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Fare teatro oggi in Italia. Conversazione con Mario Perrotta

Par Florence Courriol : Docteure en études italiennes, Filippo Fonio : Docteur en littérature comparée, Enseignant-chercheur - Université Grenoble Alpes
Publié par Alison Carton-Kozak le 01/11/2020

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L’intervista a Mario Perrotta realizzata da Florence Courriol e Filippo Fonio nel corso dell’estate 2020 tocca diversi argomenti di primaria importanza inerenti la creazione teatrale, il plurilinguismo sulla scena italiana contemporanea, il teatro di narrazione e il mondo delle arti della scena nel panorama italiano odierno. La conversazione tocca argomenti correlati, quali il rapporto del drammaturgo con le lingue, le problematiche legate alla traduzione e, in una prospettiva più vasta, l’accoglienza francese riservata al teatro italiano.

Presentazione di Mario Perrotta

Mario Perrotta (Lecce, 1970) è fra i drammaturghi e gli interpreti più innovativi della scena teatrale italiana degli ultimi anni.
Laureato in Filosofia, fonda la Compagnia del Teatro dell’Argine a Bologna nei primi anni Novanta, associando già scrittura e messinscena. Si trasferisce in seguito a Roma. La sua Puglia natale, e più in generale il tema delle radici, sono da sempre al centro della sua ricerca teatrale. Ha collaborato, fra gli altri, con Francesco Guccini ed Elio De Capitani.
La sua azione nel mondo dello spettacolo è davvero a trecentosessanta gradi: ha diretto festival e collane editoriali, coordinato importanti progetti sul territorio (fra cui uno dedicato ad Antonio Ligabue), lavorato per la radio, rappresentato la cultura italiana all’estero in diverse occasioni. Da sempre ha un legame particolare con il mondo francofono, e fra l’altro ha messo in scena le storie degli immigrati italiani in Belgio.
Ha ricevuto importanti riconoscimenti per la sua carriera, fra cui il premio Hystrio nel 2006 e nel 2009 e il premio Ubu per il progetto su Ligabue nel 2016.
La ragione principale per cui abbiamo pensato a questa intervista è dovuta al costante rapporto che Perrotta intrattiene con la lingua, le lingue, i dialetti e il patrimonio che essi veicolano.

Intervista

Florence Courriol e Filippo Fonio: Di solito il tuo teatro viene considerato del “teatro di narrazione”. Che cos’è per te il teatro di narrazione? Come utilizzi, nella tua declinazione personale, questo dispositivo che ormai è un po’ il marchio di fabbrica del teatro italiano, specie all’estero? Per esempio, ci pare che il tuo teatro si caratterizzi per un tratto che lo distingue dal resto del teatro di narrazione, che consiste nel contaminare le costanti di questo genere con la letteratura molto classica: Omero, Aristofane...

Mario Perrotta: Questa è una domanda complessa, cioè, la risposta che devo dare è complessa e tradisce anche un po’ le aspettative. Il teatro di narrazione in Italia è stata una categoria inventata dai giornalisti, dai critici di teatro per mettere in una casella qualcosa che non riconoscevano. In realtà, probabilmente il teatro di narrazione non esiste... esistono i narratori, i narratori somigliano alle nonne davanti al focolare, le nonne, diciamo, di novecentesca memoria, davanti al focolare, che ti raccontavano le storie del paese. Questo sarebbe il narratore nel suo senso più puro. Erano girovaghi, rigattieri, che con i carri sui quali raccoglievano il materiale che portavano via da casa della gente arrivavano in piazza, si fermavano e sul carro raccontavano storie, più o meno epiche: è il “cuntastorie” siciliano, che tirava giù la tela con le vignette che rappresentavano i vari momenti della storia dei paladini, ed era una trasmissione orale che avveniva di quei racconti. Quella è la matrice, diciamo, più antica. Anche Dario Fo fa riferimento esattamente a questo tipo di modo di raccontare, lo diceva lui stesso, che nel paese dove abitava arrivava quest’uomo sul carro, si fermava in piazza e raccontava. Questo sarebbe il narrare. Però, dal mio punto di vista non c’è alcuna differenza tra ciò che faccio io e ciò che faceva, per riferirsi alla Francia, Michel Piccoli in scena: siamo attori che danno vita a personaggi, io personalmente non vado in scena da Mario Perrotta, e racconto qualcosa che ha a che fare con la storia d’Italia, col recente passato italiano, quasi da indagatore della materia che svela novità su un argomento storico su cui sembrava si fosse detto tutto. Io faccio l’attore, cioè la prerogativa principale del mio teatro e di molti cosiddetti narratori è proprio quella teatrale. La cifra non è di persone che si sostituiscono ai giornalisti, ai saggisti, agli storici, e raccontano verità che non conoscevamo, noi semplicemente ne facciamo teatro, che è tutt’altra cosa. C’è stata molta confusione anche in Italia su questo fronte, per cui a un certo punto i cosiddetti narratori sembravano autorizzati a parlare di qualunque cosa, e venivano interrogati su qualunque cosa, per cui, non faccio nomi, ma improvvisamente c’era gente...

 

FC e FF: Ne hai già fatto uno prima, Dario Fo...

