Sulla soglia dei linguaggi: tra identità e generazioni
Premessa
Sono grata a Maurizia Morini dell'Istituto di Cultura Italiano e al suo direttore Ivano Marchi che mi hanno invitata a partecipare al seminario dedicato al rapporto fra Femminismo e generazioni. E' un'opportunità che mi permette di riprendere un filo di ragionamento sulla questione della trasmissione del Femminismo. Questione che incrocia tanti aspetti: innanzitutto il concetto di identità (a patto che si possa ancora parlarne oggi, nello scenario globale, senza evocare un'inevitabile gerarchia fra identità forti e identità deboli); i percorsi esistenziali e intellettuali di chi direttamente o indirettamente si è fatto carico della lezione femminista e, in ultimo, l'esperienza collettiva delle donne. Dal punto di vista della scrittura si tratta anche di ripensare quello che è stato considerato, nella tradizione femminista, un vero e proprio metodo teso a restituire la soggettività della singola dentro una pluralità di esperienze e dunque nella storia di tante e di tanti. Tutto questo universo è oggi complicato da un'idea di Europa diventata terra di migranti di donne e uomini che amplificano, ancor più, la presenza di un'eterogeneità di modelli culturali e appartenenze.
Dico subito che sono arrivata al Femminismo prima dei miei trent'anni - io sono nata in Piemonte nel 1955. E ci sono arrivata da strade diverse. Sono approdata al mondo del lavoro molto presto e quindi sono venuta in contatto, assai giovane, tra diciotto e vent'anni, con la realtà delle donne nella sfera pubblica e sociale. Gli studi sono venuti dopo e in parte sono venuti, in contemporanea, mentre lavoravo. A ben guardare sono sempre stata nel doppio, in un luogo e in un altro (nel mondo del lavoro e nel mondo dello studio, nel mondo della scuola e nel mondo della ricerca, infine in quello della ricerca e quello della letteratura fino ad arrivare a non sapere più dove davvero sono. In questo senso ho infranto un nodo centrale del pensiero femminista, vale a dire quello del situarsi, del posizionarsi). E tuttavia ho cercato, pur nelle contraddizioni, di vivere la scissione come qualcosa di fecondo, pensando che l'interferenza, la dissonanza possono rovesciarsi di segno e diventare un'occasione fertile e creativa.
Dico che nei primi anni Settanta, in cui confusamente avvertivo gli echi femministi legati all'esperienza milanese di Rivolta femminile (anni in cui, tra l'altro, io ero direttamente dentro le lotte sindacali dei metalmeccanici a Torino), nell'ambiente di fabbrica prevaleva, rispetto al genere, il paradigma dell'uguaglianza. Ci si batteva per raggiungere condizioni di vita e di lavoro più accettabili per tutti, uomini e donne. Solo marginalmente si parlava di differenza. Vorrei qui sottolineare quanto i contesti ridefiniscano, dal punto di vista temporale, questioni politiche e appartenenze. Alla fine degli anni Settanta anche attraverso l'esperienza dell'Università - che io iniziai nel '77 - mi sono avvicinata al Femminismo e alle sue forme associative. Molto presto la mia presenza nei gruppi di donne ha coinciso con i miei interessi e i miei studi legati al grande tema della storia delle donne. Alla fine degli anni Settanta, primi anni Ottanta, comprendevo quello che diceva Arlette Farge secondo cui la storia delle donne non solo rimette in gioco il rapporto fra il soggetto e l'oggetto della storia, ma rimescola, in fasi diverse della vita, l'uno e l'altro((Arlette Farge, Le Silence, le souffle, La Pionnière, Paris, 2008; cfr., anche Pratiche ed effetti della storia delle donne, in Memoria, n.9, 1983, pp. 66-78)). Non ci è dato essere unicamente il soggetto che indaga, ma anche il soggetto che viene guardato da altri/e a mano a mano che si procede nelle generazioni. Noi tutti trasmutiamo. Da soggetto diventiamo oggetto. In questo approccio emergeva in maniera forte l'elemento della interscambiabilità. E mi piaceva il fatto, allora del tutto inedito, che fosse una donna a partire dal suo sé sessuato di genere e di generazione a rimettere in gioco, a scombinare la dialettica storica. La studiosa stessa - in senso teorico, il soggetto pensante - è il frutto di un rapporto fra alienazione