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Cantami, o Diva. Personaggi mitologici nella canzone italiana

Par Laura Nieddu : Docente d’italiano - Université Lyon 2
Publié par Alison Carton-Kozak le 27/04/2021

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Il presente contributo ha come obiettivo quello di mostrare quale sia il compromesso, tematico e linguistico, adottato dai cantautori italiani per riproporre, nella modernità della loro canzone, personaggi favolosi quanto misteriosi, antichi nella loro concezione, ma ancora profondamente attuali: Icaro, Orfeo, Narciso, Medusa o ancora Ulisse e Penelope, diventano, in musica, emblemi di fenomeni individuali e sociali contemporanei. Ci si interroga qui, in particolare, sulle modalità di rivisitazione di varie figure mitologiche, per comprendere quale aspetto delle storie da cui tali personaggi sono tratti venga valorizzato e quale immagine emerga dalle scelte narrative degli autori.


Il Concilio degli Dei, Raffaello (1517-1518)

1. Introduzione

Viene qui proposto un viaggio tra antico e presente, un itinerario nella musica italiana contemporanea alla ricerca di tracce di quella mitologia, principalmente ellenica e romana, che impregna la cultura italiana in generale, la letteratura (Cantelmo e Gibellini, 2007), l’arte, l’opera, finanche il nostro modo di parlare. Come rilevato da Innocenzo Mazzini, infatti, esistono molti modi dire basati sui miti antichi, nei quali i fatti e "i personaggi mitici solitamente diventano un concetto, un sentimento, uno stato d’animo, una categoria sociale, una professione, una realtà materiale del tutto diversi" (2014, 15). Questo stesso punto di vista è alla base dell’analisi delle canzoni qui presentate, nel senso che verrà messo in evidenza il nesso tra caratteristiche delle storie e modernità o, ancora, le intenzioni degli autori nello scegliere determinati personaggi per i loro brani. In un articolo del 2014, Mariangela Galatea Vaglio sottolinea come, ormai, l’antico sia poco presente nelle canzoni degli artisti contemporanei italiani. La panoramica, senza nessuna volontà di esaustività, che qui viene proposta dimostrerà il contrario.

Il termine “mitologia”, secondo l’Enciclopedia Treccani, indica "il complesso dei miti di un popolo, cioè delle narrazioni fantastiche tradizionali di gesta compiute da figure divine o antenati, diffuse, almeno in origine, oralmente". La canzone, col suo potere di trasmissione di versi e di stimolo sul piano mnemonico, porta avanti, in qualche modo, la tradizione orale su cui si è sempre basata la sopravvivenza dei miti antichi. Ma in quali forme? Per poterne analizzare le diverse proposte, i riflettori saranno puntati su alcune delle figure più rappresentative della mitologia.

2. Narciso, Orfeo ed Euridice, amore e pathos

Cominciamo con il mito di Narciso: la sua storia è nota a tutti. Figlio del dio delle acque e di una ninfa, la sua bellezza costituì non un’apertura, ma una chiusura verso gli altri. Fiero del proprio aspetto fino all’alterigia, diventa l’oggetto delle brame amorose della ninfa Eco, che, consumatasi letteralmente, e invano, di passione per lui, morirà, lasciando sulla terra solo la propria voce (l’eco, appunto) e le ossa divenute pietra. Gli dèi decidono quindi di punire la presunzione di Narciso, facendolo innamorare della sua stessa immagine riflessa nel fiume, fino a che un giorno, nel tentativo di coglierla, egli cade in acqua e il suo corpo viene trasformato nel fiore giallo che prenderà il suo nome. Ora, se tale è il mito per esteso, non è però sempre questa la storia che viene ripresa nelle canzoni.


Narciso, Caravaggio (1597-1599)

In Storia d’amore e di vanità (da Il suono della vanità, 2004) di Morgan, il testo è didascalico e ripercorre tutte le tappe della vicenda tramandata, dall’incontro con Eco alla metamorfosi di lei in sasso dolente e di lui in fiore, ma, in realtà, il mito viene rovesciato. Difatti questo, come lo stesso autore ammette, non è altro che un pretesto per parlare, ad un fine catartico e terapeutico, della sua esperienza personale, riflesso di una storia d’amore tormentata e dolorosa. La vanità è incarnata stavolta dalla donna ("Lei si assomiglia / Io amo lei / lei ama solo sé stessa") e gli elementi della vicenda vengono rimescolati, poiché all’uomo innamorato resta solo il ricordo di un amore/non amore, falso, inganno che carica la voce nel bosco degli ultimi strascichi di un sentimento che poteva essere, ma non è stato: "la leggenda del non-amore / che si scrive di sera / d'una cosa che sarebbe bella, / ma non è vera".