MP: Dario Fo è, diciamo, il padre nobile di tutti noi, così viene detto, però non veniva ascritto ai narratori. Poi le generazioni dei grandi narratori italiani sono state, la prima, Marco Baliani, Laura Curino e Marco Paolini, poi dopo siamo arrivati Ascanio Celestini, io e Davide Enia, Giuliana Musso... e tanti altri a seguire. Ma, ripeto, alcuni di noi, improvvisamente travolti dal successo e dalle richieste dei giornalisti, si sono trovati a esprimere opinioni uguali a quelle dell’uomo della strada sulla qualunque, tipo sulla questione mediorientale. Cosa ne può sapere di più di un uomo della strada un uomo di teatro sulla questione mediorientale, a meno che non se ne sia occupato a fondo per una qualche ragione? Questo è successo spessissimo. Diciamo che ci sono alcuni di noi che si sono ritrovati improvvisamente ad essere delle sorte di santoni, delle icone venerate e venerabili che potevano esprimere giudizi su qualunque cosa. Questo è profondamente sbagliato: siamo uomini di teatro, quindi bugiardi per struttura, per natura... tutta la nostra bellezza si basa sulla nostra finzione. Questo vorrei chiarirlo perché si sono create schiere di epigoni, ragazzi, anche adesso, ventenni che, sul nostro solco, prendono qualunque sfiga della storia italiana, qualunque dramma ancora non indagato, lo mettono in scena, lo raccontano, e pensano che questo è teatro. Non è vero... equazione sbagliata: tu fai teatro se sai stare in scena. Quindi disconosco proprio il contenitore “narrazione”, semplicemente, a volte, sono personaggi che stanno in scena da soli. E nel mio caso in particolare, hanno sempre un interlocutore: se penso ai lavori sull’emigrazione italiana, in Belgio e in Svizzera, i due spettacoli che mi hanno dato il successo, il mio interlocutore, l’interlocutore dei miei personaggi, un postino ottantenne e un uomo quarantenne che ricorda di quando era bambino... il loro interlocutore ero io rivolto dall’altra parte. Loro parlano con me che ero nella posizione del pubblico. Se penso al mio interlocutore di Odissea, è il pubblico stesso che io interpello appena entro, entro e dico “Buonasera, come state?” “Signora, mi sono messo il vestito buono perché stasera do sfogo a tutta la mia storia”. Tra l’altro, in questo momento sono in casa di uno dei due musicisti di Odissea e stiamo parlando di un progetto nuovo, un grandissimo musicista, è stato per anni con Fabrizio De André e con Fossati. E io entro, saluto i musicisti, dico “Maestri, buonasera” e poi mi rivolgo alle signore, chiedo loro “cosa vi viene in mente quando guardate il mare?” Il mio interlocutore sono loro, ma perché sto facendo un personaggio che fa il saltimbanco in piazza, che mette la sua storia tragica, drammatica, sofferta, la butta in pasto al popolo che assedia la madre da sempre, sarebbero i Proci trasportati al Novecento... e il paese che assedia la vedova bianca mormorando sul fatto che sicuramente si porterà qualche amante in casa. Se penso al mio interlocutore di Milite ignoto, che voi avete tradotto, è lui stesso e le sue cinquanta personalità che ha introiettato in quel momento in cui c’è stato il botto, e lui ha buttato dentro di sé tutti i suoi compagni che si è rivisto intorno morti. Se vogliamo metterla da un punto di vista freudiano, ha visto i compagni morti, ha avuto bisogno di incarnarli per non sentirsi perso, perduto, smarrito, non sapeva più chi era e allora ha assunto tutte le personalità degli altri. E queste personalità parlano fra di loro, è un dialogo continuo tra loro.

Quindi, in realtà, non faccio altro che fare quello che hanno fatto tutti gli uomini di teatro nella storia: cerco protagonisti, antagonisti, e ho bisogno di entrare in conflitto con qualcuno per far sì che si dipani la mia storia, la storia che voglio raccontare. Per cui, provocatoriamente anche un po’, dico, la “narrazione” è una categoria. Non sapevano dove metterci, eravamo una novità... e in questo senso rispondo alla domanda “che cos’è che caratterizza questa cosa chiamata narrazione, e perché è così diversa da ciò che accade negli altri paesi...” Infatti è una cosa tutta italiana. Eravamo diversi perché... come argomenti, intanto perché erano vent’anni che non si faceva drammaturgia in Italia, venti, trent’anni che non c’erano scrittori di teatro. Gli ultimi risalgono agli anni Sessanta, inizio degli anni Settanta, le ultime drammaturgie... poi c’è stato un silenzio nella drammaturgia in Italia, poi siamo venuti fuori noi, dalla fine degli anni Ottanta fino agli inizi degli anni Duemila e abbiamo incominciato a prendere in considerazione la nostra storia recente, che in qualche maniera andava rivista con gli occhi di uomini di teatro, senza la pretesa di fare gli storici. E questa cosa qui non sapevano dove metterla, invece che dire “ah, finalmente si ritorna a fare drammaturgia in Italia e guarda caso il drammaturgo è la stessa persona che va in scena”. Non sapevano come incasellarci e si sono inventati questa cosa della narrazione. Poi, per tornare al narratore come l’ho descritto all’inizio, qualcuno ci si avvicina di più. Paolini, per dirne uno, sale continuamente in scena da se stesso e ci parla di episodi importanti della nostra storia. C’era l’aspetto civile che ci accomunava: il nostro era, ed è un teatro impegnato, ma quale teatro non è impegnato civilmente quando la struttura nasce dall’urgenza del momento? Molière era impegnato civilmente eccome, talmente impegnato a fustigare i costumi dell’epoca di Re Sole che l’hanno ammazzato di botte fuori dal teatro, l’hanno mandato in ospedale, uno dei signorotti che si era riconosciuto nei ritratti che Célimène fa nel Misantropo: era uno dei signori di corte, l’ha fatto aspettare da due scagnozzi e l’hanno ammazzato di botte. E che stava facendo Molière se non disegnare il malcostume dell’epoca di Re Sole? Quindi qualunque Aristofane... uno che io ho preso in considerazione... è stato arrestato cinque volte, perché andava in scena e diceva “Signori, lì, in prima fila, c’è seduto il capo del governo, Leone, ed è...” E poi, in classico stile aristofanesco, cominciava “è una merda, è un coglione, ecc.”, cioè gliene diceva di tutti i colori, in faccia. Ed è stato arrestato per ben cinque volte. Se non è quello impegno civile, che cos’è? Quindi, io la vedo così.

 

FC e FF: Ci sono una serie di tematiche che caratterizzano il tuo teatro con una certa costanza: la guerra (e in particolare la Prima guerra mondiale) e l’emigrazione, entrambe trattate con delle componenti linguistiche molto interessanti... ci spieghi che cosa ti ha affascinato in queste tematiche? E quali sono state le letture più importanti di cui ti sei servito per costruire i testi, e soprattutto per Milite ignoto – quindicidiciotto?

