Costruttrici di utopia. Imparare a fare comunità con «L’università di Rebibbia» di Goliarda Sapienza
1. Invisibile perché deviante
È il 10 maggio 1924 quando nasce a Catania Goliarda Sapienza. Dieci anni più giovane di Elsa Morante, è quasi coetanea di Pasolini e Calvino, nati rispettivamente nel 1922 e nel 1923. Ma ben diversa è la ricezione della sua opera. Sebbene alcuni dei suoi testi come Lettera aperta (1967) ma anche L’università di Rebibbia (1983), avessero attirato l’attenzione della critica al momento della pubblicazione, il romanzo che la fa oggi annoverare tra le scrittrici italiane più interessanti del Novecento, L’arte della gioia, non vedrà la luce che postumo. Scrive Angelo Pellegrino, il compagno degli ultimi vent’anni della sua vita: "Nel 1996 non esisteva più neanche una pagina che si potesse leggere di lei, quasi nessuna traccia della sua esistenza di scrittrice. Lei morta, non esisteva più niente" (Pellegrino, 2017, 151). Una delle ragioni dell’invisibilizzazione della sua opera è forse da cercare in quella dimensione che la stessa Goliarda Sapienza aveva definito "deviante":
[…] mentre per Pasolini, deviato come me anche se cattolico e omosessuale, tutti hanno sempre accettato la sua deviazione e anzi l’hanno ammirata, per me non è così, per me donna c’è la degradazione in ogni atto deviante che io possa compiere (Sapienza, 2022, 124-125).
Questa "devianza" che è stata forse all’origine degli innumerevoli rifiuti editoriali ((Pellegrino Angelo (a cura di), Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della gioia, Roma, Edizioni Croce, 2016.)) ricevuti da L’arte della gioia è uno degli aspetti che più attirano oggi l’attenzione della critica, da quando la pubblicazione di La porta è aperta di Giovanna Providenti nel 2010 ha inaugurato la riscoperta di Sapienza in ambito accademico (Trevisan, 2018). Che ci si soffermi sulla sua sensibilità queer o femminista, sulla dimensione sociale dei suoi testi, o sulla sua particolare critica politica, è dell’ab-norme, inteso come tutto ciò che la norma non riesce ad incasellare e a modellare, che ci parla oggi l’opera di Goliarda Sapienza.
Nel corso della sua esplorazione letteraria alla ricerca di questa alterità scomoda, al di là della norma, un’esperienza in particolare segna un punto di svolta. Si tratta della sua detenzione di cinque giorni nel carcere femminile romano di Rebibbia nell’ottobre 1980, in seguito ad un furto di gioielli a casa di una ricca amica di origini aristocratiche, che le darà poi l’occasione di scrivere il racconto autobiografico L’università di Rebibbia. L’incarcerazione è stata a più riprese rivendicata dalla scrittrice. Ne parlò in un’intervista a Enzo Biagi come di "un’esperienza mossa da un desiderio di testimonianza" perché nella sua famiglia si diceva che "si conosce il proprio Paese conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio" e non mancò di precisare, con la sua determinazione sorridente e un po’ provocatoria, di "[aver] fatto benissimo ad andarci" (Biagi, 1983). La detenzione di Goliarda Sapienza sembra essere stata allora non solo il frutto di una delle tante contingenze della vita, ma anche di un preciso desiderio di "morire per rinascere" (Pellegrino, 2017, 173), come in un "funerale pirandelliano" ((L’espressione è utilizzata dalla stessa Goliarda Sapienza in una lettera inedita a Sergio Pautasso, consultata da Mara Capraro e in corso di digitalizzazione grazie a Silvia Tripodi dell’Università di Catania (Capraro, 2021, p. 15).)), come se quell’eterotopia, quello spazio assolutamente altro, per riprendere il neologismo di Michel Foucault, potesse permetterle un’esplorazione antropologica più autentica della realtà sociale proprio attraverso quegli individui e quelle pratiche ch’essa rifiuta e relega in quanto devianti.
Percorrendo questo racconto autobiografico cercheremo quindi di rintracciare non soltanto le peculiarità dell’esperienza carceraria e letteraria di Goliarda Sapienza, ma soprattutto il sapere antropologico che questa "università" offre al suo sguardo di scrittrice sulla società che lo produce e lo nutre.
2. A scuola di vita nel carcere di Rebibbia
2.1. Dall’irrealtà dell’università alla verità di Rebibbia University
Iniziamo dall’inizio, cioè dal titolo del libro. Un titolo paradossale che erge quasi a manifesto la dimensione contraddittoria di cui la stessa Goliarda parlava definendo la sua opera autobiografica un ciclo delle "contraddizioni" (Sapienza, 2013, 25-26). Che cos’è un’università e che cos’è Rebibbia ? E in che modo questi due termini, legati da un accostamento ossimorico, si trasfigurano reciprocamente? Un’università è, etimologicamente, l’universitas studiorum, o ancora, l’universitas magistrorum et scholarium, cioè la corporazione dei maestri e degli alunni (Enciclopedia Treccani, voce "Università"). Per estensione, essa rappresenta oggi un luogo di trasmissione e di circolazione del sapere all’interno di una comunità di insegnanti e di studenti ed è il luogo considerato al vertice della piramide del sapere. Rebibbia, dal canto suo, è un nome proprio, quello della prigione che sorge nel quartiere omonimo della capitale e che raccoglie quattro istituti di pena, tre maschili, uno femminile. Come ogni carcere, è uno spazio concepito per relegare ai margini della società coloro che non ne hanno rispettato le leggi: i fuori-legge appunto. Ma in che modo questo spazio di detenzione dei reietti, dei “respinti”, può elevarsi al rango di luogo del sapere per eccellenza? E di quale sapere?
