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Filologia dantesca e filologia digitale

Par Claudia Di Fonzo : Docteur, enseignante - Université de Trento et ENS de Lyon
Publié par Damien Prévost le 13/01/2012

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Quella dell'era digitale è la rivoluzione più importante dopo quella copernicana e industriale. Non si può non ripensare il sapere alla luce della nuova era e della nuova tecnologia. La riflessione che segue sottolinea come ci siano problemi di epistemologia della conoscenza e di ecdotica del testo che non mutano con il mutare delle tecnologie se non per quel che riguarda lo strumento diamesico.

Può la digitalizzazione dei testi sostituire la perizia con la quale l'editore esercita la recensio, la collatio e il giudizio? Bisogna ripercorrere la storia della filologia, nel caso precipuo di quella applicata alla Filologia dantesca, per valutare, così facendo, com'è cambiato il lavoro dell'editore di testi e rispondere quindi alla domanda. Si tratta di disegnare un breve profilo di storia dell'ecdotica, per la sola Filologia dantesca e ripensarne le aporie di metodo alla luce dell'evoluzione tecnologica.

Nulla ci è giunto di mano di Dante, né una nota, né una firma. L'ultimo che abbia avuto una qualche contezza degli autografi danteschi sembra sia stato Leonardo Bruni. Egli infatti «afferma (...) nella sua Vita di Dante, lui che mentre era Cancelliere della Repubblica fiorentina ebbe la ventura di consultare lettere autografe inviate a più riprese da Dante esule al popolo suo (...), che Dante, oltre ad essere quel grandissimo poeta e letterato che tutti sappiamo, (...) fu ancora scrittore perfetto, ed era la lettera sua magra e lunga e molto corretta, secondo io ho veduto in alcune epistole di sua mano propria scritte»[1]. Da allora in poi più di una volta si è favoleggiato d'aver ravvisato la grafia di Dante in questo o quel codice. Ma ancor oggi il codice, tra quelli conosciuti, che, per la grafia, più si avvicina alla descrizione del Bruni è il manoscritto del Fiore conservato nella biblioteca di Montpellier. Nell'attesa di un eventuale ritrovamento dell'autografo dantesco, ammesso che l'autografo possa considerarsi privo di errori e di varianti d'autore[2], non rimane che prendere coscienza dell'esistenza di molte e diverse Commedie, diverse e perfettibili vulgate di quella che, con diversificato coefficiente di erroneità, doveva essere la primitiva forma del testo, la cosiddetta intenctio auctoris. Ci basti ricordare che per quanto concerne la sola Commedia di Dante, tra l'intentio auctoris e il testo che leggiamo oggi (ed. Petrocchi) si interpongono più di ottocento manoscritti il cui numero sembra destinato a salire grazie al progetto di recensio (digitale) dei manoscritti di Dante allestito e diretto da Mario Trovato.

Più correttamente dovremmo dire che questi manoscritti costituiscono la tradizione che ci tramanda, cioè ci allontana e ci avvicina, il testo dell'alta Comedia (così la chiama Guido da Pisa nel suo commento), denominata divina dal Boccaccio, e definitivamente divina a partire dall'edizione veneziana del 1555, forse su suggestione dell'Ottimo commento che la definisce «poema sacro»[3].

La stessa cosa può dirsi delle altre opere di Dante sulle quali generazioni di editori si sono affaticati ponendosi quella serie di problemi propri all'ecdotica dei testi volgari e non: ora proponendo un restauro conservativo della grafia, ed è il caso della Vita Nuova di Guglielmo Gorni; ora esaminando non i soli manoscritti tardi, e mi riferisco al Convivio, ma anche la trasmissione indiretta del trattato quale si ricava dai commenti antichi alla Commedia, in specie dall'Ottimo Commento, ed è il caso di Franca Brambilla Ageno; ora recensendo la totalità dei codici conosciuti ed è il caso dell'Edizione Nazionale delle Rime per cura di Domenico De Robertis che ha deciso infine di ristabilire l'ordine delle rime fissato da Boccaccio; ora affrontando la complessa tradizione delle Epistole di Dante senza disdegnare la recensio degli errori introdotti dagli editori moderni[4] per giungere all'accertamento dell'esistenza di un copista casentinese per una parte di esse (cod. Vat. Pal. 1729)[5] ed è il caso dei contributi di Francesco Mazzoni[6].