I Marlene Kuntz, in La lira di Narciso (da Bianco sporco, 2005), propongono un’altra versione, quella che corrisponde meglio alla rilettura di Pausania il Periegeta, scrittore e geografo greco del secondo secolo d.C., che, credendo eccessivamente sciocco che qualcuno non potesse riconoscere il proprio riflesso, ipotizzò che Narciso avesse una gemella di altrettanta bellezza della quale, sfortunatamente, s’innamorò. Morta la sorella, il fratello-amante avrebbe trovato conforto nel rispecchiarsi in una fonte, per ritrovare il riflesso del suo unico e splendido amore: "Non ci sei più. / Nell'acqua ciò che è intorno a me / si specchia con me / riflesso in un'immagine / che si anima di quello che anima me". La lettura, dunque, del gruppo piemontese è alternativa a quella classica, che prende il personaggio mitologico a mo’ di emblema della vanità.

In tale ottica, invece, si iscrive l’interpretazione di Carmen Consoli, che in Parole di burro (da Stato di necessità, 2000) presenta un moderno Narciso: "Narciso, parole di burro / nascondono proverbiale egoismo nelle intenzioni / Narciso, sublime apparenza / ricoprimi di eleganti premure e sontuosità, ispirami / raccontami le storie che ami inventare, spaventami". Qui è evidente lo scarto tra la storia che fa da fondamento al mito e la strumentalizzazione di certe caratteristiche del personaggio: la superbia, la focalizzazione sull’aspetto fisico e l’egoismo diventano gli unici elementi riconoscibili della figura mitologica. La seduzione diviene arma consapevole maschile nelle parole della donna sedotta e si distanziano, in tal modo, dalla bellezza imposta passivamente, ma con immodestia, dall’emblema dell’uomo vanesio. La scelta narrativa di Carmen Consoli rientra perfettamente nella sua poetica, basata su ritratti principalmente femminili, nei quali gli uomini hanno ruoli poco lusinghieri: sono casanova senza spessore, traditori incalliti, aguzzini psicologici, bugiardi patologici, dei Giuda in giacca e cravatta e, appunto, dei Narcisi moderni.

L’ispirazione letteraria e l’influsso della mitologia classica sono molto importanti nella produzione della nostra cantante; oltre a Parole di burro, merita attenzione la canzone Orfeo (sempre presente in Stato di necessità, 2000), che ritraccia il mito dell’amore sfortunato del figlio della musa Calliope, celebrato per le sue doti musicali e canore, e della ninfa Euridice, la quale muore tragicamente, morsa da un serpente, nel tentativo di sfuggire ad Aristeo, anch’egli folle di amore per lei. Quando, straziato dalla sua perdita, Orfeo decide di scendere nell’Ade per recuperare la sua sposa e convincere gli dei degli inferi a lasciargli riportare con sé Euridice, egli viene posto davanti ad una condizione, così narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63): "Né la regale sposa, né colui che governa l’abisso, opposero rifiuto all’infelice che li pregava e richiamarono Euridice. Costei che si trovava tra le ombre dei morti da poco tempo, si avanzò, camminando a passo lento per causa della ferita. Il tracio Orfeo la riebbe, a patto che non si voltasse indietro a guardarla prima di essere uscito dalla valle infernale". L’uomo si incammina, dunque, verso l’uscita degli inferi tenendo per mano la sua sposa, ma, temendo si tratti di un’ombra e non della sua amata, si volta e la perde definitivamente. La storia poi prende direzioni diverse, nel senso che si hanno versioni differenti sulla sorte del poeta-musicista, che però finisce la sua vita in modo sicuramente tragico.


Orfeo e Euridice, Federico Cervelli (seconda metà del Seicento)

Ora, tornando a Carmen Consoli, la sua canzone Orfeo, malgrado il titolo, ha come protagonista Euridice, che parla in prima persona: "Sei venuto a convincermi / o a biasimarmi per ciò che non ho ancora imparato / sei venuto a riprendermi / Orfeo malato, dai forza e coraggio al tuo canto eccelso / portami con te non voltarti / conducimi alla luce del giorno / portami con te non lasciarmi / io sono bendata ma sento già il calore / […] Sei venuto a riprendermi / eroe distratto da voci che inducono in tentazione / portami con te non ascoltarle / conducimi alla luce del giorno / […] il varco è vicino ed io sento già il tepore". Pur definito come "eroe distratto", Orfeo resta comunque un eroe: Euridice si abbandona a lui, ne attende l’azione liberatrice ed è, quindi, personaggio ancora passivo, seppur ora fornito di parola, non statua muta. La cantante si richiama alla speranza della donna di essere portata in salvo, al suo affidarsi totalmente al suo amato e non lascia spazio al dramma finale, poiché il brano si chiude con i versi: "Ho bisogno di svegliarmi / è il momento di svegliarmi / ritorno alla vita". È un testo che sceglie scientemente di concedere un respiro di attesa e speranza al mito e il punto di vista femminile è sicuramente originale in questo senso.