ed emancipazione. Dal punto di vista della dialettica storica, il soggetto è compreso nell'oggetto((Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988)). Nella mia esperienza il Femminismo incrociava allora direttamente la storia delle donne. E mi piaceva il fatto che fosse quella donna, con tutta la complessità dello sguardo del presente, a far rivivere, a far rinascere un'altra volta (categoria meravigliosa, questa della nascita, che viene dal pensiero di Hannah Arendt) i soggetti - le donne - di un passato vicino o lontano((Hannah Arendt, Responsabilità e Giudizio, Torino, Einaudi 2004)). E ancora mi sembrava che la storia delle donne fosse davvero politica, e utopica allo stesso tempo, proprio perché manteneva, come dice Marcia Westkott, una forte spinta relazionale e relativa((Marcia Weskott, The Feminist Legacy of Karen Horney, New Haven, Yale University Press, 1986; cfr., anche Feminism Criticism of Social Sciences, in Joyce McCarl Nielsen, Feminist Research Method Exemplary Readings in the Social Sciences, Boulder, San Francisco, 1990)). Anche se in questa relazione fra passato e presente si fanno i conti costantemente con la distanza, con la perdita (la conoscenza è il prezzo della perdita, dice Michel de Certeau((Michel de Certeau, La scrittura della storia, Milano Jaca Book, 2006)). Il soggetto di studio, che si dichiara nel tempo e nello spazio, nel momento stesso in cui viene scritto, viene tradotto in scrittura, è già altro dall'immaginario che ci si è costruiti. E tuttavia da questa lontananza è anche possibile guardare a quel soggetto, individuarlo e riconoscerlo. Soggetto e oggetto restano distinti, inevitabilmente separati, e tuttavia collegati da una relazione fluida in cui possono, quasi per alchimia, scambiare le proprie sostanze senza tuttavia perdere la propria forza originaria.
Negli anni Ottanta, anni per molto fervidi dal punto di vista del mio itinerario intellettuale ed esistenziale, cominciavo il mio dottorato a Parigi con Michelle Perrot e collaboravo insieme ad altre studiose alla nascita della Società Italiana delle Storiche. E tuttavia mantenevo la mia liminalità. Stavo sulla soglia. Insegnavo e facevo ricerca e in questo senso vivevo dall'interno la questione della trasmissione culturale, nodo centrale per tutto il dibattito sul Femminismo. Il rapporto con l'inedito, con l'alterità entrava in campo anche attraverso i soggetti, generazionalmente più giovani di me, i miei allievi di un Liceo tecnico commerciale in provincia di Torino. Nella scena della relazione scolastica si creavano diverse occasioni per parlare del Femminismo, anche se già negli anni Novanta la questione diventava sempre più difficile. C'era e c'è un fatto tragico implicito nel processo di trasmissione. Chi narra e parla avanza negli anni, pur avendo di fronte generazioni della medesima fascia di età (dai diciassette ai diciannove anni circa). Il rischio è che la forbice si apra a dismisura e che le distanze, che prima evocavamo come luogo di fecondità, diventino incolmabili.
Le generazioni
Tuttavia vorrei dire che questa nostra capacità di autoriflessione, che incorpora necessariamente la categoria di generazione, anche come limite dello sguardo, non è mai disgiunta dal riconoscimento dei soggetti del passato vicini o lontani, un riconoscimento che noi attiviamo attraverso la mediazione delle fonti Si tratta di tutta una prospettiva intersoggettiva interessante, ampiamente elaborata dalla storia delle donne, che dovrebbe condurre verso l'idea della conoscenza come dialogo (di qui il rapporto strutturale con le generazioni), come scoperta che non può essere pre-detta, ma che deve essere esperita. Dunque ciò che si porta sulla scena è il rapporto fra continuità e discontinuità, identità e alterità.
Da questo punto di vista vorrei sottolineare che ciò che segna il rapporto fra le generazioni, e dunque ciò che individua il processo di trasmissione, è l'idea di frontiera. Una frontiera, una linea d'ombra da superare all'indietro - nel momento in cui si entra in rapporto con i soggetti del passato (questo è il grande lavoro dello storico) - o in avanti - nel momento in cui siano i soggetti del futuro a sfidarci.