Si trattò sempre e comunque di una questione di metodo, quella sulla quale si affaticarono fin dalla prima diffusione del testo della Commedia non pochi letterati a cominciare da Forese Donati (1330-31), Giovanni Boccaccio (1355-70) e Filippo Villani (c. 1390 LauSC). Essi risolsero il problema del testo della Commedia che copiavano attraverso una scelta di lezioni affidata al buon senso, al giudizio e in alcuni casi all'arbitrio del copista, primo editore, ma sempre al cospetto dello svariare della tradizione manoscritta.

Secondo quanto risulta dalle collazioni eseguite da Luca Martini sulla ben più tarda aldina del 1515 (Mart. dell'Ed. Nazionale di Petrocchi) dal perduto e antichissimo codice del 1331 copiato da Forese Donati su commissione di Giovanni Buonaccorsi, Forese aveva operato una scelta arbitraria tra le lezioni: «Ego autem ex diversis aliis [codici] respuendo que falsa et colligendo que vera vel sensui videbantur concinna, in hunc [libro] quam sobrius potui fideliter exemplando redegi»[7]. L'applicazione di questo criterio, che costituisce comunque già un tentativo di ricostruzione del testo, per l'assoluta arbitrarietà produsse a partire da Boccaccio e Villani una tradizione altamente contaminata.

Anche i commentatori antichi della Commedia ebbero contezza del problema ecdotico. Nella terza redazione del Comentum di Pietro Alighieri, in tre luoghi, è scrupolosamente registrata la varia lectio (Inferno I, 67, Purgatorio XXVIII, 141, Paradiso XXI, 15); in altri tre luoghi è genericamente segnalata la presenza di varianti (Inferno I, 27, Inferno XVI, 102, Paradiso XIII, 59). Nel caso della glossa a Inferno XXIV, 69 Pietro corregge la lezione corrente ad ira parea mosso preferendo ad ire parea mosso giudicata poi poziore da Barbi e da Petrocchi che la inserisce nell'edizione nazionale. Nelle sue Esposizioni sopra la 'Commedia', il Boccaccio, avendo collazionato diversi codici, segnala variati alternative per solo quattro luoghi del poema: in tre di essi sottolinea l'equipollenza delle varianti (Inferno I, 42, Inferno I, 85, Inferno IV, 68) e in un caso sostiene tra le lezioni alternative tu mi dai vanto/tu gli dai vanto di Inferno II, 25, la seconda sulla scorta dell'ipotesto di Eneide VI, 127-31. Benvenuto da Imola, dieci anni più tardi, mostrerà una matura coscienza del problema ecdotico. Di fronte all'attestazione plurima, anche perfettamente adiafora, Benvenuto reagisce infatti con la presunzione di corruzione del testo.

Trascurabile l'operazione dei Florentini Editores, gli Accademici della Crusca, che fu di poco momento sul piano del metodo. Non trascurabile quella di Bartolomeo Perazzini (Correctiones et adnotationes in Dantis Comoediam del 1775), il quale riprese il problema dell'edizione del poema con criteri di singolare modernità in polemica proprio con i criteri «eclettici», arbitrari e contraddittori, che condussero all'edizione della Crusca del 1595 e alle successive edizioni che pedissequamente la riprodussero. Così in un Corollarium III si difendeva: «Potiori est in iure antiqua lectio neglecta quam recentior, licet vulgatissima sit». Egli propone alcuni principi per stabilire la fedeltà, la diligenza e l'importanza dei diversi manoscritti, quali la lectio difficilior, la classificazione dei testi per famiglie di appartenenza, la considerazione dell'area di provenienza dei codici, e per tali principi, afferma il Folena, si può considerare un precursore della moderna filologia dantesca.