Al contrario, Euridice, cantata da Roberto Vecchioni nel 1993 (album Blumùn), racconta le riflessioni di Orfeo sulla missione salvifica nei confronti della sua amata, che viene descritta nella sua bellezza, giovinezza e nel suo essere vittima di un destino crudele. Tuttavia, il cantautore milanese stravolge il senso della storia, perché il voltarsi di Orfeo, prima di arrivare alle porte degli inferi, non viene dettato dalla diffidenza e dalla paura di non aver con sé davvero sua moglie, bensì da una scelta cosciente, basata sulla consapevolezza di non poterla mai più riavere così come la conosceva. Ella, per questo, viene lasciata al regno dei morti, affinché il marito possa avere la possibilità di continuare a vivere davvero: "Mi volterò perché ho visto il gelo che le ha preso la vita, / e io, io adesso, nessun altro, dico che è finita; / e ragazze sognanti mi aspettano a danzarmi il cuore, / perché tutto quello che si piange non è amore; / e mi volterò perché tu sfiorirai, / mi volterò perché tu sparirai, / mi volterò perché già non ci sei / e ti addormenterai per sempre".

3. Ulisse e il viaggio infinito, Penelope e la costante attesa

Quella di Ulisse è una vicenda strettamente legata al suo viaggio, l’Odissea, che in dodici tappe lo porta a contatto con diversi personaggi, dai Ciclopi a Eolo, dalle Sirene alla maga Circe. Una volta tornato a Itaca, troverà sua moglie, insidiata dai Proci, che pazientemente aspetta il ritorno del marito dal suo peregrinare lungo 20 anni. I concetti racchiusi nella figura di Ulisse sono diversi, da una parte l’astuzia, dall’altra la sete di conoscenza, propri comunque di un eroe “multiforme”, polytropos come lo definisce Omero, dotato di mille volti. Molte solo le canzoni a lui dedicate, ma quali sono gli aspetti che più colpiscono gli autori?


 Ulisse e le sirene. Mosaico pavimentale romano del secolo II d.C. al Museo del Bardo a Tunisi.

Procedendo in ordine cronologico, troviamo il brano Ulisse ricoperto di sale, di Lucio Dalla (da Anidride solforosa, 1975). L’intero testo è incentrato sul tema del ritorno. Il cantante arriva da un passato difficile, che lo ha cambiato, ma quando ritorna, per lui è come se niente si fosse smosso, gli sembra tutto quasi irreale: "È vero la vita è sempre un lungo, lungo ritorno / […] che sono tornato per trovare, / trovare come una volta / dentro a questa casa la mia forza / come Ulisse che torna dal mare / […] io sono Ulisse al ritorno / Ulisse coperto di sale! / Ulisse al principio del giorno!". Nel paragonarsi ad "Ulisse coperto di sale", il cantautore investe il sale del senso di un trascorso pieno di ostacoli e di abbondanti sofferenze, mancanze, speranze disattese, un trascorso pieno di avversità. Qui è chiaro l’uso strumentale non tanto della storia di Ulisse, quanto della sua stigmatizzazione in viaggiatore, nei disperati tentativi di tornare a casa. In tal senso, non sono importanti le sue avventure, quanto il suo bisogno di ritrovare la propria patria.

Facendo un salto di più di venti anni in avanti, si arriva al 1997, quando La Premiata Forneria Marconi pubblica l’album tematico dal titolo Ulisse, che si compone di brani che, malgrado i titoli evocativi – Il cavallo di legno, Ulisse o, ancora, Il mio nome è nessuno , sfruttano solo in maniera evocativa la figura mitologica del saggio/sfortunato navigatore come specchio di vicende umane e quotidiane. La comprensione dei testi ha come perno il titolo e come base una conoscenza pregressa della storia di Odisseo. Si veda, ad esempio, Il mio nome è nessuno: la canzone si richiama all’episodio della prigionia di Ulisse e dei suoi compagni nella grotta di Polifemo, situazione da cui l’eroe riesce a scappare grazie alla sua astuzia. Difatti, egli prima fa ubriacare il ciclope, a cui dice di chiamarsi, appunto, Nessuno, poi, una volta il gigante addormentato, lo accieca con un enorme bastone e, per finire, fugge dalla grotta, insieme ai suoi compagni, aggrappato al ventre delle pecore, che vengono liberate da Polifemo, incapace di impedire allo stesso tempo la fuga dei prigionieri. Tornando alla canzone, malgrado il suo nome, non vi è alcun riferimento, se non indiretto, a tale vicenda: nel brano si fa unicamente appello alla capacità di nascondersi nell’ombra, all’arte di mimetizzarsi con l’ambiente circostante per passare inosservati, che è proprio quello che fa Ulisse nella caverna del ciclope per salvarsi la vita: "Io sono quello che ti passa accanto / che nell’ascensore non ti guarda mai / […] sono uno dieci mille centomila / con un passaporto per l’oscurità / solo un’ombra nel viavai / […] Io sono un numero e niente più / non ho faccia, non ho città". 