Per capire questa "predilezione dell’autrice sia per la provocazione che per il paradosso" (Wehling-Giorgi, 2020, 9), ci si può addentrare in quelle pagine de L’università di Rebibbia che mettono a nudo l’istituzione universitaria desacralizzandola e ridicolizzandola per poi proporre come alternativa ad essa la scuola di vita della prigione:
Fuori, dopo decenni di incitamenti fondati sull’astrazione d’essere liberi, distruggere le classi, sul diritto di tutti ad avere tutto, non sono ora proprio loro – i divulgatori imprudenti di queste idee – a isolare, carcerare, spingere al suicidio i pochi discepoli che le loro idee hanno trovato? Al primo ammonimento, alla prima minaccia di togliergli la pagnotta, si sono ritirati rinnegando ogni parola, ogni incitamento portato avanti per anni forse solo per il gusto di credersi rivoluzionari. [...] Ora, pentiti per quello che considerano un errore di giovinezza, fanno ammenda negando tutto: “Eravamo in un’aula d’università, bambini! Non nel reale! La realtà è un’altra, non scherziamo!” (2016, 72-73).
L’istituzione universitaria appare in questo passaggio come una dimensione alienata e alienante in cui si è perso il contatto diretto con la realtà della vita. All’interno di questo fuori-senza-dentro la libertà è un’astrazione, la rivoluzione una questione di narcisismo ("per il gusto di credersi rivoluzionari"), le idee anticlassiste errori di gioventù: un nulla davanti al rischio di perdere i propri privilegi. Il discorso ex-cathedra si riduce così ad un gioco poco serio, completamente superficiale e avulso dalla realtà. In questa critica tutt’altro che velata all’insegnamento universitario si pongono già le premesse di quel sovvertimento che avverrà una ventina di pagine dopo. Le detenute sono in preda ad un riso collettivo e liberatore, stanno vivendo un "momento di allegria" che per un istante ha fatto dimenticare loro la condizione di detenute. Roberta, una di esse, particolarmente cara all’autrice, commenta che se fosse sempre così, Rebibbia "diverrebbe un posto da pagare per entrarci" (2016, 96). Allora il personaggio di Goliarda risponde:
- Sì, un posto da pagare a caro prezzo... come una grande università famosa; si potrebbe anche darle un nome suggestivo. Rebibbia University.
Che ho detto? Lì ci sono persone chiuse da anni e con la sola prospettiva di restarci ancora per anni... Sto quasi per mordermi le labbra dalla rabbia per la mia battuta superficiale, quando tutte, drizzandosi elettrizzate, si impossessano dell’idea dando inizio ad un carosello di idee tutte volte a come rendere “la nostra università” famosa nel mondo (2016, 96).
In questo passaggio, il lettore assiste ad un ribaltamento semantico di quello precedentemente citato. Le "idee" meramente teoriche che venivano facilmente rinnegate dai loro “imprudenti divulgatori” universitari diventano qui invece, nella bocca di queste detenute, una materia linguistica fertile dall’alto potenziale creativo ("si impossessano dell’idea dando inizio ad un carosello di idee") che trasfigura gioiosamente una prigione fino a renderla un luogo unico e privilegiato. Ma la ragione per cui la battuta di Goliarda non viene percepita come superficiale dalle sue compagne, ma anzi come uno spunto per liberare la fantasia, è la comune percezione di Rebibbia – quanto meno in quel momento di ilarità – come uno spazio collettivo ("la nostra università") dove una comunità umana è ancora possibile. Se all’interno dello pseudoconsorzio universitario, agli occhi di Goliarda, i "predicatori" erano i primi a "isolare, carcerare, spingere al suicidio" i loro pochi discepoli, qui le parole e le idee circolano orizzontalmente e trasversalmente facendo del gioco scherzoso dell’immaginazione un momento di verità. Parlando di questa comunità di donne a Rebibbia, l’io narrante riflette in un altro luogo del testo:
La piccola cinese già mi conosce. Come tutte qua è approdata al linguaggio profondo e semplice delle emozioni, così che lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri movimenti (ed esigenze) del profondo: questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque se vuole, può imparare il linguaggio primo (2016, 90-91).
Ma per far parte di questa comunità capace di squarciare le “mascherature” e spingersi fino ai "veri movimenti del profondo" la neo-detenuta ha bisogno di compiere un percorso di formazione che assume talvolta i tratti nelle sue pagine di un vero viaggio iniziatico. Soltanto l’accettazione di un altro modo di stare al mondo permetterà a Goliarda di avvicinarsi ad un nuovo modo di esistere di cui sembra essere incessantemente alla ricerca.