In questa scena simbolica si intravede tuttavia un'idea perversa che grava via via sulle giovani generazioni. L'idea, secondo la quale, in una prospettiva progressiva e lineare della storia, ogni generazione dovrebbe sempre superare la precedente in un succedersi infinito di conoscenza ed esperienza. Secondo questa prospettiva, l'ultima ipotetica generazione riunirebbe il progredire della storia, cumulerebbe in sé tutto il sapere delle precedenti generazioni. C'è un sogno malato, un delirio sociale che pesa sui giovani. Occorre sempre fare qualcosa di più e di migliore rispetto a chi è venuto prima. E' un disegno che si inscrive nel rapporto gerarchico fra il prima e il dopo, il passato e il futuro. Si tratta di una visione schiacciante e gravosa, poiché ogni generazione avrebbe idealmente il compito non solo di superare la precedente, ma anche di distaccarsene. Può darsi che le cose non siano così. Può darsi che si vada avanti e si torni indietro e si recuperi come nella vicenda individuale di ognuno, dove si cambia, si innova e si conserva contemporaneamente. Le rotture, le discontinuità convivono allora con le continuità. Questa è una prospettiva che si può rilanciare anche dal punto di vista storico. Dice Paul Ricoeur in Tempo e racconto che nessuno mai è in posizione assoluta di innovatore, ma sempre innanzitutto di chi eredita((Paul Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, Jaka Book, 1983)).
Temporalità e contesti
La prima questione che vorrei introdurre, pensando proprio alle generazioni, è quella delle temporalità e dei contesti. Abbiamo parlato di nomadismo, di dislocazione per quanto riguarda il genere((Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995)) e di disseminazione di forme dell'identità collettiva, anche in relazione alle nuove culture europee((Luisa Passerini, L'Europa e l'amore. Immaginario e politica fra le due guerre, Milano, Il Saggiatore, 1999)), e tuttavia vorrei dire che quando parliamo a giovani donne e giovani uomini richiamiamo temporalità e modelli dell'immaginario che sono stratificati nelle nostre esistenze. L'io narrante è anche la risultante dei tanti strati, dei molti passaggi. Noi tutti incrociamo temporalità diverse. Questo conta nel processo di trasmissione, perché i livelli di evoluzione non sono linerari. Se penso alla mia storia, posso dire di essere una donna degli anni Cinquanta e Sessanta con tutta la bifrontalità di quel periodo((Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Milano, Franco Angeli, 1993; cfr., anche Crescere negli anni Cinquanta, in Memoria, n. 2, 1981)). Contemporaneamente sono una persona che ha vissuto esperienze forti della modernità legate agli anni Settanta e Ottanta, ma posso anche dire di essere una donna che ha faticato ad accettare aspetti propri della modernità. Sono rimasta indietro e avanti contemporaneamente, se mai sia così fondamentale collocarsi in una linea del prima e del dopo. Si tratta di una prospettiva propria della vita, o come tanta sociologia ha detto, del ciclo di vita, e che forse solo la letteratura può mettere in scena nella sua complessità. Dato che la letteratura svela piani contraddittori e plurali e denuda le molteplici stratificazioni che costituiscono il peso della vita, delle vite.
E tuttavia proprio invocando queste diverse temporalità, sovente impresse nei gesti irriflessi del corpo, noi possiamo trovare i fili per dialogare con linguaggi molto diversi dai nostri, quali quelli giovanili, mettendoci in contatto con culture che noi conosciamo marginalmente. Il processo di trasmissione diventa allora un boomergang che apre a tante vie. Ma dobbiamo partire da questo nostro essere delle îles flottantes per richiamare il nome di un dolce francese che a me piace molto.
Il corpo
Dunque con questo sguardo arricchito dalla complessità della scena soggettiva, centrale risulta essere il tema del corpo, vero e proprio spazio interpretativo per la storia delle donne. Nella mia vicenda intellettuale questa categoria interpretativa, che per anni mi ha dannato l'anima, mi ha condotta prima al silenzio, poi alla quasi incapacità di reperire una parola in grado di restituire gli intricati fili che reggono le storie individuali e collettive.