In realtà, nel brano che dà il titolo all’album ci sono riferimenti alle vicende esatte dell’eroe greco, che però vengono trasfigurate nel ritratto di un personaggio inquieto, che naviga verso il tramonto alla ricerca di qualcosa di non ben definito: "E l'anima mia soffre / vuole uscire andare perché / nessuno può capire un porto / se non sa il mare che cos'è / e a casa non ritornerei con le nuvole sogno di andare via / dai palazzi di vergogna dalle strade di ipocrisia". Come si vede, Ulisse sceglie di allontanarsi da casa, attirato da quel canto di sirene a cui pare non opporsi: non è vittima del volere avverso degli dèi, ma è attore della sua vita, seppur tormentato.

Il brano Nessuno degli Articolo 31, dal disco omonimo del 1999, riprende in forma stringata la vicenda di Ulisse di fronte a Polifemo, ma avulsa dall’aspetto della furbizia. Difatti, il gruppo hip hop milanese sfrutta giusto la frase dell’Odissea "io sono nessuno" non tanto per una volontà di salvezza, quanto di rivalsa rispetto agli oppressori del quotidiano: "Io sono Nessuno e rappresento tutti quei Nessuno che mi stanno intorno. / Persi in una routine uguale giorno dopo giorno. / Sconvolti sul limite estremo. / Per tutti i Polifemo, che prima o poi ti accecheremo".

Piccolo cammeo odisseico anche in Sentimento, degli Avion Travel (da Selezione 1990-2000, 2000), dove l’eroe diventa simbolo del viaggio infinito, dell’uomo in balia del mare e delle sue paure: "Diceva Ulisse chi m’o ffa fa / la strana idea che c’ho di libertà / sopra il mare non passa mai il tempo / tempo che non passa mai ci cercò ci trovò".

Più complesso, in linea con la sua produzione, è il brano di Guccini Odysseus (da Ritratti, 2004), basato sui testi di Omero, Dante, Foscolo e il poeta greco Kavafis, dal testo quasi didascalico. Ritraccia, infatti, il peregrinare di Ulisse, le figure che hanno marcato il suo viaggio e tutte le sfumature del navigare dell’eroe: il suo futuro, il suo destino, il modo di "reinventarsi il mito ad ogni incontro", come lo stesso Guccini canta: "E andare verso isole incantate, verso altri amori, verso forze arcane, / compagni persi e navi naufragate per mesi, anni, o soltanto settimane.../ La memoria confonde e dà l'oblio, chi era Nausicaa, e dove le sirene? / Circe e Calypso perse nel brusio di voci che non so legare assieme, / mi sfuggono il timone, vela, remo, la frattura fra inizio ed il finire, / l'urlo dell'accecato Polifemo ed il mio navigare per fuggire". Si rileva anche il gusto di perdersi nel proibito, una forma di fuga, "una frattura fra inizio ed il finire", fino a riconoscere, nella chiusa, che la spinta è la "gioia infinita di entrare in porti sconosciuti prima".
La lettura di Guccini è significativa perché mette in luce la complicità di Odisseo con il destino: non vittima rassegnata di un viaggio infinito, ma capitano alla volta di nuove mete da scoprire. Il cantante lo canta come uno contadino spinto all’avventura, a cercare qualcosa ad ogni costo, fino all’estremo limite dello spazio conosciuto. Interessante è anche la chiusa della canzone: "La via del mare segna false rotte, / ingannevole in mare ogni tracciato, / solo leggende perse nella notte perenne di chi un giorno mi ha cantato / donandomi però un'eterna vita racchiusa in versi, in ritmi, in una rima". Con una sorta di mise en abîme, di autocelebrazione, Guccini mette in rilievo il debito di riconoscenza che Ulisse ha verso chi l’ha esaltato in passato e chi lo fa attualmente, come lo stesso cantante bolognese, che ancora oggi gli permette di "entrare in porti sconosciuti" e di venire a contatto con un pubblico nuovo, in linea con la funzione spesso istruttiva della canzone d’autore.

Ancora, Caparezza, nel brano Ulisse (da Le dimensioni del mio caos, 2008) sceglie di mettere in risalto un’altra caratteristica del nostro navigatore, ovvero quella della resistenza di fronte alle tentazioni. Attraverso un brano che riproduce anche il rumore del mare solcato da un’imbarcazione e i cori ritmati di incoraggiamento dei rematori, il cantante ricrea la scena dell’incontro con la sua personale sirena, rappresentata qui dalla sua donna ideale  tutto, fuorché essere angelico, paziente o scontato , che intona suadente "Lei è identica a te, lei sa come prenderti". Di fronte alla tentazione, Caparezza ammette a gran voce di non essere forte come l’eroe greco: "Non sono Ulisse io, non so resisterle / slegatemi e gettatemi giù".