2.2. Un’iniziazione a Rebibbia: morire al mondo civile per rinascere
Per partecipare a questa "grande università cosmopolita" femminile il personaggio di Goliarda deve abbandonare la sua vita precedente e immergersi in "un luogo misterioso e potente di cui non [sa] niente" (2016, 4). L’ingresso in prigione assume connotazioni dantesche, a cominciare dall’attraversamento di un lungo corridoio largo e basso, buio, rischiarato appena da lampade verdastre, che appare alla neo-detenuta come un "lungo budello" che "scivola inesorabilmente verso il fondo" (2016, 4), una sorta di "natural burella" per riprendere il lessico dell’Inferno di Dante (Inferno, XXXIV, 98). L’io narrante ripercorre la sua discesa agli inferi spiegando al lettore:
A ogni passo senti che vai verso il basso e non potrai più tornare a essere come prima. Quei camminamenti sotterranei parlano di morte e conducono a tombe. Infatti, per la legge dell’uomo un tuo modo di essere è stato cassato, la fedina penale macchiata, le mani insozzate dall’inchiostro per le impronte digitali: quella che eri prima è morta civilmente per sempre (2016, 5).
Come il personaggio di Dante, che nell’inferno a più riprese ritorna bambino e cerca rassicurazioni nell’adulto Virgilio, anche quello di Goliarda entrando in prigione regredisce al mondo dell’infanzia: "intimidita come al primo giorno di scuola davanti alla maestra" sente il suo corpo "tornato bambino mettersi impalato su un attenti goffo" (2016, 4). Le chiavi della cella in mano alla guardiana evocano in lei "ricordi ancestrali: convento, segreta, cappella mortuaria, ripostiglio buio dove bambina ti chiudevano" e prima di restare sola nella cella "con voce a [lei] estranea di bambina spaventata (o di mendicante?)" ascolta se stessa chiedere "per favore" del cibo (2016, 5). Se è vero, come ha osservato Katrin Wehling-Giorgi, che "l’evocazione della scuola elementare in questo brano propone da subito il confrontarsi con un sistema infantilizzante, autoritario e repressivo del carcere che richiama le rigide strutture dell’istituzione scolastica" (Wehling-Giorgi, 2020, 5), la regressione infantile che sta vivendo il personaggio di Goliarda non deriva tanto dal funzionamento dell’istituzione carceraria, di cui ha ancora poca esperienza, quanto da un’intima doppia consapevolezza: la propria morte civile, cioè la sua definitiva estromissione dalla comunità delle fedine penali pulite, e il concepimento di un nuovo io.
Il nome della narratrice assume un ruolo particolare in questo contesto iniziatico. Durante i primi giorni di detenzione quasi nessuno la chiama "Goliarda". Una compagna di prigione, Giovannella, si limita, pur affettuosamente, a rivolgersi a lei con l’apostrofe "signo’" e l’istituzione confonde continuamente o storpia i dati anagrafici della protagonista, che talvolta si permette di correggere: "Non Goliardo, Goliarda! [...] Avevano scritto Goliardo Sapienza" (2016, 26) o ancora "– Allora, Speranza, entriamo. – Sapienza, – dico" (2016, 31). Questa anonimia corrisponde ad una prima fase dell’esperienza in detenzione, in cui la “signora” viene percepita come un elemento esterno che suscita persino una certa diffidenza in alcune carcerate: "Non mi convinci per niente, cara la mia signora [...]. Ma che sciccheria, oh! E chi la riconosce più Rebibbia! [...]" (2016, 14).
Progressivamente però, facendo conoscenza con le altre detenute e facendosi lei stessa conoscere, l’io narrante inizia ad essere identificata e riconosciuta fino a quando, dopo aver sentito per ben due volte il suo nome in bocca ad una delle sue compagne, Marrò, commenterà: "Il mio nome scandito come se la mia persona fosse entrata nel suo organismo familiare – o mi illudo? – mi scombussola più di un pugno improvviso in piena faccia [...]" (2016, 87). Alla fine del testo la sua appartenenza alla comunità di Rebibbia viene suggellata dalle parole di una detenuta che la riempiono di orgoglio: "Sei una di noi Goliarda, vieni" (2016, 132). Come in ogni rito di passaggio, Goliarda ha ora un nome per la nuova comunità che l’ha accolta. Se questo nome in apparenza è lo stesso della sua vita precedente, in realtà risuona in tutt’altro modo a Rebibbia, riflettendo un rapporto con l’identità caratteristico di questo microcosmo femminile: "Tutti capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori" (2016, 138).
Goliarda sa insomma di essere morta agli occhi del suo vecchio mondo o per dirlo con le parole della sua compagna Ornella: "Essendo stata una volta qui, Goliarda, non sperare più di uscire com’eri prima. Né tu ti sentirai mai più una di fuori, né loro – quelli di fuori – ti riterranno mai più una di loro" (2016, 132). Ma allo stesso tempo attraverso l’esperienza di Rebibbia, che le dà la possibilità di fare parte di una nuova comunità umana, Goliarda viene iniziata ad un nuovo modo di vivere, di percepire il mondo, ma anche di scrivere, che le farà raccontare nei suoi taccuini: "Sono come ripulita, il bagno di vita fatto a Rebibbia mi ha come purificata" (2022, 124).