MP: Queste tematiche ricorrono nelle mie drammaturgie semplicemente perché quella è la matrice di tutte le mie scritture, se in mezzo a questi due capitoli, “emigrazione” e “guerra”, ci metti la trilogia sul pittore Antonio Ligabue, che poi è la trilogia che ha ricevuto più consensi, i premi più importanti... li ho vinti con quella trilogia... Ciò che accomuna tutte le mie scritture è un interesse istintivo per i diseredati. Quello che mi interessa, ancora una volta, non è gettare nuova luce su un pezzo di storia italiana... quello è il compito degli storici, dei saggisti. Io faccio teatro. Mi interessano i diseredati. E mi interessano i diseredati della storia perché in quel momento in cui scrivo fanno cortocircuito con la mia vita personale. Faccio due esempi per capirci. L’emigrazione italiana, ne scrivo perché io avevo deciso di andare via dalla mia terra per studiare e scappavo in maniera vertiginosa dalla provincia leccese per sentirmi più metropolitano, e a furia di scappare sono arrivato fino alla metropoli più metropoli, insieme a Milano: sono arrivato a Roma. Anche a Roma stavo male, stavo storto, volevo andar via. E allora ho capito che il problema non era il luogo, il problema ero io, ero io che scappavo dal mio provincialismo, e invece ho capito che ci dovevo tornare, tornare a casa non più fisicamente ma con l’anima. E in quel momento a casa mia tutta la mia gente diceva “è colpa degli albanesi”. Improvvisamente, in Salento, tutti i drammi erano colpa degli albanesi, ma io avevo lasciato quella terra prima che il muro di Berlino cadesse, e i problemi erano identici. E allora mi sono ricordato di tutti gli emigranti che avevo conosciuto, nei viaggi fatti da ragazzo e bambino, sui treni che mi portavano a Bergamo per andare a trovare mio padre, e siccome io mi sentivo emigrante ancora sputato fuori da casa sua, ho fatto cortocircuito con questa mia urgenza e ho deciso di raccontare la mia terra prima di tutto per me, perché ci potessi tornare io raccontandola, e anche poi per una motivazione civile, cioè dire ai salentini, ai meridionali e in generale agli italiani, “ricordiamoci che siamo stati uguali alle persone che oggi arrivano sulle nostre coste”. Ma questa seconda motivazione era secondaria a quella principale, che era tutta personale. Scrivo di Ligabue, perché? Perché in quegli anni lì combattevo da tempo, a nervi scoperti, con il tema della diversità, perché stavo aspettando da quattro anni di diventare padre, perché io e mia moglie stavamo facendo tutto il percorso eterno e infinito di adozione internazionale. E avevamo solo una certezza: che nostro figlio o nostra figlia sarebbe arrivato, arrivata dal centro Africa, perché avevamo a che fare con un ente che aveva relazioni solo con paesi del centro Africa. Quindi sarebbe stato inequivocabilmente color cioccolato, ed è una diversità che per noi è un valore, e per qualcuno qui in Italia è un problema. E quindi ci chiedevamo se stavamo facendo un passo corretto, nei confronti di quel bambino o di quella bambina. Questa fragilità rispetto all’argomento “diversità” ha incontrato Antonio Ligabue perché sono andato nel suo paese a fare uno spettacolo e mi sono ritrovato davanti al suo busto e sono saltato per aria perché qualunque cinquantenne italiano ricorda quello sceneggiato che da bambini ha terrorizzato tutti! La sera stessa, dopo lo spettacolo, vado a cena col sindaco e gli dico “devo fare un progetto su Ligabue, ci devo lavorare per tre anni”. Lui mi dice, “ma perché ?”, e io, “non lo so”. L’ho capito dopo, che la diversità di Ligabue, che era diverso perché era considerato pazzo, in realtà non lo era, aveva semplicemente un disagio mentale che oggi verrebbe curato ma andando dallo psicanalista una volta alla settimana... era considerato diverso perché parlava col mondo attraverso le immagini più che con le parole, attraverso i suoi dipinti, era considerato diverso perché sbattuto dalla Svizzera tedesca nella pianura padana, non conosceva una sola parola d’italiano e non poteva comunicare con gli altri, e si è recluso da solo per trent’anni in un bosco e ha vissuto di animali morti, di erbe, di furti, di frutta... Tutte queste diversità facevano cortocircuito con l’argomento su cui io stavo da anni ragionando insieme a Paola. E scrivere di Ligabue è stato buttare fuori tutto questo. Ecco come nascono le mie drammaturgie. Per questo dico ancora una volta che l’impegno civile è una conseguenza di come uno vive, ragiona, nel mondo. Ma la scrittura teatrale, se non nasce da altre urgenze, non può nascere solo per impegno civile. Neanche Brecht ha lasciato qualcosa di importante quando ha scritto solo per impegno civile. È interessante Brecht quando scrive per altre ragioni. E anche Dario Fo, non è interessante quando scrive solo perché deve fare teatro civile. È interessante quando c’è qualcosa che lo coinvolge di più.


Da uno degli spettacoli su Antonio Ligabue
© Mario Perrotta, Luigi Burroni (cessione diritti per la riproduzione accordata da Mario Perrotta)

 

Per arrivare a Milite ignoto, stavo proseguendo il mio percorso sulla lingua italiana, sulle lingue italiane, e la guerra era un’occasione perfetta per portare a casa una sperimentazione che da anni mi girava in testa: è questa la ragione principale di quella drammaturgia. Come stanno tutti i dialetti italiani messi insieme, che lingua formano? Come stanno i pensieri degli italiani accozzati uno con l’altro, quelli di un siciliano con quelli di un veneto? Sono modi di pensare lontanissimi tra loro. Non so se in Francia c’è questa diversità faunistica, diciamo, questa biodiversità. In Italia è una cosa pazzesca, se tu passi dal paese dove sono adesso a quello a venti chilometri, hanno un accento già diverso, mangiano cose diverse, e ti dicono che il formaggio fatto nel paese lì accanto non è assolutamente da mangiare, che il loro è il migliore, e tu puoi fare un percorso gastronomico, enologico, linguistico, che può durare vent’anni in Italia, e non riesci a esaurire tutto... Perché pensiamo in maniera diversa. I nostri dialetti esprimono un modo di pensare diverso. E allora, da anni mi chiedevo che cosa sarebbe successo, forse perché da anni e da sempre mi interrogo su quando diventeremo veramente un paese. E allora l’aspetto linguistico è importante. E così la guerra mi dava l’occasione perfetta per tentare questa sperimentazione forte, anche rischiosa teatralmente, perché quella cosa lì in trincea è successa davvero: si sono trovati soldati siciliani accanto a soldati piemontesi, veneti, toscani, che non si capivano. Uno dei drammi che ha caratterizzato la guerra sul fronte italiano, la Prima guerra mondiale, è stato il fatto che molti morivano perché non capivano gli ordini che gli venivano dati. Lo dicono i linguisti, la Prima guerra mondiale fu il primo momento in cui venne abbozzata una lingua nazionale, per necessità pratica di capirsi. Allora ho voluto provare ad immaginare questa lingua. Poi sono andato a guardare, per quanto riguarda le fonti, nei diari di questi soldati... quelle sono state le fonti principali. I loro diari, le loro lettere. E la cosa molto interessante è stata guardare i diari di chi è sopravvissuto alla guerra, cominciare a leggere le lettere scritte nel ’15 fino ad arrivare a quelle del ’18, e vedere che la loro lingua cambiava: partivano, se erano napoletani, scrivendo nel migliore dei casi in un italiano napoletano, se non proprio in napoletano. Piano piano i loro diari s’imbastardivano, si riempivano di termini che sentivano dai loro commilitoni veneti, piemontesi, romani, leccesi... per cui improvvisamente, nel diario di un napoletano, trovavi “quel cojòn”... e tu dici, “ma come, quel cojòn, è veneto, o al massimo friulano. Cosa c’entra?”