Più raffinati e più sicuri i metodi offerti dalla filologia ottocentesca straniera. Nel 1862 Karl Witte fornì la prima edizione critica fondata unicamente sulla tradizione manoscritta, con l'applicazione metodica della lectio difficilior. Dovendo scegliere tra i tre testimoni (LauSC, V, Rodd. Cae), tutti del secondo Trecento, Witte fondò il suo testo principalmente sul codice Villani (LauSC) e fu felice intuito. Oggi sappiamo che esso è antico tentativo di «edizione critica», risultato di un oculato conguaglio di tradizioni diverse entro cui si armonizzano le lezioni di a e di b (Petrocchi parla di «turbatio codicum»), certo preferibile alla tradizione rappresentata da V (e dalle edizioni Boccaccio) fonte principale della «vulgata» a stampa e cioè dell'Aldina del 1502 e delle due edizioni della Crusca del 1595 e del 1837.

Epigono del Witte, sul piano del metodo, E. Moore[8]. Egli fornì i risultati della collazione di oltre 250 codici, e indicò un cospicuo numero di varianti sufficienti a invalidare le conclusioni del predecessore. Egli fornì la sua edizione nel 1894 dopo aver chiarificato le questioni di metodo nel 1889 in Contributions to the Textual Criticism of the D. C...

Nel 1891 era uscito l'opuscolo Per il testo della Divina Commedia, di Michele Barbi che può considerarsi il fondatore della «nuova filologia» in quanto ne fissò i postulati, dopo aver a lungo meditato sui problemi d'ordine testuale. A lui Mazzoni attribuisce quelle che furono le caratteristiche della filologia borghiniana: «grande perizia della lingua antica (...), diligenza rarissima nel confronto dei codici (...), conoscenza delle cause per cui tanto guasto avevano sofferto i testi»[9]. Il Barbi, nel condurre le ricerche sui codici del poema, individuò 396 loci critici, sui quali collazionare il maggior numero di manoscritti. I loci di quello che venne denominato «canone» divennero in seguito 704.

Nel mentre era nata la Società Dantesca Italiana (1888) con la missione di condurre all'edizione nazionale delle opere di Dante. Giuseppe Vandelli, scolaro di Pio Rajna, fu investito della regale responsabilità e nel 1921 uscì la sua edizione del poema. Egli si pose a indagare, verso per verso, la genesi di tutte le lezioni vulgate, discutendone l'eziologia sul piano diplomatico e del senso, valutandone il peso per tramite di una pacata critica interna, promuovendo ad ora ad ora a testo quella lezione che giustificasse meglio la presenza e la formazione delle altre. Particolare cura impiegò il Vandelli nella ricostruzione del colorito linguistico del poema che fu liberato da quella patina latamente umanistica proveniente sia dal prevalere nell'edizione Witte del codice Villani, sia dal peso della tradizione vaticana confluita nell'aldina curata da Pietro Bembo e poi nell'edizione della Crusca sopra menzionata[10].

Fu poi la volta del non ineccepibile Mario Casella, la cui edizione critica fu pubblicata a Bologna nel 1924. Quanto alla lezione, Casella la stabiliva in base ad uno stemma codicum sommario, frutto di collazioni ristrette. Tale stemma distingueva due famiglie, comprendenti rispettivamente l'una l'aldina Martini col derivato Trivulziano 1080 e il Laurenziano di Santa Croce, o codice Villani; l'altra il gruppo del Cento, comprensivo di una sottosezione Strozziana, e il gruppo vaticano.

E se Casella ormai parlava di «stemma» indicando il grafo atto a designare le relazioni esistenti tra i codici, occorre far notare che la Filologia dantesca si era ormai appropriata dei metodi d'oltralpe. Pio Rajna, che per il poema aveva proposto l'analisi della genesi delle varianti e la conseguente distinzione in varianti primarie secondarie e via dicendo, aveva condotto l'edizione del De Vulgari (1896) con gli strumenti del Lachmann[11], codificando criteri che rimasero tali anche all'indomani della scoperta del codice berlinese[12].