2.3. Tras-formarsi: imparare un nuovo modo di stare al mondo
La Goliarda-bambina che si sentiva tornata al primo giorno di scuola, attraverso il suo percorso di formazione alla Rebibbia University, scopre un rapporto completamente nuovo con l’esistenza. Le quattro mura della prigione cambiano innanzitutto il suo rapporto con il tempo. Fin dalle prime pagine del libro Goliarda osserva: "al contrario di quando ero fuori (non ho mai avuto molta cognizione del tempo), so perfettamente che ore sono: un’ora prima dell’arrivo del latte" (2016,12). E ancora: "L’ansia è nemica in carcere come sulle navi, non c’è spazio sufficiente per sfogare il ritmo precipitoso di questa emozione. Noto con quale ansia la guardiana ha riaperto la porta [...]: lei vive mezzo fuori e mezzo dentro e, di conseguenza l’ansia che porta con sé da fuori ferisce noi che già abbiamo preso un ritmo senza tempo" (2016, 23).
La temporalità della prigione non è una nebulosa indeterminata per il personaggio di Goliarda ma un ritmo ciclico, rituale, sempre identico a se stesso, lontano dalla linearità del tempo esterno e dalle sue ansie di progressione. Un ritmo che avvicina i prigionieri, privati di spazio, al tempo duraturo della natura, come sembra constatare la narratrice osservando "due minuti scarafaggi che passeggiano pigramente su e giù": "man mano che li osservo comincio a essere grata alla loro misera vita di animali nati nel buio" (2016, 12). Il ripetitivo "su e giù" degli insetti si ritrova nel deambulare della protagonista durante l’ora d’aria:
Dopo essere stata una buona mezzora sulla panca, mi alzo e comincio ad andare su e giù. Il mio ritmo deve aver preso il loro ritmo [delle altre detenute]. Per esserne ancor più sicura mi fermo e le osservo, apparentemente distratta da un ciuffetto di cicoria che si sta aprendo un varco tra i lastroni sulla pavimentazione. So così poco delle erbe che mi immalinconisco. Quando uscirò mi metterò a studiare tutto sulle piante (2016, 23).
Questa vicinanza quasi istintiva al mondo naturale ricorda alcune riflessioni di Antonio Gramsci, sebbene la durata della sua detenzione, protrattasi per più di dieci anni, in condizioni che l’hanno portato alla morte, sia incomparabile ai cinque giorni a Rebibbia di Goliarda Sapienza.Il fondatore del partito comunista italiano in una delle sue Lettere dal carcere scrive alla sua corrispondente e cognata Tania l’11 luglio 1929: "da un anno in qua i fenomeni cosmici mi interessano [...]. Il ciclo delle stagioni, legato ai solstizii e agli equinozii, lo sento come carne della mia carne [...]. Insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me." (Gramsci, 2008, 168).
Se la ciclicità immobile del tempo della prigione crea una prossimità tra i detenuti e la natura, la coesistenza di individui privati di libertà e costretti in uno spazio ridotto cambia il rapporto con il proprio corpo e con quello degli altri. Mara Capraro ha analizzato la disumanizzazione degli individui ne L’università di Rebibbia riflettendo sulle metafore animali presenti nel testo e sulla tendenza dei personaggi ad esprimersi attraverso quei gesti liminari (Plessner, 1995, 37), come il grido e il riso, che li accomunano al mondo animale. L’esperienza carceraria consentirebbe insomma, secondo la ricercatrice, una riappropriazione del proprio corpo attraverso la distruzione delle maschere sociali e "lo sfogo incontrollato delle passioni e degli istinti" (Capraro, 2021a, 13-15).
Ma se è vero che, in alcuni luoghi del testo, soprattutto nella prima parte del libro, assistiamo alla rappresentazione di una regressione animalesca degli individui, più la narratrice penetra nelle viscere di Rebibbia meno i corpi delle detenute vengono ridotti ad una "matta bestialitade" (Dante, Inferno, XI, 82-83). Al contrario la corporeità femminile ha bisogno per essere detta, anzi scritta, di un campionario artistico, in particolare scultoreo, pittorico e cinematografico. Le detenute vengono associate dalla narratrice o, talvolta da loro stesse, a icone cinematografiche come James Dean (2016, 38), Silvana Pampanini (2016, 40), Mamma Roma-Anna Magnani (2016, 41), Marilyn Monroe (2016, 41), Lauren Bacall (2016, 89) e le loro pose vengono descritte attraverso i grandi capolavori della storia dell’arte: "È vero che sembra il Mosè di Michelangelo, con quel furore nei capelli e quel braccione sul ginocchio?" (2016, 66), o ancora "il ritratto di una ragazza – una sua compagna di cella sicuramente – ha l’espressione in bilico fra Monna Lisa e la Madonna Benedicente di Antonello da Messina" (2016, 92) e, per citare un ultimo esempio, "Ornella è una specie di versione moderna della Venere del Botticelli. Quando è all’aria gira per il cortile a torso nudo" (2016, 96).