Quindi nel diario di un napoletano leggi: “Mammà, chell era un cojòn”. “Chell era” è napoletano, ma come è possibile il resto?! ...perché probabilmente il primo ad aver chiamato “coglione” il sergente è stato un veneto, e da allora, quando passava il sergente, tutti dicevano, “oh, el cojòn, el cojòn”. E quella parola “cojòn” è entrata nel diario del soldato, a furia di sentirla. Questa cosa la trovavo molto affascinante. E mi serviva per portare a casa questo esperimento che da anni mi girava per la testa. Ed è così che è nato il mio lavoro sulla Prima guerra. Non perché c’erano i cent’anni dell’evento, non per la ricorrenza. Qualcuno disonestamente ha scritto che Mario Perrotta ha approfittato del centenario della guerra, e io sullo stesso giornale gli ho dovuto rispondere pubblicamente che forse non si era accorto che prima di quello spettacolo avevo già vinto tutto quello che potevo vincere in teatro, quindi non avevo certo bisogno di fare uno spettacolo per approfittare di qualcosa. Ormai sono un oggetto teatrale riconoscibile. In Italia non devo approfittare delle ricorrenze storiche!

Da Prima guerra – quattordicidiciotto
© Mario Perrotta, Luigi Burroni (cessione diritti per la riproduzione accordata da Mario Perrotta)

 

FC e FF: Restiamo ancora un pochino sulla questione della tua lingua. Una delle caratteristiche del tuo teatro è la componente di plurilinguismo, che è sistematicamente presente. In quanto attore ti sei probabilmente dovuto formare anche al plurilinguismo. Si può dunque parlare di uno studio, di un apprendimento per ciò che di solito si considera una serie di caratteristiche linguistiche spontanee, che si utilizzano in famiglia? E dal punto di vista autobiografico, quale è stata o quali sono state le prime lingue che hai sentito e parlato?

Il mio dialetto è il dialetto leccese, poi a Bologna ho imparato il dialetto emiliano, sono andato a studiare a Bologna e ci ho vissuto per vent’anni, prima di andare a Roma. Ho una moglie romana, e quindi il dialetto romanesco gira. Poi ho una fortuna di natura, non ho nessun merito. Dovunque io vada, dopo una settimana parlo come quelli del posto. La cosa incredibile è che ho avuto un conflitto violentissimo con tutti i miei insegnanti di inglese... e quindi io, dopo anni di inglese, di inglese non so una parola, perché lo rifiuto. Sono andato in Francia, all’Università della Sorbonne Nouvelle e in Borgogna, perché i docenti mi avevano invitato a parlare appunto del mio teatro... e stavo lì da una settimana, e che voi ci crediate o no – ma tanto potete chiederlo ai docenti – io ho raccontato il mio teatro davanti agli universitari francesi in francese, e non l’ho mai studiato. Mi è bastato stare una settimana lì e capire quali sono le variazioni rispetto all’italiano... a volte facevo tipo Totò e Peppino, azzardavo una parola e ci beccavo... però la costruzione della frase, e soprattutto i tempi verbali, ti venivano naturalmente. Quindi a un certo punto mi sono detto: “Ma questa cosa è veramente assurda.” E la mia è una fortuna di natura. Non è un merito.

Per cui, per me i suoni degli altri dialetti erano estremamente facili, anche perché ho sentito per tutta la mia vita fin da bambino tutto il teatro napoletano di Eduardo, il teatro di Gilberto Govi, il teatro veneto e veneziano di Goldoni, il teatro siciliano di Pirandello... Bene o male mi sono proprio nutrito di dialetti tutta la vita... La cosa difficile, veramente difficile, è stata non fare l’imitazione di quella cadenza, ma cercare di pensare come un veneto, come un catanese, che pensa diversamente da un palermitano (e guai a dire che sono la stessa cosa), e via di seguito. Quella è stata la parte più dura, perché in una frase dove si rincorrono quattro dialetti per completare la frase, tu devi continuamente fare uno switch di pensiero, non di lingua, altrimenti saresti solo un bravo imitatore, un comico. Invece il problema è fare uno switch mentale, e passare dal modo di ragionare del bolognese a quello del monzese a quello del cuneese. Però, devo dire la verità, all’inizio, dopo tre giorni di prove, ho detto a Paola mia moglie, che è un’attrice molto più brava di me (non scrive, ma come attrice è molto più brava di me), e segue sempre le mie prove ed è lei che mi dice “qua taglia, questo non funziona, rifai”... Io mi fido solo di lei. Guardandola le ho detto: “Paola, io non ce la posso fare, non ce la posso fare, è troppo complicato e difficile, lasciamo stare.” “Ma no, prova, dai, vai avanti.” Ha insistito lei perché io stavo per mollare. Era veramente drammatico questo costringersi continuamente a switchare. Poi, come tutti i personaggi, ti si cala addosso, ed entra nelle mani, entra nelle braccia, entra nel corpo e comincia a vivere da solo. E quando è arrivato a completezza è proprio un’esperienza profonda... non so, è diverso dagli altri personaggi. È entrare in un tunnel e uscirne a fine spettacolo senza concedersi niente, nessuna domanda, perché se ti fermi un attimo è finita. La preparazione è stata un gioco al massacro con me stesso.