Per il testo della Commedia si attese fino al recente 1966: Giorgio Petrocchi viene ad aggiungersi a questo secolare lavorio sul testo della Commedia con un suo particolarissimo contributo nei due campi del metodo di ricerca e della scelta delle lezioni. La novità del metodo consiste nel drastico sfoltimento dei testi conservati in base al criterio dell'«onnipresenza testuale» dell'antica tradizione, quella cioè precedente al Boccaccio «vale a dire della presenza della lezione buona in almeno uno o più testimoni fra i prescelti (anteriori al 1355), nonché del progressivo inquinamento verticale e trasversale della tradizione seriore»[13]. Le testimonianze si sono così ridotte a 27 cioè a dire all'antica vulgata.

Nella discussione sulle varianti indifferenti, questioni di grande interesse furono riproposte e risolte. Nel corso del suo lavoro Petrocchi individuò Mart e Triv quali discendenti di un antigrafo comune (in disaccordo con Vandelli) pur ammettendo la tarda contaminazione di Mart; egli mostrò non avere fondamento la distinzione della «sottosezione Strozziana» entro il così detto «gruppo del Cento» proposta dal Marchesini e dal Casella; così come dimostrò errate le ipotesi del Bertoni e del Casella circa l'apparentamento del Landiano con i cdd. strozziani e con quelli del Cento. Lo stemma codicum che Petrocchi ricavò dall'analisi dei singoli codici e dai loro rapporti presenta due sub-archetipi, uno fiorentino alfa, l'altro settentrionale beta, dai quali derivano cinque sezioni di codici facenti capo ciascuna a un manoscritto congetturale che la denomina.

Come fin qui dimostrato, le problematiche di Boccaccio copista di Dante, si sono presentate a Petrocchi editore moderno della Commedia con la variabile della evoluzione della coscienza dell'editore di testi per quanto riguarda metodo e strumenti. Ogni «editore» delle opere di Dante ebbe ed ha, ieri come oggi nell'era digitale, il problema di orientarsi entro la contraddittorietà dei dati ricavabili dalla tradizione manoscritta e di accertare la lezioni da promuovere a testo al cospetto dell'attestazione plurima in presenza e in assenza della lezione buona[14], il problema di scegliere la grafia da adottare per rappresentare fonemi che trascorrono con il trascorrere del tempo e forme, variabili con il variare della patina dialettale del copista di turno, sul cui grado di oscillazione non è dato di stabilire norme poiché, come diceva Barbi della Nuova filologia e come registra la New philology, ogni testo ha i suoi problemi.

Sono ormai maturi i tempi per una riflessione relativa a quella che si è voluta chiamare filologia elettronica. In uno dei contributi contenuto nel volume elettronico di atti del convegno dedicato alla Digital Philology and Medieval Texts, svoltosi ad Arezzo dal 19 al 21 gennaio 2006, si legge quanto segue: «edizioni digitali se ne sono realizzate ormai molte, sia pure spesso in forma incompleta o provvisoria, come consente la contigua aggiornabilità dei prodotti on line, mentre non sempre la riflessione teorica, e quindi l'impostazione degli ipertesti, è stata sorretta da una consapevolezza filologica adeguata»[15]. Da allora ad oggi la filologia elettronica, o digitale che dir si voglia, ha prodotto i suoi frutti anche nella filologia dantesca.

Interessante la riflessione proposta nel 2006 da Peter Robinson[16] relativamente alle edizioni elettroniche fatte e quelle da farsi a cui è seguito, nel 2009, il testo critico della Monarchia di Dante a cura della Shaw realizzato sulla base della recensio e del trattamento elettronico dei dati digitalizzati, per l'Edizione Nazionale delle opere di Dante.