Con un procedimento che ritroviamo nel cinema di Pasolini (basti pensare al Cristo morto del Mantegna in Mamma Roma o a Bruegel nel Decameron e nei Racconti di Canterbury), attraverso la citazione iconografica, i corpi dei reietti, dei marginali, vengono incorniciati e trasfigurati, rapiti al contingente ed innalzati nello spazio senza tempo dell’opera d’arte. Questa strategia narrativa di elevazione dei corpi di una categoria subalterna – doppiamente marginale in quanto femminile ne L’università di Rebibbia (Bazzoni, 2018, 260) – viene messa en abyme nel libro. Come è stato osservato anche da Katrin Wehling-Giorgi, infatti, una delle carcerate, Suzie Wong, scegliendo una compagna detenuta come soggetto di un suo dipinto, restituisce alle donne "il potere dello sguardo sul corpo femminile". Attraverso il gesto pittorico di Suzie, e quello letterario di Goliarda Sapienza, la donna non è un’icona passiva di un uomo spettatore ed interprete (Wehling-Giorgi, 2020, 13) ma diventa oggetto di una circolazione tutta al femminile di corpi, gesti e voci che li tematizzano, li rappresentano e li reinventano. L’esperienza carceraria consente dunque alla scrittrice non solo di accedere a manifestazioni della sessualità femminile che sarebbero state represse “fuori”, ma anche di imparare un nuovo modo di guardare e dire il corpo di un universo femminile relegato ai margini della società.
L’irruzione nella sua esistenza delle donne di Rebibbia, una così potente materia umana e letteraria, permette a Goliarda un decentramento dalla sfera dell’io a quella dell’altro. Oltre ad un nuovo modo di vivere il tempo e il corpo, la sua esperienza in prigione le insegna infatti un’altra maniera di fare parte di una collettività. La vita a Rebibbia si fonda su una solidarietà e un’attenzione al singolo da parte del gruppo impensabili fuori dalle sue mura, soprattutto in una società come quella italiana, entrata bruscamente, con il boom economico, in una modernità sempre più "liquida" (Bauman, 2002), in cui i legami tra gli individui sono sempre meno forti, duraturi e stabili. La precarietà delle condizioni psicologiche delle detenute fa sì infatti che nel gruppo si crei spontaneamente un istinto di protezione del singolo da cui dipende l’equilibrio di tutta la comunità:
La nausea è passata al gesto di Suzie, e sono in grado di distribuire i piatti sul piccolo tavolino affollato di teste. La nausea passa al cenno di solidarietà che sempre viene a sostenerti se scorgono il tuo sguardo troppo fisso alla porta chiusa o alla finestra, o solo che ti chiudi appena in te stessa. Non è che non sanno tacere se tu stai pensando o ti lasci andare serena a fantasie, ma appena cedi lo sentono…quelle donne conoscono ancora l’arte dell’"attenzione all’altro", sanno che della condizione psichica di una può dipendere quella delle altre (2016, 90).
L’esperienza della vita dell’autrice in questo microcosmo femminile profondamente sensibile ed empatico ha ripercussioni importanti anche sulla sua scrittura. Infatti dopo l’esperienza a Rebibbia si assiste ad uno slittamento dalla dimensione autobiografica dei suoi precedenti testi, Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, ad una scrittura più dedita all’alterità con una più forte componente dialogica. Come afferma infatti Mara Capraro, "l’esperienza carceraria segna il principio di una pratica scrittoria imperniata sull’aspirazione ad uno statuto di autenticità e sull’inserimento del singolo nella memoria storica di una collettività" (2021b, 4). Insomma Rebibbia, non funge soltanto da scuola di realtà e di solidarietà, ma consente a Goliarda Sapienza di cimentarsi con forme linguistiche e testuali inedite. L’esperienza di vita si fa allora anche laboratorio di scrittura.
3. Rebibbia: moderna e paradossale utopia
3.1. Eterotopia o utopia?
La Rebibbia di Goliarda Sapienza è stata spesso analizzata dalla critica attraverso la categoria di eterotopia coniata da Michel Foucault, un luogo assolutamente altro – come la prigione, ma anche per esempio il cimitero, la biblioteca, la casa di tolleranza – nel quale "tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contrastati e sovvertiti" (Foucault, 2002, 23-24). In effetti, l’autrice, in diversi passaggi del testo, presenta l’istituzione carceraria come "lo spettro o l’ombra della società che lo produce" (Sapienza, 2016, 109), in cui si ritrovano le stesse logiche del mondo di fuori:
Fra noi larve di fuori si comincia perfino a sussurrare che le classi non esistono più. Poveri illusi! Cosa darei per trascinarli tutti – anche solo per una settimana – qui a Rebibbia a vedere la sintesi chiara e inappellabile del mondo di fuori col suo, ora per ora, eterno riprodursi del vinto e del vincitore, del servo e del padrone (2016, 50).
La prigione nell’Università di Rebibbia, pur riproducendo i meccanismi sociali esistenti, riesce però anche a scardinarli e sovvertirli, presentandosi paradossalmente come uno spazio di libertà sconfinata:
Sono approdata nel regno del "tutto possibile" (violenza, abbandoni, contraddizioni) fondato sulla coscienza profonda di essere "ormai perdute" per sempre alle leggi che regolano il vivere di fuori. Infatti, quando metti il piede nel lido del "tutto è perduto" non è proprio allora che scatta la libertà assoluta? […] Valicato il muro del lecito che è dentro di noi il suolo selvaggio delle passioni proibite, si spalanca davanti, immensa prateria incustodibile (2016, 81).
Tuttavia se questa dimensione paradossale dell’eterotopia foucauldiana – la capacità di riprodurre le logiche della sua cultura pur contrastandole e sovvertendole – è in effetti presente nella Rebibbia di Goliarda Sapienza, non bisogna però dimenticare che questo microcosmo è anche e prima di tutto una costruzione letteraria, una prigione “di carta”, nella quale ci si avventura esclusivamente attraverso un testo, da non confondere con la Rebibbia della realtà. Per questa ragione, la categoria di utopia, più che quella di eterotopia, permette di comprendere il potere sovversivo letterario del microcosmo che Goliardia Sapienza offre al lettore.