 

FC e FF: Questa scelta del plurilinguismo comporta anche un rapporto particolare rispetto alla ricezione degli spettacoli. Vorremmo saperne di più dell’accoglienza riservata allo spettacolo Milite ignoto – quindicidiciotto: come è stata fatta la scelta delle città e dei luoghi per le rappresentazioni in Italia? E hai sentito delle differenze da un pubblico all’altro in relazione alla materia plurilingue del testo?

MP: Ma, diciamo che differenze non ce ne sono, perché reagiscono tutti allo stesso modo, i primi tre minuti sono tutti spiazzati, e dicono, “ma sono io che non sto capendo, o che cosa?” Tanto è vero che io ho scelto, avendo capito che c’era questa difficoltà iniziale... ho scelto, nei primi tre minuti, o almeno nel primo minuto, minuto e mezzo, di non dire quasi niente. E quindi c’è questo “Tu, te, tie”... e poi, prima o poi passo da casa tua, e tu senti la tua lingua, e dici “Ah, aspetta, questo lo riconosco.” “Ti te recordi, te, amarcord”... Lascio il tempo alla gente di capire che ci sono tante voci, poi devono capire che stanno nella stessa persona. Dopo cinque minuti sono già tutti dentro, dovunque io lo faccia, che sia ad Aosta, a Torino o a Trapani, non cambia niente, entrano nel gioco, e se anche sfugge una parola, è un po’ come ascoltare il grammelot di Dario Fo, no? Non conta esattamente il termine, è il contesto che ti dice di cosa sto parlando e come ne sto parlando, ma tanto tra mezza frase mi riavvicino geograficamente a casa tua e tu capisci meglio. E nei passaggi più difficili tendo a rallentare. Per cui devo dire che l’accoglienza è stata sempre... io lo so che sembra anche un grande esercizio di stile. Quindi la gente ti dice:“Ma come fai?” Restano stupiti da questa cosa. Ma io vorrei che passasse di più il dramma di quella storia. Quindi per esempio non concedo mai niente agli applausi... nel corso dello spettacolo c’è la tentazione fortissima di applaudire, e io riparto subito per evitare quell’applauso, perché non voglio concedere niente all’esercizio da circo, voglio che la gente sia nella storia. Però poi, anche lì, il risultato è nelle centinaia di repliche fatte, i premi, i giornalisti che hanno scritto delle cose addirittura imbarazzanti...

Tra l’altro, Milite ignoto nasce una settimana dopo che io chiudevo la trilogia su Ligabue con un progetto con duecento artisti sulle rive del Po... per dire, avevo la prima viola dei Berliner in mezzo all’acqua che suonava di notte, e tutti pensavano: “Fa Milite ignoto, anche in un festival molto importante, e lo fa per presenza, per dire che c’è, per aiutare il festival, perché è amico con i direttori... ma sarà anche lì un omaggio alla guerra, ma una cosetta così, organizzata all’ultimo momento...” E invece hanno scritto poi delle cose veramente imbarazzanti sulla forza dello spettacolo. Ma ancora una volta non credo che sia né l’argomento, che è civile, né la questione linguistica. Credo che sia l’aver raccontato, con tutte le armi che avevo, da attore, l’odissea di milioni di diseredati di cui nessuno ci aveva mai detto nulla. Noi sappiamo che la guerra l’abbiamo vinta. Sappiamo che abbiamo vinto la Prima guerra mondiale. A parte che io ho sempre pensato che le guerre non si vincano, che non ci sono vincitori in una guerra. Ma a parte questo, non ci hanno mai raccontato a quale prezzo... Noi abbiamo ancora l’Italia piena di piazze e di strade intestate al generale Cadorna, che è stato un assassino... andrebbero cancellate, come dico alla fine dello spettacolo. “Potrete parlare solo quando avrete cancellato quelle targhe.” Ecco, credo che la forza dello spettacolo, ancora una volta, sia stata aver dato voce, da attore... perché io so fare una cosa nella vita, ormai a cinquant’anni non posso neanche fare il falso modesto e dire “Ma, non lo so”... no, so che so fare teatro. E quindi ho usato tutta la forza che potevo avere nello scrivere e nell’interpretare per dare vita a dei diseredati, quella è la grande forza dello spettacolo.

 

FC e FF: Ancora una curiosità su Milite ignoto – quindicidiciotto: il testo resta stabile, oppure cambia da una replica all’altra?

No, non ho mai cambiato una virgola dei miei spettacoli, eccetto quando capivo che creava incomprensione. E quindi improvvisavo qualcosa sul momento, che però appena tornavo in camerino veniva codificato e diventava parte del testo. Perché la bellezza del teatro, dal mio punto di vista, è proprio questa: che tu rifai tutte le sere la stessa cosa come se fosse la prima volta. È un po’... io lo dico spesso, che il teatro è erotismo, che avviene tra due soggetti, uno sul palcoscenico e uno giù, è un con-muoversi. Un movimento di corpi, di anime. Anche quando hai un rapporto erotico a letto, fai la stessa cosa di sempre ma ogni volta è come se fosse la prima volta, a patto che tu sia in ascolto dell’altro, dell’altra. Se stai in ascolto, è come se fosse la prima volta. In teatro faccio sempre lo stesso testo, ma siccome cambia il pubblico, e io ascolto come respira, il mio partner che conosco, ecco... è lì che il rapporto erotico è come se fosse la prima volta.

 

FC e FF: In Milite ignoto, che senso ha questo “silenzio” finale dopo tutte queste parole? Leggendo e ascoltando il tuo testo emergono come delle parole chiave che questo silenzio blocca – sei d’accordo?

MP: È quel silenzio che il personaggio reclama fino al momento in cui non toglierete quelle targhe. Fino ad allora, fine delle celebrazioni, delle commemorazioni, delle parate militari, delle esaltazioni di vittoria della guerra. Quando avrete tolto quelle targhe e ci avrete messo quelle di chi è stato mandato letteralmente al massacro, allora possiamo riparlarne. Fino ad allora, “silenzio”. È proprio questo il silenzio. Tutto ciò che il personaggio dice prima, durante lo spettacolo, è per dire “se questa è stata la nostra storia, allora silenzio”. Di shakespeariana memoria. Di amletiana memoria.