Avevo incontrato il corpo tante volte e sempre, paradossalmente, nell'assenza. Mai nella presenza. Ho incrociato il paradosso dell'assenza negli anni Ottanta a partire dai miei studi sulla cultura valdese-protestante, cultura, quella protestante in particolare, che costituisce un riferimento costante per i modelli dell'Europa medio atlantica. Nel mio libro, Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi((Graziella Bonansea, Bruna Peyrot, Corpi e immagini di donne valdesi, Torino, Rosenberg & Sellier 1993)), uno studio sulle forme di rappresentazione nella cultura valdo-protestante, emerge, come, rispetto all'immaginario femminile, il corpo delle donne non abbia diritto a una sua immagine, a una sua icona, a una sua figuralità autonoma se non come prolungamento della norma etica e della regola prevista dalla comunità. Mancando la dimensione del sacro legata al femminile e la sua rappresentazione iconica, la figura femminile viene ad essere privata di tutto quello straordinario patrimonio simbolico legato alla pratica delle devozioni. "Che ne è stato delle donne del Cinquecento protestante tedesco - diceva Natalie Zemon Davis nel suo bel saggio sulle culture europee del Cinquecento - che hanno visto sparire di colpo tutto un bagaglio di immagini legato alle sante e alla Vergine Maria? Chi avrebbero invocato nelle doglie del parto le donne votate a Martin Lutero? Un Dio padre che sempre giudica e di cui è sconosciuto il perdono, essendo venuta meno la pratica della confessione auricolare?"((Natalie Zemon Davis, Le culture del popolo, Einuadi, Torino, 1980)) Nella cultura protestante, così come in quella valdese-protestante, sono le parole della regola, dell'etica che suppliscono la rappresentazione della fisicità. E' la centralità della coscienza, spazio irriducibile, inconoscibile, oltre che luogo in cui si consuma il rapporto con Dio, ad assumere su di sé il piano figurale. In questa scena, dove il dentro e il fuori si equivalgono, il corpo femminile resta, sul piano simbolico, assente. E se assumiamo la società protestante come il grande veicolo della modernità e dell'europeità, potremmo dire che una parte fondativa dell'identità europea poggia sull'assenza simbolica del corpo femminile. E tuttavia, grazie alla centralità della coscienza e alla grande forza dell'alfabetizzazione - come è noto nella fede protestante ci si salva attraverso la lettura e meditazione delle Sacre Scritture - proprio nei paesi di origine protestante le donne affermano, per prime, la necessità del diritto al voto, il diritto alla cittadinanza e più in generale all'entrata nella scena pubblica e politica.
Ho ancora incontrato il corpo nei brumosi paesaggi della grande fabbrica, la Fiat, degli anni Cinquanta. Un corpo che, di nuovo, si collocava come scarto, alterità, rispetto ad un altro corpo ben più terribile e totalizzante, quale quello della macchina. Una macchina che le donne operaie simbolizzavano, naturalizzavano, vestivano, come usavano dire, con dei fiori, compiendo così un'opera di intensa umanizzazione, proprio mentre la macchina mutava profondamente i loro ritmi biologici. Nella fabbrica, da me a lungo studiata anche nell'ambito delle mie ricerche parigine, emergeva questa forma di scambio fra due soggetti alienati ed estranei l'uno all'altro((Graziella Bonansea, Immaginario femminile tra lavoro di fabbrica e dimensione del corpo, in P. Nava (a cura di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992)).
Successivamente ho incontrato il corpo nella scena della sfera pubblica fino ad arrivare al corpo della politica e, in senso più drammatico, alla sua rappresentazione nella realtà della Seconda guerra mondiale. Al centro, il corpo delle partigiane, quasi carnevalesco, capace di nascondere cibo, munizioni, ma anche capace di inscenare, di teatralizzare le vicende più incredibili((Graziella Bonansea, Immagini e simboli nei racconti di partigiane carraresi. Introduzione al volume dedicato al partigianato femminile carrarese dal titolo, A Piazza delle Erbe, pubblicazione della Provincia di Massa Carrara, 1994)). E tuttavia mentre procedevo nelle mie ricerche assumevo via via la consapevolezza del paradosso che lega il rapporto fra le donne e la sfera politica. Un paradosso fondato sul patto sociale secondo il quale - come nel Leviatano di Hobbes - se le donne entrano in politica non acquisiscono unicamente uno spazio di visibilità e di forza, ma sono anche costrette a rinegoziare visioni, linguaggi, saperi, che provengono da una lunga tradizione di genere e in particolare dal mondo della relazione. Per il soggetto femminile, si tratta di entrare in contatto con uno sguardo sociale fondato sul distacco, sulla separazione, sulla distanza, implicita non solo nei modelli della politica ma nello spazio stesso della democrazia. Dunque all'origine dell'entrata femminile nella scena pubblica non c'è soltanto una condizione di pubblica felicità per l'accesso a una sfera per secoli negata, ma anche il dolore per dover rimettere in gioco aspetti che appartengono a una lunga cultura di genere. Per rileggere quel dolore occorre andar oltre gli schemi che si sono costituiti nella stessa tradizione politica e che hanno continuato a persistere attraversi discorsi netti, duali, polari, non permettendo la trasmissione di una memoria della complessità.