Contemporaneamente ou-topos, nel senso di non-luogo e paese immaginario, e eu-topos, inteso come luogo ideale, un’utopia, per come la concepiamo, è un particolare dispositivo estetico costruito intorno alla figura di un viaggiatore-narratore che scopre un mondo radicalmente altro, che sembra proporgli una valida alternativa al proprio, intrinsecamente malato. Per questo non torna a mani vuote dal suo viaggio ma offre ai contemporanei una testimonianza che, facendo vivere al lettore per interposta persona l’esperienza di un’alterità assoluta, apre l’orizzonte dei possibili e frantuma le ideologie del suo tempo. Dietro questo personaggio si nasconde naturalmente l’autore con la sua insoddisfazione nei confronti della cultura in cui vive. Il mondo altro, l’eu-topia, dal canto suo, è la costruzione di un cronotopo che non è in realtà altro che il rovesciamento della propria società, i cui limiti sono trasformati in punti di forza (Bardellotto, 2017, 70). Per quanto il racconto di Goliarda Sapienza sia il frutto di un’esperienza biografica, la sua Rebibbia non può prescindere da questo particolare posizionamento dell’autrice che vede nella prigione un mondo ideale – forse anche idealizzato, quindi ou-topos – che mette in luce i limiti del proprio tempo e allo stesso tempo propone delle alternative ad esso. Non si tratta di uno studio sociologico, pur offrendo spunti interessanti in questa direzione, ma di una costruzione letteraria di un’autrice che cercava nell’esperienza carceraria, fin dall’inizio, nuovi modi di essere, in quanto donna e in quanto scrittrice in una società che le appariva sempre più ostile. In questo senso L’università di Rebibbia può essere considerata come un racconto utopico che, in quanto tale, presenta i mali del mondo di fuori e mostra delle vie di fuga grazie al viaggio dentro le mura. Vediamo allora in che senso il mondo di Rebibbia rappresenta per Goliarda Sapienza una lente di ingrandimento e una risposta ai limiti della società dell’Italia di allora – e forse anche di oggi.
3.2. Contro le nuove forme di alienazione, fare comunità
Nell’ottobre 1980, quando Goliarda Sapienza viene incarcerata a Rebibbia, la società italiana stava vivendo da una ventina d’anni una serie di trasformazioni economiche, sociali e culturali senza precedenti che in pochi anni avevano fatto entrare quello che era stato un paese prevalentemente povero e contadino nell’universo della modernità consumistica dominata dall’american way of life. Sono noti i toni apocalittici di alcune figure dell’epoca, Pasolini in primis, che parla per esempio nei suoi Scritti Corsari di "omologazione culturale", di "mutazione antropologica irreversibile del popolo italiano" e di "edonismo di massa". La società italiana degli anni ’80, alla stregua di altri paesi europei ma in modo più brusco e repentino, si trova a fare esperienza di nuove forme di alienazione che covano dietro alla democratizzazione e alla modernizzazione del paese.
L’istituzione carceraria riflette questi cambiamenti. Infatti, con la riforma entrata in vigore nel 1975, si riduce l’autonomia delle amministrazioni penitenziarie e, per legge, vengono definiti i limiti e i contenuti del trattamento dei detenuti, i cui nuovi cardini sono: "umanità, rispetto della dignità della persona, imparzialità, esclusione delle discriminazioni, restrizioni limitate alle esigenze di ordine e di disciplina, indicazione dei detenuti con il loro nome, proiezione verso il reinserimento sociale e individualizzazione del trattamento" (La Greca, 2005, 38). Le detenute de L’università di Rebibbia sono coscienti di vivere in condizioni più umane rispetto all’epoca del vecchio ordinamento. Per esempio la detenuta Edda informa Goliarda di "tutte le sevizie e le angherie di quel medioevo che imperava nell’epoca mitica delle suore", tempo "spazzato via […] in maniera così definitiva che è difficile rintracciarne qualche umore o ricordo" (Sapienza, 2016, 59). Tuttavia le detenute politiche non mancano di ironizzare su questa democratizzazione delle carceri. Roberta spiega infatti con sarcasmo alla narratrice:
Devi sapere che in seguito alla riforma carceraria, qui a Rebibbia – non scordiamoci che Rebibbia è un carcere-modello – c’è in atto un sacco di innovazioni "democratiche", fra le quali le più divertenti, per non dire risibili, la presenza di un’educatrice e d’una psicologa affiancate dal mezzo ludico dello sport – va di moda il ludico: calcio, palla a volo, palla a canestro… La psicologa nomina una commissione di detenute per i film da proiettare il sabato […]. Non perdere il linguaggio di queste educatrici, assistenti sociali e psicologhe. Parlano un italiano assolutamente tradotto dall’amerikano… (2016, 93).