 

FC e FF: Un’ultima domanda su Milite ignoto. Sai che da qualche anno stiamo lavorando a una traduzione collettiva di Milite ignoto – quindicidiciotto, e ci capita spesso di maledire la complessità linguistica del testo, come immagini... cosa consigli a chi vuole tradurre i tuoi testi? Qual è secondo te l’approccio che un traduttore dovrebbe adottare rispetto a questo tuo testo? E più in generale qual è il tuo rapporto rispetto alla traduzione dei tuoi testi?

MP: Allora, mi metto intanto nei panni del traduttore e non lo biasimo se si lamenta. Mi è successo anche per altri testi. Comprendo che la mia scrittura, ad avvalorare quanto ho detto fino ad ora, è una scrittura funzionale all’attore, quindi piena di mancanze... non è una scrittura lineare, da drammaturgo che in studio elabora e pensa un testo per chi lo dovrà poi recitare... Io scrivo dopo aver detto, sono lì che sto recitando, mi parte un filo narrativo e improvviso le battute, mi alzo dalla scrivania, faccio cinque minuti di monologo e poi mi affretto a cercare di fermarlo riscrivendolo. Poi mi son fatto più furbo, ultimamente mi registro con il cellulare perché sennò perdo le parti migliori delle cose che ho improvvisato. Poi, improvvisare prevede appunto già una regia, prevede un’interpretazione, per cui so che i miei testi alla lettura possono risultare pieni di carenze, proprio narrative, di salti che poi però vengono risarciti dall’attore. Quindi rispetto a questo esperimento, in particolare per Milite ignoto, è che se ci fosse una vaga varietà linguistica dialettale anche in Francia, la adotterei, se fosse possibile, perché racconta la polifonia di voci, di voci di trincea, quindi se un francese della Borgogna parla in maniera diversa da un normanno, questo lo userei, però non so quanta varietà c’è, non conosco abbastanza il francese e le sue variazioni regionali per dirlo... non so se c’è quella varietà che c’è in Italia. Però se fosse possibile, adotterei questa varietà.

Come invece mi rapporto alla traduzione dei miei testi: tendenzialmente, se una traduzione deve essere rappresentata, pretendo di essere partecipe... nel senso che i miei spettacoli tradotti in francese, in inglese e in tedesco – purtroppo di tedesco veramente non capisco nulla, quindi prendo qualche amico che lo conosce bene e gli chiedo se le intenzioni mie in italiano sono rispettate in quella traduzione. In inglese e in francese riesco a capire... poi, con l’inglese piano piano il mio rapporto l’ho recuperato un po’ nel tempo, ma parlo meglio il francese che l’inglese, è una cosa stranissima, però lo capisco e riesco a farmi capire dal traduttore, se è di madrelingua, riesco a farmi capire su che cosa voglio. Per esempio, per la traduzione dei miei spettacoli sull’emigrazione italiana, poiché sono stati tradotti da un belga, è stato più facile rendere quella lingua sporca che io usavo, che era il mio dialetto leccese commisto all’italiano, usando le declinazioni del Belgio rispetto alla lingua francese pura. Come in inglese, per rendere un personaggio come Antonio Ligabue (questo mio spettacolo è stato tradotto in tre lingue) abbiamo cercato di usare gli errori classici che fanno gli italiani quando parlano inglese, per esempio mettere l’aggettivo dopo il sostantivo: invece che “a wonderful world”, “a world wonderful”, che uno capisce lo stesso, ma è un erroraccio che ti dà segno di un inglese parlato molto male.

Non è per una questione di ipercontrollo che faccio questo, è perché ho paura che si perda il senso della drammaturgia, se non viene fatto in un certo modo. Se invece viene tradotto a fini didattici, universitari, di studio, allora sono molto più flessibile. Per esempio, adesso stanno traducendo alcuni miei testi in spagnolo per fini universitari. E mi fido di più. Se invece vengono messi in scena, allora ho voglia di capire. Altrimenti veramente rischi delle cose buffe, amaramente buffe, come per esempio è successo per un testo molto famoso di Ascanio Celestini che hanno scelto di tradurre in russo, lui è andato a vederlo ed era una roba che sembrava di guardare un generale dell’armata rossa, mentre l’attacco di Ascanio era “Carissima madre, vi scrivo questa lettera...”, ed era un attacco normale, tranquillo, naturale, mentre questo attaccava proprio alla russa: “draga mama...”, era un’altra roba, con macchinari che si muovevano in scena...

Ecco, fino ad ora non ho concesso che facessero miei spettacoli all’estero in italiano senza la mia regia. In Italia ovviamente lo concedo perché li faccio io, continuo a fare tutto il mio repertorio quindi non concedo altre versioni. All’estero ho chiesto sempre di fare io la regia, finché non sono certo che una regia sbagliata possa essere presa per una regia sbagliata – perché è abbastanza conosciuta la mia drammaturgia, il mio modo di far teatro – ho sempre paura che una regia sbagliata faccia dire “ah, no, a noi questo autore non interessa”... Quindi preferisco metterli in scena io.

Da Milite ignoto – quindicidiciotto
© Mario Perrotta, Luigi Burroni (cessione diritti per la riproduzione accordata da Mario Perrotta)

 

FC e FF: Il tuo rapporto con la Francia è particolarmente intenso: ci spieghi come mai? Come è andata? E quando ti esibisci in Francia, che impressione hai? Il pubblico, gli spazi dove lavori e l’ambiente del teatro in generale?

MP: Devo dire la verità, in realtà la conosco molto poco la Francia, perché ho avuto a che fare soprattutto col Belgio francofono, la parte francofona del Belgio. In Francia hanno girato i miei spettacoli ma senza di me, nella versione francese, per esempio il mio spettacolo su Antonio Ligabue, interpretato da Jean Vocat, è stato parecchi mesi a Parigi, ad Avignone per due edizioni di seguito, in altre città francesi, ma io non ho mai seguito lo spettacolo in giro perché ero nel frattempo in tournée anch’io in Italia. Io l’ho fatto debuttare a Losanna perché il progetto prevedeva di debuttare con le tre lingue svizzere, quindi italiano, tedesco e francese con tre attori diversi, io per l’italiano, Jean per il francese e l’attore tedesco si chiama Marco Michel, in tre manicomi diversi della Svizzera, perché Antonio Ligabue era stato rinchiuso in manicomio in Svizzera più d’una volta. Quindi abbiamo scelto tre manicomi diversi. Io ho fatto debuttare gli spettacoli con la mia regia, poi sono andati in giro nelle terre linguisticamente adatte, quindi Svizzera tedesca, Germania, eccetera.