Interessante la lettura che del personaggio, nella sua complessità, dà Vinicio Capossela nel disco Marinai, profeti e balene, del 2011, in particolare nei brani Vinocolo, Nostos e Dimmi Tiresia. Nel primo, è Polifemo a parlare della vicenda che lo vede protagonista con Odisseo, capovolgendo, dunque, il punto di vista rispetto alla narrazione fattane da Omero: "Un nessuno, nessuno da niente / mi ha vinto col vino mi ha vinto col vino / mi ha orbato la luce dell'occhio / e poi si è nascosto in un nome / e io mi aspettavo un eroe / […] «Quando i compagni mi avrai mangiato bevilo, disse, e sarai beato»". Capossela si mostra dalla parte del gigante, presentato in generale come antieroe, e sminuisce l’astuzia di Ulisse con il resoconto, tutt’altro che esaltante, delle sue prodezze nell’antro di Polifemo attraverso il verso "e io mi aspettavo un eroe".

In Nostos, invece, il cantautore canta le ragioni che hanno spinto Ulisse ad abbandonare la propria casa, indifferente agli affetti, spinto dall’istinto che lo porta verso l’ignoto: "Né pietà di padre, né tenerezza di figlio, né amore di moglie / ma misi me per l'alto mare aperto, oltre il recinto della ragione, / oltre le colonne che reggono il cielo, fino alle isole fortunate, purgatorio del paradiso". La menzione al purgatorio e al paradiso non è casuale, data l’esplicita citazione del canto XXVI dell’Inferno dantesco ("Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguire virtute e canoscenza / considerate la vostra semenza"), di cui è protagonista proprio Odisseo, e questo lo connota come peccatore anche nella canzone di Vinicio Capossela, che esprime così il suo giudizio sull’eroe di Itaca.

Per finire, in Dimmi Tiresia il cantautore narra un altro episodio dell’Odissea, ovvero quello della discesa agli Inferi di Ulisse e dei dubbi che lo attanagliano, espressi nei versi: "Dimmi Tiresia […] / ma è meglio sapere o non sapere / aver la conoscenza".

Per quanto sia la più vecchia tra le canzoni prese qui in considerazione, si è scelto di lasciare per ultimo il singolo Itaca di Lucio Dalla, del 1971, perché presenta un punto di vista originale: quello della ciurma che accompagna il condottiero nelle sue avventure. L’aspetto corale del brano è dato dal ritornello, cantato, appunto, a più voci, per dare corpo a quelle figure che restano nell’ombra mentre Ulisse fa il suo glorioso cammino e viene in contatto con tutti i meravigliosi e a volte mostruosi personaggi dell’Odissea. Egli qui vaga per i suoi capricci, non curandosi eccessivamente dei soldati che sono con lui e che vorrebbero tornare alle loro case, mentre il capitano è impegnato con mostri, imprese magnifiche e "principesse in ogni porto". La rabbia è ancora maggiore se si pensa che molti di loro non torneranno mai più dalle loro famiglie, mentre Ulisse rientrerà sano e salvo a Itaca. Da segnalare che, nella versione dal vivo, Lucio Dalla regalava la possibilità di un ammutinamento ai marinai.

La figura di Penelope, simbolo di fedeltà incrollabile, non ha lo stesso successo del marito a livello di produzione canora italiana: nel panorama contemporaneo viene citata, e anche marginalmente o in maniera del tutto superficiale, in pochi brani:  Penelope e Ulisse, di Renato Carosone, del 1982, che, attraverso un testo in napoletano dal tono scherzoso, narra la storia dei due, stigmatizzando lei nel ruolo di moglie paziente, in attesa del marito, che, una volta stancatosi della guerra, decide di tornare a casa; Penelope, di Jovanotti (da Buon sangue, 2005), nel quale la donna, protagonista del ritornello, facendo da intermezzo a diversi personaggi famosi e alle loro vicende, da Beethoven a Cristo, da Mosè a Cenerentola, funge da evocazione del tempo che passa. Ancora, Penelope dei Linea 77 (da Horror Vacui, 2008) propone una lettura più criptica, in un brano dalle sonorità punk in cui Penelope è ben padrona del suo futuro e tiene sul filo il suo amante, trattandolo come un burattino, sogno ed incubo allo stesso tempo: "Tu diventi un’onda che le mie braccia non possono afferrare / e come d’incanto sei arrivata con i tuoi sonagli / riprendi i tuoi vestiti ed esci dai miei sogni /…e m’incanto a guardare la mia carne che tu sai tessere, sai disfare". In Penelope di Nina Zilli (da Sempre lontano, 2010), brano dalle sonorità reggae, la cantante identifica nel personaggio mitologico, definito come "la regina cattiva che deve sorridere sempre", il potere femminile, facendo di lei emblema dell’orgoglio delle donne forti, di cultura, indipendenti.