Si tratta, scrive Gian Paolo Renello,  dell'«ultimo tassello di un programma di pubblicazioni iniziato dalla studiosa nel 1995», allorché produsse a stampa separatamente prima il testo latino, privo di apparato critico, con traduzione inglese a fronte e poi un'edizione con traduzione e commento, priva del testo latino[17].

Per dare una risposta alla domanda di partenza dalla quale siamo partiti chiedendoci se e come sia cambiato il lavoro dell'editore, se e in che modo la «filologia digitale» sia  una scienza a sé o semplicemente uno strumento tecnologico più potente di osservazione, recensione, e collazione dei dati raccolti, basterà aspettare di leggere la nota a cura di Diego Quaglioni all'edizione Shaw, digitale e cartacea, della Monarchia.

La nota, tra le altre virtù, avrà quella di aiutarci a capire come le problematiche relative all'edizione dei testi rimangano quelle di sempre, e come il vero vantaggio delle edizioni elettroniche sia quello dell'accesso diretto alla risorsa testuale manoscritta, per chi volesse controllare il lavoro dell'editore, come pure quello di una più agevole manipolazione dei dati raccolti, ma che tutto questo non sostituisce in nessun modo il lavoro dell'editore in fase di registrazione dei dati prima, di costruzione dello stemma poi e infine dell'esercizio dello iudicium. Non c'è «tetrafarmaco» utile al filologo, editore di testi, che si trova ad affrontare le aporie di sempre, con i dovuti aggiornamenti tecnologici[18].

Su quelli invece ci sarebbe da dire e da discutere ma bisognerebbe farlo non solo tra i letterati. Di tutto rilievo sotto questo profilo le esperienze messe in campo dalla Scuola Sant'Anna di Pisa (Gruppo di lavoro su LATEC) e dall'Università di Leipzig (Elisabeth Bur) che riguardano maggiormente la questione del trattamento dei dati e della loro formalizzazione grafica: su questa via bisognerebbe continuare, si tratta di una nuova linguistica del segno di saussuriana memoria dove il rapporto tra significante e significato è la risultante tra la formalizzazione digitale del significante e il significato tradizionale con tutti i suoi problemi[19].

Note

[1] Francesco Mazzoni, Un autografo di Dante, in «La Stampa» del 10/3/1965. Per il Bruni v. Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, raccolte dal Prof. Angelo Solerti, Milano, F. Vallardi,s.d., pp. 1-236.

[2] Bastino in merito le perplessità espresse da d'Arco Silvio Avalle espresse nella sua recensione a La Commedia secondo l'antica vulgata di Giorgio Petrocchi in «Strumenti Critici» I (1967), fasc. II, pp.199-202.

[3] Codice Vat. Barb. 4103, p. 360 a: codice afferente alla terza redazione dell'Ottimo commento.

[4] Francesco Mazzoni, Moderni errori di trascrizione nelle epistole dantesche conservate nello Zibaldone Laurenziano, in Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura, riscrittura. Attidel Seminario internazionale di Firenze - Certaldo (26-28 aprile 1996), a curadi M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, F. Cesati, 1998.

[5] Francesco Mazzoni, L'edizione delle opere latine minori, in «Atti del Convegno Internazionale di studi danteschi» (Ravenna, 10-12 settembre 1971), Ravenna, Longo, pp. 130-166.

[6] Per l'edizione delle prime cinque epistole cfr. Dante Alighieri, EpistoleI-V. Saggio di edizione critica a cura di F. Mazzoni, Milano, Cisalpino, 1967.

[7] Giuseppe Vandelli, Il più antico testo critico della Divina Commedia, in «Studi Danteschi» V (1922), pp. 41-98. Per questo lavoro il Vandelli copiò le collazioni dell'aldina del 1515 finita nel fondo del collezionista Moroli su una copia della Società Dantesca Italiana che servì anche al Petrocchi.

[8] John Lindon, Gli apporti del metododi Edward Moore nei primi decenni della Società Dantesca Italiana, in «La Società Dantesca Italiana 1888-1988». Convegno Internazionale. Firenze 24-26 novembre 1988, Palazzo Vecchio - Palazzo Medici Riccardi - Palagio dell'Arte della Lana, Milano - Napoli, Ricciardi, 1995, pp. 37-53.

