si tratti di uno scontro armato o di una corsa spericolata in macchina.
Nell'accumulo di memorie spiccano grandi divergenze e topoi straordinariamente simili. Come quello che in Italia e Francia circola in alcune battaglie di strada: «Arrivano gli operai!», dalla cintura torinese, dalla banlieue parigina - e dai western, dal canto Partisans dove i resistenti sbucano da ogni parte, dalle chansons de geste, dalle fiabe. La memoria è una grande miscelatrice di fatti, leggende, materiali letterari, immagini. E una grande narratrice di genealogie: in un testo recente, il «compagno partigiano» presente in molti racconti diventa protagonista, mediatore con la polizia, padre simbolico((R. Tumminelli, L'altra parte, in P. Staccioli (a cura di), Fragole e sangue, Edizioni Clandestine, Marina di Massa 2007, pp. 91 sgg.)).
Spesso i racconti più interessanti sono di donne, come se ci fossimo fatte carico di traghettare fatti e sentimenti nella sfera del pubblicamente memorabile o semplicemente di conservarli. Mi vengono in mente le parole di un ventenne di Sarajevo che spiegava il suo bisogno di voltare pagina, e la risposta della ragazza italiana Sabina Langer: «Potete dimenticare perché ci sono le madri che ricordano per voi»((La sede era un seminario sulla memoria organizzato dalla Fondazione Langer il 30 marzo 2007.)).
Memorie II
Il femminismo ha una memoria meno generazionale - si andava dalle ragazzine alle più che adulte; più omogenea socialmente, con una prevalenza vistosa di ceto medio, più varia cultural-mente - studentesse, casalinghe, insegnanti, fotografe, grafiche, pittrici, musiciste. Fra le donne, il filone delle artiste è più interno al movimento che fra i giovani.
Molte variazioni anche qui, ma soprattutto un comune legame fondativo con la memoria quale nessun altro movimento ha avuto. Il tramite è l'autocoscienza, metodo conoscitivo e narrativo che vuole svelare «come sono andate realmente le cose», marcando la propria differenza dalla storia. La prima che sa di essere parziale e fa di questa consapevolezza la sua promessa di verità, la seconda che si pretende oggettiva solo perché non si accorge di essere completamente interna alla versione maschile. Il piccolo gruppo di autocoscienza è il luogo di una contronarrazione, una comunità di parola e di ascolto in cui non si può ovviamente condividere l'esperienza del passato, ma quella di ricordarlo e interpretarlo sì. Con tutto il potenziale di rottura che ne deriva, e che fa della biografia l'orizzonte della soggettività femminile.
Questo dono di nascita non scioglie di per sé i dilemmi della memoria, sia orale sia scritta. Al femminismo spetta il compito equilibristico di raccontare una vittoria vistosa ma parziale, senza svalutarla e senza nascondere che il conflitto non è chiuso e che i risultati non sono irreversibili. Spetta rendere avvincente una storia che l'etichetta del successo fa apparire conclusa, come un poliziesco di cui sia già noto il finale. Alcune delle conquiste degli anni settanta sembrano talmente ovvie da far pensare alle più giovani che ci siano sempre state. Per il femminismo, è un effetto a doppio taglio - la misura di quel che si è ottenuto e insieme il rischio di essere archiviato come reperto più o meno prezioso.
C'è di più. Nella prima fase del femminismo dominava il paradigma dell'oppressione - la storia come una catena di sopraffazioni, le donne come vittime assolute. Presto si è fatta strada una visione più ricca, attenta alle strategie femminili per guadagnare spazi di libertà, alle connivenze con il maschile, al modo in cui le donne creano una propria sfera pubblica e esercitano alcuni poteri. Ma se il paradigma andava sfumando, l'oppressione patita restava. E restava la tentazione di rappresentare un passato tutto in perdita, in cui l'approdo al femminismo simboleggiava una seconda nascita, il frutto della gravidanza di se stesse.
Solo che raccontarsi come vittime è difficile, specialmente da quando il modo principale per avere voce è dichiararsi tali, in una gara a chi è più oppresso((T. Pitch, L'embrione e il corpo femminile, al sito www.costituzionalismo.it, fascicolo 2, 2005.)). Solo che la nuova vita non è tutta nuova né tutta bella, mentre l'opinione comune misura il valore del movimento sulla situazione personale di chi ne ha fatto parte. E' «l'esame felicità»((A. Marino, Il fantasma della felicità, in «DWF», 1, 1996, p. 15.)). Caso unico: dalle svolte politiche non si pretende mai il passaggio istantaneo alla beatitudine. Dal femminismo sì. E alle donne si chiede, come a un minore che abbia voluto fare di testa propria: «Almeno (sottinteso: dopo tante proteste avventatezze sconvolgimenti), sei felice?». Il che contribuisce a rendere impervio il racconto dei limiti del movimento, specialmente in tema di democrazia e di sofferenze patite nei rapporti fra donne. È raro il coraggio della femminista torinese Angela Miglietti, quando ricorda la cartolina - «vi saluto SS» - che aveva mandato a una compagna del collettivo da cui era stata espulsa a inizio 1973((P. Zumaglino, Femminismi a Torino, con contributi di A. Miglietti e A. Piccirillo, introduzione di I. Damilano, Franco Angeli, Milano 1996, pp.173-174.)).
È un peccato che le rare registrazioni e i verbali delle riunioni di autocoscienza siano circolati poco. Perché ritenuti deludenti rispetto al pathos della comunicazione verbale, forse per uno spirito proprietario simile a quello che qualcuno imputa agli altri movimenti, forse per la convinzione che l'esperienza non fosse comunicabile. Le competenze in tema di narrazione autobiografica guadagnate nell'autocoscienza sono ancora in buona parte da mettere a frutto.
In compenso si sono inventate formule narrative nuove, in cui si intrecciano, o si giustappongono, autobiografia e ricerca storico/teorica. Fra i primi esempi, Nato di donna di Adrienne Rich((A. Rich, Nato di donna, Garzanti, Milano 1977.)), una riflessione sulla maternità istituzione e sulla maternità esperienza. E Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain((J.B. Elshtain, Donne e guerra, il Mulino, Bologna 1991.)), che mentre smonta i luoghi comuni sul naturale pacifismo femminile, racconta squarci della propria vita. E' una risposta al buon imperativo di chiarire la posizione da cui si scrive: l'essere nata donna in un paese o in un altro, avere la pelle bianca o colorata, una certa cultura, una certa immagine agli occhi del prossimo, un certo corpo, sano infermo curato lasciato a se stesso. Giovane o vecchio. Scriveva Virginia Woolf che come donna la sua patria era il mondo intero. Sì, ma a condizione di tenere se stessa al centro; per una orientale o una latinoamericana sarebbe sempre rimasta una borghese bianca britannica colta. Per questo la posizione cambia a seconda della consapevolezza che si ha di altre storie e persone. E con la consapevolezza cambia il racconto, a volte ne è scoraggiato, a volte può far deflagrare l'autoimmagine personale e collettiva.
Gli (alcuni) ex del 68 lo sanno. Dove magari non hanno effetto le accuse di permissivismo, di antimeritocrazia, può averne per esempio la memoria di quanto il movimento sia stato cieco al valore dei diritti democratici, ottusamente ingeneroso di fronte alla primavera di Praga e alle lotte all'est; e quanto ostinato nella pretesa di semplificare l'insemplificabile.
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Pour citer cette ressource :
Anna Bravo, Un nuovo ordine del discorso, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juillet 2009. Consulté le 21/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-des-femmes/un-nuovo-ordine-del-discorso