Le Guerre Mondiali
Ora, per ritornare a questo tema dell'assenza del corpo, che fa da ponte a tutto il discorso sulla contemporaneità e sul Femminismo, vorrei portare l'attenzione su quello che per me è diventato un ostacolo alla mia produzione saggistica. Un ostacolo responsabile della mia virata verso la letteratura. Studiando a lungo il fenomeno delle guerre mondiali, in particolare la Seconda guerra e l'Olocausto, lavorando con fonti diverse, mi sono trovata di fronte alla malattia che tutte le guerre svelano. Julia Kristeva in Sole nero. Depressione e malinconia, riferendosi al secondo conflitto mondiale, parla della presenza nel cuore del Novecento di un soggetto malato alla radice, poiché capace di dare la morte((Julia Kristeva, Sole nero. Depressione e malinconia, Milano, Feltrinelli, 1989)). Su questo nodo mi sono inceppata, poiché la malattia mi sembrava fosse già tutta dentro la storia, quella storia che pure con passione studiavo e per la quale scoprivo di non avere, a mano a mano che procedevo, le parole giuste. Mi sono dunque fermata al grido perduto, alla coincidenza della scrittura con il grido, in senso metaforico, all'urlo della storia. A un certo punto nel mio percorso intellettuale e insieme esistenziale, non sono più capace di operare, attraverso un linguaggio razionalmente condiviso, il passaggio dal non senso della storia - che la guerra evoca nella sua tragedia - al senso. Mi sono trovata di fronte al silenzio, al vuoto. In questa direzione mi pareva necessario accettare la sfida dell'empatia, della contaminazione con l'oggetto indagato, procedura che la disciplina storica non riconosce, poiché il processo della costruzione della storia richiede un rigoroso processo di osservazione a distanza. Riprendo qui il nodo proprio della storia della soggettività giocato, come abbiamo visto, sul rapporto fra soggetto e oggetto, il cui esito conduce alla conclusione che anche nel soggetto sono compresi processi di straniamento e alienazione propri dell'oggetto stesso((Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988)).
Ma per riprendere l'esperienza delle guerre mondiali, vorrei rilevare che nei moderni conflitti, il corpo giunge alla sua dissoluzione, alla sua cancellazione, alla sua dispersione, alla sua invisibilità. Pensiamo in ultimo alla vicenda dei campi dove il corpo è completamente spogliato, scarnificato, reificato, reso metamorfico. Un corpo che non può più essere riconosciuto dallo sguardo dell'altro, non può più essere visto come separato dal sé, poiché lo sguardo che si incrocia è opaco. Il corpo non è più sottoposto a sguardo, perché il terrore nei prigionieri è quello di vedere riflesso sul volto dell'altro la propria immagine. Questo ci dice Primo Levi ne I Sommersi e i salvati, questo ci dicono gli uomini e le donne che tornano dai campi di sterminio e che io per anni ho studiato attraverso la memorialistica, le fonti orali, le lettere, i diari((Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986)).
Le fonti calde sul tema della guerra (fonti di soggettività, testimonianze, diari, lettere, scritti privati) portano sulla scena l'indicibile, l'assenza, l'invisibilità, il silenzio. Nei mio lavoro di approfondimento sulle fonti ho toccato con mano quello che filosofo Walter Benjamin definisce l'erosione del racconto. Riferendosi alla Prima Guerra Mondiale, Benjamin dice che non era mai avvenuto che gli uomini tornassero dal fronte e fossero muti, che la tragedia della guerra avesse raggiunto apici tali da inibire una facoltà strutturale alla vita umana, quale l'attività mitopoietica, responsabile della reinvenzione della storia attraverso il racconto. Per secoli gli uomini sono tornati dalle guerre e hanno raccontato. Tutta la letteratura epica da Omero in poi si fonda su questo modello di narrazione. Dopo la Prima Guerra Mondiale gli uomini tornano e tacciono. Solo il silenzio può restituire un barlume di senso a ciò che l'ha inesorabilmente perduto((Walter Benjamin, Considerazioni sull'opera di Nicolaj Leskov, in Nicolaj Leskov, Il viaggiatore incantato, Torino, Einaudi, 2004)).
Dunque attraverso i miei studi, assumevo via via la consapevolezza del limite che lega il rapporto fra le fonti e la scrittura saggistica. Mi interrogavo nella seconda metà degli anni Novanta su come riuscire a tradurre i silenzi in parole nette, far risuonare la voce perduta, entrare in contatto, attraverso il nome, con ciò che nessuna guerra riesce a distruggere. Come fare?! Forse solo l'estetica, mi dicevo, può offrire, attraverso la figuralità e la rappresentazione, un'àncora possibile. E' stato in quel periodo che ho cominciato ad andare per quadri, ad appassionarmi all'arte. Ho girato mezza Europa per vedere mostre di grandi pittori europei. Ho cominciato da Schiele, da Egon Schiele, che anticipa tutta la tragedia del Novecento, mostrandoci figure scarnificate, private quasi del corpo, emblemi delle future guerre, appunto((Franco Rella, Ai confini del corpo, Milano, Feltrinelli, 2000; cfr anche Franco Rella, Negli occhi di Vincent. L'io nello specchio del mondo, Milano, Feltrinelli, 1998)).