Ne so quindi purtroppo poco della realtà francese del teatro. Però io, con i miei spettacoli, è difficile che possa esibirmi di fronte a pubblici non italiani, perché uso i dialetti, perché i miei spettacoli sono molto basati sulla verbosità, sulle parole, per cui c’è tanto sforzo, anche quando sto solo seduto. Ma riuscire a seguire tutto un flusso di parole, come quello di Milite ignoto, di Ligabue, dei miei spettacoli sull’emigrazione, sarebbe impossibile: uno spettatore straniero sarebbe costretto a guardare tutto il tempo i sovratitoli. Per ora, la vedo dunque molto difficile che io riesca ad andare davanti a un pubblico straniero. È successo che io abbia fatto tanti spettacoli per le comunità italiane in varie nazioni d’Europa, ma il pubblico francese non l’ho mai affrontato da attore, quindi non vi so dire molto. Spero però prima o poi di poter fare una regia in Francia, e potere stare lì perché è previsto dal mio contratto, poter vedere che cosa accade... Ho visto un mio spettacolo in svizzero-tedesco e mi sono divertito molto perché sono veramente l’esatto opposto degli italiani, una cosa per noi incredibile, e penso per loro siamo incredibili noi. Intanto sono arrivati tutti mezz’ora prima, si sono seduti e parlavano tutti sottovoce; quando è arrivato l’orario, era la sera della prima, l’attore si era dimenticato una cosa in camerino e il camerino stava molto lontano, allora è tornato indietro a prenderla, a prendere i gessetti per disegnare, e sono scattate le 20: era quindi ora di iniziare. Io stavo parlando con i tecnici e improvvisamente sento silenzio come quando inizia lo spettacolo, silenzio tombale in sala... mi giro, tutto acceso, l’attore non era in scena ovviamente, allora chiedo: “che cosa è successo, chi è che ha detto alla gente di stare zitta?” I tecnici svizzeri tedeschi mi hanno detto che stanno zitti perché sono le 20 e bisogna iniziare, e io qui veramente ho detto “alzo le mani”, ché in Italia se non si spegne la luce e non si alza il sipario e non comincia l’attore, fare silenzio così perché sono le 20 non esiste, e soprattutto in Italia alle 20 non si comincia mai, o se è alle 21, se non arrivano le 21.05, è quasi disdicevole iniziare lo spettacolo. Mi hanno fatto veramente molta impressione perché poi l’attore ha tardato solo quattro minuti e loro sono stati quattro minuti dritti a guardare il palco vuoto, però per loro lo spettacolo doveva cominciare... punto, non c’era storia. Penso che siano l’estremo opposto degli italiani, e forse i francesi stanno a metà...

FC e FF: Oltre alla tua attività teatrale, nel corso degli anni hai dato vita a diverse iniziative, individuali e collettive, che vanno molto al di là del teatro (editoria, mostre, ecc.). In particolare con una certa frequenza la radio. Perché questa volontà di intervento in campi artistici diversi? E perché questa predilezione per la radio? Come si trova un attore abituato a usare anche il proprio corpo a fini espressivi quando si trova a lavorare “per voce sola”?

MP: Lo spaziare mi viene naturale, già pensando al mio modo di mettere in scena... io, tutte le volte che posso, ho in scena con me dei musicisti dal vivo, perché penso che il teatro sia fondamentalmente musica, partitura. Adoro la lirica, adoro la sinfonica. Le arti figurative, le ho usate nello spettacolo su Ligabue, dove disegno dal vivo davanti alla gente. Non riesco a riconoscere tanto i confini tra le forme di espressione artistica. Adesso sto scrivendo il mio primo film e spero di essere sul set nel giro di un anno, un anno e mezzo massimo. La radio fa parte di questo gioco: quattro anni fa, mi hanno chiesto di scrivere un’opera lirica e di dirigerla: l’ho fatto. Non riesco a confinarmi in qualcosa. Ecco perché per esempio ho reagito subito a questa cosa del teatro di narrazione e mi sono alzato dalla sedia del narratore segnalando subito a tutto il mondo che non ero solo quella cosa lì seduta su una sedia, che facevo anche altro e sapevo far altro.

La radio trovo che abbia una affinità notevole con l’atto teatrale perché possiede ancora quella sacralità monastica dell’ascolto che altre forme di fruizione non prevedono perché sono multilinguaggio. Il video prevede gli occhi, prevede l’ascolto... puoi perderti qualcosa che stai guardando perché tanto l’ascolti, o puoi togliere l’audio per rispondere a una domanda di tuo figlio perché tanto continui a guardare e capisci. La radio, o l’ascolti in maniera monastica o non l’ascolti, a meno che tu non la metta lì come sottofondo musicale. Se ascolti del parlato, ti richiede quella stessa sacralità che dovresti avere in teatro, quando ti siedi su una sedia e smetti di masticare chewing-gum e di rispondere a WhatsApp, di parlare col vicino, perché stai vivendo quella cosa lì. Quindi, nonostante sia così castrante dal punto di vista visivo, perché non vedi nulla, in realtà ha molto a che fare, peraltro, con l’altro aspetto del mio modo di fare teatro. Io, rifacendomi alla lezione di un grande come Peter Brook, amo moltissimo lo spazio vuoto. Nei miei allestimenti spessissimo c’è lo spazio vuoto perché io preferisco che la scenografia la costruisca lo spettatore con i suoi occhi immaginari. E la cosa bella è che dopo lo spettacolo, qualunque spettacolo, la gente viene e ti dice: ho visto la trincea, ho visto migliaia di soldati, ho visto la miniera in Belgio, sono stato nel carbone con te mentre eri lì sotto e scavavi... e tu non hai fatto niente, non ti eri messo in posizione di uno che scava, lo stavi solo rievocando. E la radio mi consente la stessa cosa: tu ascolti e vedi dei mondi... che non ci sono, ed è la grande forza della radio, è la ragione che non la farà morire, così come la ragione che non farà morire mai il teatro è che siamo lì, carne vibrante dal vivo davanti a te. Questo non te lo darà mai nessun’altra cosa.

 

FC e FF: Ultimamente ti sei cimentato in un altro lavoro difficile e plurilingue, ma in modo diverso: con la lettura “per musica e parole” del testo Terra matta di Vincenzo Rabito. Da dove nasce questo progetto per Rai Radio 3 e per l’Archivio di Pieve Santo Stefano?