Più intensa e intimistica l’interpretazione del personaggio, per quanto mai nominato, data da Vinicio Capossela in Le Pleiadi, sempre tratto dal suo doppio disco tematico Marinai, profeti e balene. Le voci narranti che si alternano, in un dialogo a distanza, sono quelle di Penelope ed Ulisse, che nella sospensione della lontananza trovano quasi conforto, soprattutto per quanto riguarda la prima, che "ama la sua nostalgia": "L'attesa è un inganno, l'attesa / ma preferisco l'attesa / è più dolce che non vederti tornare".

4. Donne insidiose e donne insidiate: le Sirene, Medusa e Arianna


Ulisse e le sirene, William Etty, 1837

Sempre legato al mito di Ulisse è quello delle Sirene, che, secondo la leggenda, vivevano in un’isola del Mediterraneo e attiravano, col fascino del loro canto, i marinai che passavano nelle vicinanze, i quali, imprudenti, distruggevano le proprie navi contro gli scogli e venivano divorati dai suddetti demoni marini. Tali figure sono celebrate da Francesco de Gregori nel brano del 1987 Il canto delle sirene (da Terra di nessuno), dove rappresentano la sapienza tradizionale e il richiamo dell’Oltre, ma anche "ostacolo che anestetizza l’autenticità, che distrae e non permette di scorgere il senso che affiora, appena percettibile" (Vignolo): "Non sarà il canto delle sirene che ci innamorerà / noi lo conosciamo bene, l'abbiamo sentito già / e nemmeno la mano affilata, di un uomo o di una divinità".

Vinicio Capossela ne Le Sirene, tratto sempre dal già menzionato album tematico Marinai, profeti e balene, dedica a questi esseri mitologici un canto celebrativo e delicato, lontano dal tono di condanna e di stigmatizzazione negativa delle narrazioni classiche: "Le sirene ti assalgono di notte / create dalla notte / han conservato tutti i volti che hai amato e che ora hanno / le sirene te li cantano in coro / e non sei più solo / sanno tutto di te e il meglio di te". Come sottolinea Daniele Sidonio, "le Sirene caposseliane sono interiori, psicologiche, appartengono alla sfera della memoria" (2014), allontanano, certo, da casa, ma offrono un’alternativa alla vita quotidiana. Rappresentano il passato e non il futuro e solo in tal senso, in fin dei conti, Capossela canta il loro essere minacciose e pericolose.  

Ancora, in Sirene del rapper emiliano Murubutu (da Gli ammutinati del Bouncin', ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari, 2014), queste diventano semplicemente eco delle tentazioni d’amore di cui il protagonista della canzone è vittima. L’intro è costituito da un richiamo a quello irresistibile delle figure fantastiche ("E chi mi chiama? / E sa il mio nome? / E chi mi vuole? / E dove, dove?"), che poi cresce nel resto della canzone, fino a che il cantante dice di vedere "l’amore che passa e l’amore che viene", di sentire "chiamare il suo nome da dodicimila diverse sirene", cedere alla tentazione e morire per il suo sogno di passione. Le Sirene non sono, dunque, altro che illusioni.

Da figure seducenti, quali sono le Sirene, a una delle più mostruose, Medusa; unica mortale di tre sorelle, le Gorgoni, la sua bellezza aveva attirato l’attenzione del dio del mare, Poseidone, che l’avrebbe poi violentata in un tempio sacro ad Atena. Furiosa per la profanazione del suo tempio, la dea della sapienza avrebbe trasformato Medusa in un mostro con la terribile capacità di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo, potere che sopravvisse anche alla sua decapitazione ad opera di Perseo.


Medusa, Caravaggio, 1587

Ora, le canzoni che la prendono come musa, nel panorama contemporaneo, sono poche. Per prima cosa, puntiamo i riflettori su Medusa cha cha cha di Vinicio Capossela (da Ovunque proteggi, del 2006), di cui qui vengono citati alcuni versi: "Mi piacciono i ragazzi, un tipo un po’ geloso /mi ha appiccicato il volto questo sguardo odioso / affascinante, ma difettoso / chi lo guarda non lo sa, non lo sa / non lo sa, ma diventa un baccalà. / Non sono mostra, non sono velenosa / soltanto un po’ nerviosa […] / Son scompigliata, sono confusa / mi ha messo un aspide per capello / e adesso in testa mi sento uno zoo. / Non guardarmi, non guardarmi negli occhi per favore / già ti ho pietrificato il cuore / gli occhi no, gli occhi no / gli occhi no, oddio un altro baccalà". Il testo è chiaramente una parodia del mito classico, come Stefania Bernardini mette in evidenza in un articolo del 2020, non solo nella descrizione di Medusa, ma anche nel suo relazionarsi involontariamente disastroso con gli altri; ella, parlando in prima persona e con ironia, si lamenta di relazioni destinate inevitabilmente al fallimento ed è così che Capossela libera la figura dalla sua coltre di malvagità, per renderle il cuore di una ragazza che cerca solo l’amore.