Ho iniziato il mio lungo percorso verso la letteratura attraverso la scoperta della figuralità, proprio laddove nelle fonti storiche trovavo il vuoto, lo spazio bianco, la negazione stessa dell'immagine. Il linguaggio del trauma, ben lo sappiamo, tutto si gioca sulla disconoscimento dell'immagine, meglio sull'inimmaginabile, su ciò che non riesce a trovare una forma. Anche in questo caso siamo di fronte all'assenza, all'impoverimento delle metafore. Siamo alla ferita che torna nel ricordo con la con la forza dirompente dell'allora, imponendo una coazione a ripetere. Il trauma infatti provoca fissità (questa è una delle caratteristiche più impenetrabili di questo tipo di memoria), l'iterazione narrativa dato che il trauma congela la capacità di invenzione, propria della memoria. Il dolore è un dolore che non passa ed è quel dolore che incunea il fatto, l'evento, in un preciso modulo del racconto, poi ripetuto all'infinito. E il rischio è che la memoria sia sempre lì, su quella frontiera. Dunque la memoria - atto attivo e mai passivo e proprio per questo tanto usata nelle ricerche sulla soggettività di genere - viene a perdere non solo la facoltà dell'invenzione, di cui parla Benjamin, ma anche quella facoltà di cura e riparazione di antiche ferite((James Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Milano, Raffaello Cortina 1984)).
In questo passaggio ho consumato la mia crisi con la scrittura storica. Del resto le fonti che avevo davanti altro non facevano che balbettare. Le loro parole frante si presentavano inevitabilmente e irreversibilmente spezzate. Al contrario la parola scientifica sulla storia si proponeva netta, sicura, capace di perimetrare gli eventi. Un'opposizione che sentivo troppo forte.
Dunque sul nodo del corpo negato, ho tentato di trovare un linguaggio che narrasse e trasmettesse ancora, pensando tra l'altro che per secoli le donne hanno trasmesso il sapere attraverso i gesti e i bambini sono cresciuti guardando la madre agire. Avevo in mente la questione che si pone negli ultimi suoi scritti Paul Valery, allorquando egli si chiede in quale lingua diciamo ciò che il corpo è? Cioè quale sistema linguistico lo può comprendere, lo può rappresentare((Paul Valery, L'idea fissa, Milano, Adelphi, 2008)).
Ultimo dato su cui vorrei condurre l'attenzione è che ogni volta io scrivevo di storia - attraverso la storia delle donne mi sono occupata sostanzialmente di storia degli oppressi - dovevo condividere la dicotomia, il dualismo, il conflitto fra due soggetti, oppressi e oppressori, amico, nemico. Una logica, specifica del pensiero occidentale e fondata sul principio aristotelico dell'identità e della contraddizione. In questo senso, il lavoro storico richiede di far proprio il dualismo e in ultimo condividere la battaglia, dato che la storia, come disciplina, altro non racconta che la vicenda di battaglie. Chi scrive di storia, per osmosi, quasi, deve rifigurare la battaglia. Dico questo in senso simbolico, ovviamente. Non penso affatto che gli storici siano dei guerrieri, e tuttavia con la visione del dualismo occorre fare i conti. Anche questo orizzonte stava diventando a me estraneo.