[9] Francesco Mazzoni, Barbi Michele, voce dell'Enciclopedia Dantesca, Roma, 1970, vol. I, pp. 516-18, a p. 516.

[10] «È insomma al Vandelli che dobbiamo il franco recupero caldeggiato dal Rajna, dal Barbi e dal Parodi, della fisionomia arcaica e fiorentina che fu certamente propria (...) alla scrittura dantesca»: cito dal saggio introduttivo di F. Mazzoni al volume di Giuseppe Vandelli, Per il testo della «Divina Commedia», a cura di R. Abardo, Firenze, Le Lettere, 1989 («Quaderni degli studi danteschi» 5), pp. XI-XVII, a p. XVI.

[11] Fu il Lachmann a proporre un sistema basato sulla costituzione di uno stemma che in base agli errori comuni e lacune separative individuava le parentele trai codici, consentiva di raggrupparli in famiglie o insiemi di codici con errori e lacune comuni, risalendo a insiemi più ampi di codici che tra loro avevano errori comuni fino a ipotizzare sub archetipi per ciascuna famiglia e da ultimo un archetipo da cui discendono tutti i codici e che si definisce il luogo geometrico di tutti gli errori comuni alla tradizione. Il tutto per operare una riduzione dell'attestazione plurima delle lezioni basata sulla maggioranza statistica qualificata e quindi emendare ope codicum e solo dove ciò non fosse stato possibile ope ingenii. Necessari complementi di questo metodo in Italia fu il postulato del Pasquali recentiores non deteriores.

[12] Francesco Mazzoni, Pio Rajna dantista, in «Pio Rajna e le letterature neolatine», Atti del Convegno Internazionale di studi, Sondrio, 24-25 settembre 1983, a cura di R. Abardo, Firenze, Le Lettere, 1993,pp. 5-25

[13] Francesco Mazzoni, Un nuovo codice della «Commedia», in «Studi Danteschi» XXXVIII (1961), pp. 277-343, a p. 277.

[14] G. Contini, nel suo Breviario di ecdotica parlava di «diffrazione» in presenza e in assenza. Il termine, scrive Segre, risale al Contini ma il fenomeno fu notato dal Tobler: Cesare Segre, Due lezioni di ecdotica, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1991, p. 23).

[15] Cfr. http://www.infotext.unisi.it/upload/DIGIMED06/book/leonardi.pdf: Lino Leonardi, Filologia elettronica tra conservazione e ricostruzione, in Digital Philology and Medieval Texts (Conference, Arezzo 19-21 January 2006), p. 66.

[16] Cfr. http://www.infotext.unisi.it/upload/DIGIMED06/book/robinson.pdf: Peter Robinson, Eletronic editions which we have made and wich we want to make, in Digital Philology and Medieval Texts, cit. pp. 1-12.

[17] Gian Paolo Renello, L'edizione critica della Monarchia, in «Italianistica» 40/1 (gennaio/aprile 2011), pp. 141-179. Per le questioni cheineriscono l'edizione della Monarchia è imprescindibile il contributo determinante di Diego Quaglioni, Un nuovo testimone per l'edizione della«Monarchia» di Dante: il Ms. Add. 6891 della British Library (Y), in«Laboratoire italien» 11 (2011), in c.d.s.

[18] Diego Quaglioni, Un tetrafarmaco per il filologo: a proposito di alcuni esercizi di critica bartoliana,«Studi Medievali» 29/2 (1988), pp. 785-803.

[19] Cfr. http://www.guit.sssup.it/downloads/GuidaGuIT.pdf Claudio Beccari, Introduzione all'arte della composizione tipografica con LateX.

 

Pour citer cette ressource :

Claudia Di Fonzo, Filologia dantesca e filologia digitale, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), janvier 2012. Consulté le 20/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/langue/les-origines/filologia-dantesca-e-filologia-digitale