Diverso il tono della canzone di Malika Ayane, Medusa (da Ricreazione, del 2012), nella quale l’artista milanese immagina un uomo che legge la lettera di rottura da lei scritta e che resta "immobile come polver"» o "come pietra", mentre lei è già lontana, sorda al dolore e alle lacrime dell’antico amante.

Medusa, prima di essere mostro, fu vittima, di violenza sessuale da parte di Poseidone: la sua vita fu, quindi, distrutta da un dio, al contrario di quella di Arianna, nota ai più per il filo che diede a Teseo, al fine di non perdersi nel labirinto in cui il padre Minosse aveva rinchiuso suo fratello, il Minotauro. Ella fu, poi, abbandonata dallo stesso uomo per cui aveva sacrificato tutto e solo l’intervento di Dioniso, che ne fece la sua sposa e la riscattò, poté salvarla. La ragazza, sebbene abbia lottato per il suo ideale d’amore, mostrando autonomia e determinazione, emerge, nella trasmissione del mito, come stereotipo della vittima dei suoi sentimenti e della vigliaccheria del suo amato.


Arianna a Nasso, Evelyn De Morgan (1877)

Su di lei troviamo pochi brani: per cominciare, si può citare Il filo di Arianna, di Adriano Celentano (da Adriano rock, 1968), che ci mostra chiaramente come le storie legate ai miti possano diventare exempla di vita, spesso semplificati. Il cantante consiglia alla sua donna, che non è più tornata da lui, lo stratagemma di Teseo, che seguì il famoso filo per non smarrirsi, o, al limite, il trucco delle briciole di pane usato da Pollicino. Si ha, qui, una banalizzazione del mito, messo alla stregua di una favola per bambini: "Teseo col filo dell’Arianna andava / così la strada per tornare a casa sempre trovava / e non si perdeva / e non ha fatto come te / che ti sei persa nel mondo".

Stesso titolo, ma ambiente e tono decisamente diversi per il brano di Paola Turci del 1991, tratta dall’album Candido: "Arianna si è perduta tra i fili della città / non so se l’uomo montato su ruote di gomma / mai la ritroverà. / E per ritrovare Arianna bisogna sapere se / Arianna vuol essere trovata / perché non è un cane al guinzaglio". Questa è un’Arianna moderna e indipendente, padrona della sua vita e lontana dal mito della donna che, dopo aver sacrificato tutto per amore, viene abbandonata e tradita dal suo uomo. La cantante gioca sul contrasto tra la volontà di perdersi di Arianna e il suo ruolo nel mancato smarrirsi di Teseo nel labirinto; la figura mitologica diventa quindi specchio rovesciato della protagonista del brano.

5. Icaro e il sogno del volo

Per concludere la panoramica su mito e canzone italiana, viene presentata qui la figura di Icaro, strettamente legata a quella di Arianna, dato che il padre del primo, Dedalo, era inventore ufficiale alla corte di Minosse e colui che istruì la giovane su come orientarsi nel famoso labirinto. Icaro rappresenta il sogno umano senza tempo di poter volare, ma simboleggia anche l’imprudenza, la curiosità, finanche la presunzione dell’osare sfidare i propri limiti. Difatti, in breve, Dedalo aveva costruito delle ali per sé e per suo figlio, fissandole al loro corpo con della cera. Per questo aveva raccomandato, invano, al figlio di non avvicinarsi troppo al sole, ciò che, invece, avvenne, provocando lo scioglimento della cera e il precipitare del giovane in mare, nonché la sua morte.


Paesaggio con il volo di Icaro, Carlo Saraceni (1608)

Il primo brano, omonimo, è quello dei Nomadi (da Un giorno insieme, 1973), nel quale Icaro non è vittima, poiché sceglie il proprio destino, cosciente che il suo desiderio di conoscenza e il suo disprezzo del pericolo lo porteranno alla morte: "Che c'è dopo il mare, cosa c'è / che c'è dietro il sole, cosa c'è / quel villaggio di stelle lassù / che mi spinge ad osare di più".

La lettura offerta dai Litfiba in Ballata (da 17 Re, 1986) indica sempre un Icaro coraggioso, ma vittima delle angherie della gente, che non capisce il suo coraggio: "Ridono di me! / Delle mie ali, ali di cera". Il personaggio mitologico, qui, diventa emblema di tutti coloro che vanno oltre i propri limiti e quelli imposti dalla società, in barba alle convenzioni e a chi li considera folli. È un’esaltazione di Icaro, che non è uno sventato, ma un avanguardista, che prende la giusta distanza dalla piccolezza del suo mondo per avere una visione d’insieme più ampia.