Il linguaggio del pianto
Negli anni Novanta, inoltre, anni in cui la mia riflessione sul linguaggio della storia prendeva forza, molto ragionavo, con i miei studenti, sui linguaggi biologici messi in scena dalle donne. Linguaggi come quelli del pianto, per esempio, che per secoli hanno avuto una grande funzione di accompagnamento alla morte. Studiavo in quel periodo fecondamente il tema del pianto, riprendendo una ricerca sulla memoria della deportazione, di cui mi ero occupata all'inizio del mio lavoro di storica. Ricerca che dal 1982 al 1986 aveva goduto della supervisone di Primo Levi((Anna Bravo, Daniele Jalla, La vita offesa, Milano, Franco Angeli, 1986)). I corpi scarnificati dei deportati nei campi, i corpi sfracellati e sepolti sotto i bombardamenti dei civili, sembravano non più godere della ritualità del pianto collettivo, dato che il corpo non esiste più in quanto luogo su cui consumare il rito. Nel mito greco il pianto è identificato nella figura di Aurora, le cui lacrime-rugiada hanno un valore di purificazione, di rigenerazione. Ma nella guerra moderna, la morte di massa, la morte anonima non permette più questa estrema opera di umanizzazione, di accompagnamento verso un mondo altro, opera peraltro compiuta per secoli dalle donne. Pensiamo al pianto rituale di cui ci parla De Martino nelle sue ricerche sulla Lucania((De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000)). Riflettevo in quegli anni sul linguaggio delle emozioni, fonte di conoscenza e apertura di nuovi orizzonti. Forme espressive, le emozioni, che nella scala della conoscenza e della comprensione rivestono un posto assai basso, a favore invece del piano razionale. Eppure Proust diceva nella sua Recherche che noi impariamo solo attraverso l'emozione, attraverso la dilatazione del cuore, che lui individua come la fonte stessa della felicità. Ma nella scena della guerra moderna, il pianto si vanifica, dato che viene a spezzarsi quella simmetria fra pianto e compianto. Il pianto esiste nella sua forma quasi teatrale, e vive sul riconoscimento dell'altro, osservatore attento e compartecipe. Il pianto esiste nel rapporto fra pianto e com-pianto. Con la Seconda Guerra Mondiale, in particolare, siamo alla fine di questa rappresentazione-esorcismo-rovesciamento dell'evento attraverso il pianto. Ma che piangi, dice una testimone sopravvissuta alla strage di Civitella della Chiana del 1944. Nei campi di sterminio non si piange più((Paolo, Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il Mulino, 2007)). Con la guerra moderna la macchina sempre più distruttiva, l'organizzazione sempre più precisa, le giustificazioni ideologiche sempre più pervasive rendono, in realtà, meno significativa la dimensione dell'emotività, l'esultanza dei vincitori e il pianto dei vinti. Nello scenario desolante di una guerra invisibile, come dice Eric Leed((Eric Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima Guerra Mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007)), i sopravvissuti sono indotti a uno stato catatonico dal quale può anche non più nascere una ribellione, ma solo "il camminare appresso a vita", secondo le parole di una testimone napoletana, intervistata dalla storica Laura Capobianco, in una ricerca sulla ricostruzione del contesto di guerra nell'area campana((Laura Capobianco, Rosa Anna Conte, Cesira D'Agostino, Rosetta Gervasio, Donne che raccontano la guerra, in AA.VV. (a cura di Le donne raccontano: Napoli occupata dagli Alleati (1943-1944) in G.Chianese, Mezzogiorno 1943. La scelta, la lotta, la speranza, Napoli 1996; cfr. anche Capobianco Laura, D'Agostino Cesira, La memoria delle donne di Napoli, in Italia Contemporanea n.195, 1994, pp.404-418)).
E mi pareva che tra il linguaggio poetico - luogo simbolico del silenzio, del vuoto, della distanza, dello strappo - e il discorso storico - intriso invece dell'illusione di dire tutto, per nulla lasciare all'oblio individuale o alla possibile cancellazione collettiva - ci fosse la parola narrativa. Una parola che poteva e può, forse, fare ancora appello alla grande risorsa della figuralità, dimensione etica ed estetica insieme. La figura, più di altro, scrive Franco Rella, è in grado di descrivere, di rappresentare la caducità, la transitorietà, la precarietà del tempo della crisi((Franco Rella, Ai confini del corpo, Milano, Feltrinelli, 2000, cit; e Franco Rella, Negli occhi di Vincent. L'io nello specchio del mondo, cit.)).
Il corpo etico
Allora con tutta la complessità che viene dagli studi delle donne, dal mio rapporto con la letteratura in cui sono immersa, con questa ossessione del corpo, io oso guardare oggi alla storia del Femminismo. E anche lì, rispetto al corpo, intravedo la questione dell'assenza.