Per Roberta le attività sportive e il cineforum nascondono "l’inizio del più bieco riformismo che maschera il più moderno, asettico ed efficiente fascismo già in atto in Germania" (2016, 93). Precisa inoltre che alle detenute politiche questo "neopaternalismo" non sarebbe stato concesso perché le avrebbero rinchiuse nelle carceri speciali, per allontanarle dalle famiglie e dai centri abitati in modo da far credere "che la giustizia e con lei la società sia cambiata" (2016, 94). Secondo Roberta, pasolinianamente, una delle prerogative delle moderne società democratiche è insomma il fingere tolleranza e apertura là dove non ci sono pericoli reali per il potere, assoggettando gli individui attraverso l’assuefazione al piacere. Al contrario, quando il sistema di dominazione si sente minacciato realmente da un gruppo di individui, come nel caso degli oppositori politici, solo allora, esso mostra la propria reale natura.
Goliarda Sapienza attraverso il pamphlet di Roberta fa irrompere nel testo una critica virulenta della società italiana di quegli anni che, per opposizione, dà un rilievo ancora più grande al contro-modello utopico rappresentato dalla comunità che l’autrice scopre a Rebibbia. In altre parole, l’alienazione di una massa senza legami sociali che ha "esaurito tutte le emozioni sentimentali o patetiche di un tempo" e che "dopo un lavoro inumano – e solo per sopravvivere – va al cinema o si siede davanti alla tv" (2016, 94) viene rovesciata nel ritratto di una micro-comunità solidale e empatica che, come abbiamo visto, parla il "linguaggio profondo e semplice delle emozioni" (2016, 90).
A differenza dell’individuo-massa disumanizzato, le detenute, ritrovandosi a far parte nel piccolo "paese" del carcere (2016, 73, 78, 82), scoprono un modo di stare insieme più sincero in cui ognuna di loro ha un’identità chiara agli occhi delle altre che dà un senso al suo essere al mondo. Così Roberta spiega la cosiddetta "sindrome carceraria", cioè una forma di affezione alla prigione:
Vedi, qui […] si torna a vivere in una piccola comunità dove le tue azioni sono seguite, approvate se sei nel giusto, insomma riconosciute […]. È per questo che Annunciazione tornerà qui dove tutti sanno chi è. Anche se occupa il posto più basso di questa collettività qui ha sempre un "ruolo" accettato da tutti… […] Non c’è vita senza collettività, è cosa risaputa: qui ne hai la controprova, non c’è vita senza lo specchio degli altri… (2016, 138).
Questo bisogno di collettività di cui fanno esperienza le donne de L’università di Rebibbia non è da confondere con il sogno reazionario di un impossibile ritorno ad una fantasmatica e uniforme micro-comunità delle origini. Al contrario, Goliarda Sapienza sembra integrare nella propria utopia una dimensione transnazionale e multiculturale, come quando afferma che la spazialità della prigione la lascia senza parole: "è come se dai Parioli avessimo raggiunto a piedi Campo de’ Fiori poco più di trenta metri. O Shanghai, o Bangkok… ciò che mi alita attorno è così lontano dalla spietata fredda zona al nord di Roma dove abito […]" (2016, 70).
Un’altra separazione che sembra venire meno a Rebibbia è quella tra vecchi e giovani, poiché viene abolita la "cella dell’anagrafe" (2016, 72), cioè l’etichetta che inchioda un individuo alla propria età anagrafica, come osserva la narratrice guardando due belle donne anziane partecipare con foga ai discorsi tra le giovani:
Fra queste mura, inconsapevolmente, si sta tentando qualcosa di veramente nuovo: la fusione dell’esperienza con l’utopia attraverso il contatto fra i pochi vecchi che hanno saputo capire la propria vita e i giovani che anelano a sapere, la congiunzione del cerchio biologico che racchiude il passato con il presente senza frattura di morte (2016, 72).
Capiamo allora che il modello utopico che Goliarda Sapienza propone ai suoi contemporanei come alternativa all’"inferno della società italiana degli ultimi anni" (2016, 20) è un piccolo mondo solidale lontano da logiche identitarie in cui le differenze di origine, di classe, di età possano convivere in un’osmosi fruttuosa. Un mondo in cui dialetticamente la tradizione, rappresentata dagli anziani, dialoga con il progresso e l’innovazione, incarnato dai giovani. In un’epoca in cui gli entusiasmi rivoluzionari delle utopie del ‘68 sembrano ormai aver rivelato i propri limiti, la narratrice sente una speranza farsi viva in lei: "in questo luogo arriva – anche se per vie traverse – l’unico potenziale rivoluzionario che ancora sopravvive all’appiattimento e alla banalizzazione quasi totale che trionfa fuori" (2016, 72). Una rivoluzione dunque, quella di Goliarda Sapienza, che non implica un fare tabula rasa del passato, ma al contrario la capacità di rinvestirlo in un presente capace di proiettarsi in avanti.
3.3. Una collettività tutta femminile
La dimensione prettamente femminile del microcosmo di Rebibbia non è una contingenza, ma una vera e propria condizione di possibilità di questa comunità utopica. L’autrice cerca di spiegarlo ancora una volta attraverso la voce provocatoria del personaggio di Roberta che attribuisce alla condizione femminile la capacità creativa di trasformare uno spazio di relegazione in un paradiso, archetipo appunto dell’utopia:
[…] noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti […]. Noi sappiamo rendere creativa la giornata ora per ora, e non solo qui a Rebibbia che in fondo è un paradiso… (2016, 125).