Icaro dei Gemelli diVersi (da Boom!, 2007) sembra fare eco al brano dei Litfiba, poiché definisce "lacrime di pagliaccio (che) bruciano / dentro il volto di noi uomini / deboli e stupidi", che stiamo a guardare e schernire chi tenta l’impossibile. In realtà, si tratta di una canzone d’amore e dunque il volo della figura mitologica diventa metafora di chi accetta il rischio di innamorarsi e di chi incarna la capacità di resilienza. Il senso della canzone qui è esplicito: "Tutti vogliono volare, / ma quanti sono disposti / a rischiare di farsi male, cadere, / ricominciare tanti si accontentano / solo di camminare, / ma tarpando le ali al cuore / che cosa si vive a fare?".

Scelta consapevole, sotto la spinta della sete di conoscenza, anche quella cantata ne L’uomo che viaggiava nel vento da Murubutu (tratto dall’album omonimo del 2016): "Con le mani sulle mani con le ali / spazi immani sopra i mari oltre i valichi / oltre il limite quale limite ora il limite (non c'è più) / l'incredibile già nell'iride l'impossibile (non c'è più)".

Per completezza d’informazione, si segnala anche un brano presentato allo Zecchino d’Oro del 2012, Il sirtaki di Icaro (autrici Maria Rita Ferrara e Maria Amanatidou), che narra la storia di Dedalo e Icaro nell’ottica di un padre esasperato dal figlio disubbidiente, che però alla fine non muore, poiché cade in acqua, viene salvato dal genitore, che ne approfitta per impartire una lezione di saggezza: meglio restare con i piedi per terra che tentare testardamente imprese impossibili.

6. Conclusione

In questo saggio ci si è concentrati solo su alcune figure, ma è bene sapere che l’ispirazione canora alla mitologia non si ferma qui: per esempio, Battiato dedica un brano ad Atlantide – in un omonimo brano del 1993 – e agli dei che ne decisero le sorti; nel 1978, gli Area, in un testo di non facile accesso, celebrano il padre di Edipo in Acrostico in memoria di Laio, ed è da segnalare anche il disco tematico del già citato rapper Murubutu, L’uomo che viaggiava nel vento, del 2016, che dedica ad Eolo il brano Il re dei venti, alla ninfa Dafne il brano omonimo e al mito di Pegaso la canzone Levante.

Cesare Pavese ha scritto che "il mito è una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione" (2002, 127). E rivelazioni possono essere le letture contemporanee date delle storie qui sopra citate, tanto più che la presenza massiccia di ispirazione ai miti antichi dimostra che questi sono ancora attuali, sia in forma di divulgazione culturale che come emblemi di comportamenti stigmatizzati, qualità e difetti esemplari.

Si potrebbe pensare, quindi, che l’esigenza che ha spinto l’uomo arcaico a creare il mito originario, vale a dire quella di dare un senso al proprio mondo, non sia morta nell’uomo contemporaneo, ma si esprima in forme nuove. Rossana Casale si chiede A che servono gli dei, in un’omonima canzone del 1989 (dall’album Incoerente jazz), facendo riferimento al fatto che solo gli uomini possono gestire il proprio destino, perché: "Siamo noi il bene ed anche il male / e la pace che non c’è / ognuno deve coltivarla in sé", dimostrando un totale distacco da una teologia salvifica o punitiva. Al contrario, Le Vibrazioni, in Ridono gli dei (da Le strade del tempo, 2010), cantano il rammarico dell’abbandono del mito e delle credenze, identificando in questi il potere del perdono divino, così come una guida ferma: "Ridono di noi gli Dei / che oggi non hanno più lo spazio e il senso; / il tempo dove Giove era il padrone / è sparito e non torna più […] / Abbiamo divorato il perdono / e non abbiamo mai dissetato la madre terra che ci ha cullato / e ha creduto tanto in noi".

E anche se, come suggeriva Lucrezio nel De rerum natura, la paura ha creato gli dei, si potrebbe aggiungere che i miti, per quanto siano ormai relegati nello spazio della letteratura o dell’exemplum, si confermano come punti di riferimento, foss’anche per dare una nota di altrove a composizioni altrimenti da considerarsi “canzonette”. E d’altronde, per dirla con Ovidio, è conveniente che esistano gli dei, e, siccome è conveniente, lasciateci credere che esistano.

Références bibliographiques

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Pour aller plus loin

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Pour citer cette ressource :

Laura Nieddu, "Cantami, o Diva. Personaggi mitologici nella canzone italiana", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), avril 2021. Consulté le 25/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/musique/cantami-o-diva-personaggi-mitologici-nella-canzone-italiana

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