Il Femminismo, nella sua tradizione storica e storiografica, ha molto ragionato sul concetto di corpo etico. Il corpo, cioè, come centro di valori anche alternativi ai modelli proposti dalla società; un corpo di cui ci si appropria, a partire dai tornanti del ciclo di vita delle donne e che coinvolgono la sessualità, la maternità e più in generale il sistema della relazione. Un corpo medium fra il maschile e il femminile, sempre al confine tra il biologico, il culturale e il simbolico e per il quale è possibile sperimentare il sovvertimento e l'esistenza dell'altro da sé inteso anche come opposizione e combinazione di forze. Ecco allora che partendo dalla grande questione della rappresentazione, dell'immagine (molto le donne hanno parlato di immagine di sé, di autorappresentazione nel mondo e sempre in una prospettiva di trasmissione generazionale), un esito interessante del dibattito potrebbe confluire nell'idea del corpo estetico. Un corpo estetico che io penso come luogo per un'immagine multiforme del sé e non solo come mera riproduzione alienata dell'esistente. La tradizione femminista poco ha detto sulla questione del corpo estetico, vedendo in esso la proiezione dei valori patriarcali specifici della cultura maschile borghese. C'è stata da parte del Femminismo una critica a certi modelli estetici del corpo: quello materno, ma anche quello seduttivo più tradizionale (dalle maggiorate, alle vamp, alle ragazze pom-pom antesignane delle attuali veline). Ora l'interessante è che il Femminismo incrocia questa critica negli anni Settanta, anni in cui i modelli estetici cambiano e il corpo femminile diventa un corpo adolescenziale, androgino, secco, scavato (il corpo senza frontiere delle ragazze jet set, dove tutto si assottiglia e si affina). Siamo all'allontanamento del corpo materno destinato alla procreazione. Siamo all'unione del maschile e del femminile, al già citato androgino al centro del movimento del Sessantotto, in cui giovani, maschi e femmine, vestiti con jeans, sciarpa rossa ed eschimo, portano indistintamente i capelli lunghi (voglio ricordare che questo mutamento del modello estetico sarà ripreso in maniera magistrale da un artista della moda quale Armani). E vorrei ribadire ancora che mentre il Femminismo teorizzava questo distanziamento dal modello procreativo - recuperando però tutto il valore simbolico della figura materna, e qui mi riferisco alla lezione della Libreria delle donne di Milano e a tutto il lavoro sulla valorizzazione della figura della madre((Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991)) - altre componenti culturali andavano reinventando nuovi modelli di immaginario del corpo al di fuori dal sistema patriarcale. Tuttavia non sempre la lezione femminista si agganciava a questo mutamento sociale e culturale. Anche perché attorno alla questione dell'immagine si manteneva e si mantiene un atteggiamento di forte ambiguità. Lo stesso cinema, e in particolare la pubblicità, hanno riprodotto e spesso metabolizzato un femminile a-critico, teso ad autoriproduzione di sé. Un femminile destinato a proporre una subalternità al maschile, proprio attraverso l'uso seduttivo del corpo. La questione è assai complessa. Tuttavia mi pare che occorra ripartire anche dall'idea del corpo estetico se vogliamo recuperare aspetti forti del corpo in una prospettiva generazionale. Nell'immaginario più riduttivo e mortificante del Femminismo, soprattutto tra i giovani, la femminista è spesso rappresentata come una donna che nel momento in cui invade i territori del maschile, nel momento in cui varca la soglia e attraversa le frontiere, perde il corpo, diventa sgraziata fino ad assumere le sembianze di una minacciosa donna-uomo. La femminista, secondo il ben noto stereotipo, abbandona i canoni della figuralità tradizionale mentre incarna irriverenza, sfrontatezza, ribellione rimescola in senso simbolico i generi. Si tratta di una metamorfosi che libera un'inquietudine a sua volta riflessa nella destrutturazione dei modelli di genere. Occorre, credo, ritornare a questa destrutturazione implicita nella rappresentazione estetica.
Evocare il corpo vuol dire soprattutto chiamare in causa le giovani donne strette tra linguaggi talvolta oscuri e forme parcellizzate di comunicazione. Non dimentichiamo questo displacement comunicativo giovanile legato anche a una deprivazione linguistica. Una deprivazione responsabile degli innumerevoli stereotipi che accompagnano molte forme comunicative giovanile. In questa assenza di parole il rischio è proprio quello di cadere in stereotipi e luoghi comuni che diventano contenitori, vere e proprie gabbie, marche del disagio comunicativo più che espressione di un pensiero conservatore. Si tratta di forme di straniamento che ben testimoniano la condizione mutante e liminale propria dei giovani((Giovanni Levi, Jean-Claude Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, Roma-Bari, Laterza, 1994)).
L'aggancio al corpo estetico, allora, se da una parte ci propone una riflessione sugli immaginari veicolati dai modelli sociali, dall'altro ci permette di cogliere ciò che scarta, ciò che si combina, nelle culture via via in trasformazione, con l'irriducibile soggettività degli individui. Uomini o donne che siano.
Pour citer cette ressource :
Graziella Bonansea, "Sulla soglia dei linguaggi: tra identità e generazioni", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), novembre 2009. Consulté le 04/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/le-mouvement-des-femmes/sulla-soglia-dei-linguaggi-tra-identita-e-generazioni