La condizione storica di castrazione delle donne, secondo Roberta, avrebbe permesso loro di sviluppare una capacità, tutta femminile, di adattarsi allo spazio chiuso, fino a trasfigurarlo e a reinvestirlo di una rinnovata forza creatrice. Questa riflessione ci porta a pensare alla pratica dell’autocoscienza caratteristica del primo femminismo italiano degli anni Settanta, quando alcuni gruppi di donne, deluse dal leaderismo maschilista del ’68, scardinano il modo di fare politica di quegli anni. La politica che aveva invaso le aule universitarie e le piazze, con loro, si sposta nelle case. Come afferma la sociologa Elisa Bellè, "il gineceo […] si fa polis, diventando la piazza in cui finalmente si trovano parole per cose cruciali e dolorose, sino ad allora rimaste al di là del confine politico" (Bellè, 2021, 10). Lo spazio intimo della casa, assume una nuova funzione sociale e politica, si apre fino a diventare un territorio di liberazione della parola e di sperimentazione di nuove pratiche di decostruzione e di emancipazione. Allo stesso modo nelle celle del carcere femminile di Rebibbia, le detenute, abituate storicamente a varie forme di marginalizzazione in quanto donne, gettano vitalmente le basi per la costruzione di un nuovo modo di far comunità, impossibile in un universo di uomini che "si scannano appena chiusi, s’azzannano" (2016, 125-126).
Roberta si spinge fino a domandarsi se "facciamo bene noi donne ad affossare tutte le qualità che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi?" e continua, parlando della sessualità: "Non è meglio tenerselo questo minimo di repressione che diventare come loro [gli uomini]?" (2016, 125). Sarebbe sbagliato vedere in queste parole una forma di nostalgia per un antico modo di intendere la femminilità. La stessa Roberta è cosciente del rischio che sottendono le sue parole quando afferma che" il carcere a noi donne risveglia tutti i lati femminili che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire…" (2016, 125). Roberta si sta interrogando in queste pagine sull’essere donna: da un lato sa di essere presa, come altre giovani di quell’epoca, da un desiderio di liberazione che la spinge, forse anche brutalmente o ideologicamente, a sbarazzarsi di quei “lati femminili” che vengono associati ad una storia di subordinazione; dall’altro però, l’imitazione del modello maschile non le sembra costituire una valida alternativa. Non sembra neppure vedere una soluzione nel seppellimento di tutto il processo storico che ha portato alla costruzione di ciò che chiama “femminile”. I suoi interrogativi sono indice invece della ricerca di una, o di molteplici vie, che sappiano generare creativamente un nuovo modo di essere che non debba scegliere dicotomicamente tra una di queste due possibilità.
Un’altra detenuta, Ornella, altrove nel testo, aveva proposto una riflessione complementare a quella di Roberta, affermando di essersi sempre sentita lontana dai movimenti femministi per il loro "insistere sempre con toni luttuosi su eventi luttuosi". Aveva poi aggiunto: "Noi dovremmo essere apportatrici di gioia, di vita, non di morte" (2016, 97). La vis utopica, per non dire rivoluzionaria, delle donne viene individuata da Ornella, Roberta e dalla stessa Goliarda Sapienza, in una forza creativa e vitale, la stessa che riesce a trasformare un luogo di detenzione in uno spazio di gioiosa condivisione.
Ritroviamo in questa riflessione sull’essere donna, che attraversa in modo frammentario e aperto le pagine del racconto, una prerogativa dell’utopia a cui Goliarda Sapienza cerca di dare forma raccontando la sua esperienza a Rebibbia: un tentativo di fare dialogare vitalmente il presente con il passato per aprire dialetticamente l’universo dei possibili, evitando il rischio di una frattura mortifera che porterebbe ad un’involuzione reazionaria in un senso o ad un futurismo vuoto e privo di spessore storico nell’altro. Un’utopia vitale che sappia rispondere con gioia alle logiche mortifere e alienanti attive del mondo cosiddetto libero.
4. Poter essere insieme
Percorrendo le pagine de L’università di Rebibbia e seguendo il personaggio di Goliarda attraverso il suo viaggio iniziatico, il lettore impara progressivamente a conoscere le logiche irriducibilmente altre della sua microcomunità femminile. Si accorge allora a poco a poco che questo racconto non si limita a proporre il resoconto di un’esperienza biografica nel mondo del carcere. La scrittrice trasforma la sua scoperta esistenziale in una costruzione letteraria che le permette – e permette a noi testimoni – di prendere le distanze dalla nostra società che ci appare troppo spesso come un dato di fatto, impossibile da ripensare e da trasformare. Grazie alla carica disideologizzante propria dei racconti utopici, la Rebibbia di carta di Goliarda Sapienza propone al lettore un’esperienza mentale: quella di immaginare di "sfuggire dall’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto delle età" per "poter essere insieme cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità" (2016, 71-72). Solo in questo modo saltano le nostre compartimentazioni culturali e le gerarchie che imprigionano e assoggettano. Allora affiora la domanda, tipica dell’esperienza della lettura utopica: e se le categoria di norma e di a-normale fossero da invertire? E se le vere prigioni non fossero quelle che identifichiamo come tali? Punto di partenza per scardinare le logiche che ci imprigionano e immaginare un mondo altro da costruire sulle loro rovine.
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Note
Pour citer cette ressource :
Daria Bardellotto, Costruttrici di utopia. Imparare a fare comunità con L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mai 2024. Consulté le 21/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/costruttrici-di-utopia-l-universita-di-rebibbia-di-goliarda-sapienza