MP: È nato da un’iniziale sollecitazione del Piccolo museo del diario, che è una costola dell’Archivio. Mi hanno detto: "Siccome il museo è chiuso causa Coronavirus, proviamo a portare il museo in casa della gente con uno dei suoi pezzi forti, che è Terra matta di Vincenzo Rabito... ma forse a te non interessa in un momento come questo...” Invece io, da un po’ di giorni, stavo cercando proprio un progetto così, che avesse un lungo respiro e un arco narrativo complesso, articolato, epico, proprio perché nei primi giorni del Coronavirus tutti gli artisti si sono sentiti in obbligo di mettere online dei contenuti che lasciavano il tempo che trovavano o il tempo che duravano. Ci sentivamo in obbligo di dire “ci siamo, siamo un popolo unito... tu metti un pezzo, tu metti una canzone, tu un monologo...” Io mi son detto... tanto sarà una cosa lunga – era la metà di marzo quando l’ho detto – forse bisogna prendere questo tempo, e soprattutto ci vuole qualcosa che ci ricordi in un momento così difficile che ci sono stati momenti molto più difficili. I nostri nonni hanno vissuto cose molto peggiori del Coronavirus. Perché a un certo punto mi sembrava che stessimo vivendo la profezia dei Maya, che il mondo stesse per dissolversi in una montagna di virus. Era evidente che non era così, la cosa era sì molto drammatica, ma era una cosa alla quale si poteva porre rimedio, freno, stando chiusi in casa, e facendolo volontariamente. E allora il racconto di Rabito contiene tutti questi elementi: è una grande epica popolare, e soprattutto racconta vicende drammatiche, terribili, tragiche del ’900, scritte tutte sulla pelle di una sola persona. E questo dovrebbe aiutarti a pensare – io credevo, mentre lo progettavo...  questo dovrebbe aiutare le persone, in questo periodo così drammatico, a pensare che se lui, avendo vissuto tutte queste vicende, è arrivato comunque in fondo alla sua vita coronando anche i suoi sogni, pur avendo vissuto tutte queste vicende terribili, due guerre, la spagnola, il fascismo... beh, allora forse ce la potevamo fare anche noi davanti al Coronavirus. È quindi nato da questa esigenza, di stare con gli altri non potendoci stare fisicamente e di raccontare qualcosa che fosse in qualche maniera solare, di buon augurio e di buon auspicio... pur, ripeto, raccontando episodi a volte tragici.

 

FC e FF: Per concludere, hai qualche spunto da suggerire ai lettori?

MP: Una cosa mi sento di segnalarvela perché mi sembra molto importante, per me e per degli studiosi di drammaturgia e di teatro, perché si possa davvero comprendere appieno cosa è accaduto in Italia dal punto di vista teatrale negli ultimi vent’anni, le cose che ho detto sulla narrazione secondo me meritano di essere approfondite, non solo tramite il mio lavoro ma anche il lavoro di altri... perché davvero in Italia stessa, ma soprattutto all’estero, è passata una semplificazione dell’argomento che ha fatto sì che poi davvero noi siamo stati chiamati in tanti posti in giro per l’Europa, compreso quando sono andato appunto in Borgogna, perché volevano sapere cosa era la narrazione italiana. E io tutte le volte mi trovo in difficoltà perché devo dire che la narrazione non esiste. O meglio, devo dire “così come ve l’hanno raccontata non esiste” – perché poi hanno fatto esercizi retorici di ogni genere per cercare di mantenere questa cosa che avevano creato, per cui nei miei confronti sono stati coniati termini tipo “narra-attore”... uno degli studiosi più noti del teatro di narrazione mi ha definito “un quasi-narratore”, che non ho capito che cosa voglia dire: è una mancanza, è un pregio? In realtà sono elucubrazioni un po’ intellettuali da docente universitario, e lo dico con tutto il rispetto per i docenti universitari – la mia famiglia è piena di docenti universitari –, però c’è questo bisogno di catalogare per poter dare una collocazione. Forse era più interessante puntare sul fatto che toccavamo argomenti civilmente sensibili, come caratteristica di questa nouvelle vague, come posso dire, italiana, piuttosto che sul fatto che eravamo narratori... Non voglio dire, ma i grandi, cosiddetti narratori, italiani, sono tutti grandi uomini di teatro. Se esistono, esistono perché sono grandi uomini di teatro: questa è la cosa a cui tengo molto. Perché ce n’è veramente una marea, parliamo di decine e decine di ragazzi e ragazze che uscivano dall’Accademia e tentavano di fare cose come le nostre, e purtroppo sono spariti nel dimenticatoio, perché hanno sbagliato obiettivo: non avevano l’obiettivo di fare teatro, volevano fare una cosa civile. Ma questo non ti dà diritto di salire in scena, non so come spiegarmi. È come dire che negli anni Settanta, se facevi una canzone di protesta, avevi diritto a incidere un disco! E chi l’ha detto?! Meno male che c’era gente come De Gregori, come De André... Quando scrivevano canzoni di protesta, loro scrivevano poesie. E soprattutto scrivevano canzoni, testi fatti per esser cantati. Ma le canzoni di protesta del “collettivo 1968” e via dicendo sono – detta come va detta – una rottura di coglioni infinita, musicalmente non si possono ascoltare! E allora, questa cosa della narrazione è uguale: ci sono spettacoli che hanno avuto anche spazio in contesti importanti, che sono teatralmente inesistenti, inguardabili, e hanno fatto soffrire tutti noi, ma siccome stavano parlando delle Brigate rosse o del terrorismo fascista bisognava in qualche modo starli ad ascoltare: ma anche no! Gli anni Settanta sono già passati, il martoriarsi con le cose intellettuali che di artistico hanno poco: anche no! Prima di tutto il teatro. Quelli che ho citato, Celestini, Paolini, Enia, Musso, sono tutti prima di tutto ottimi uomini e donne di teatro.

 

FC e FF: Con loro ti senti parte di un gruppo?

MP: Mi sento parte, insieme a loro e a tanti altri che sono forse una “non-categoria”, quella di quanti, sull’asse “teatro necessario/teatro inutile”, e con tutte le sfumature in mezzo, sono più spostati verso il teatro necessario. Io riconosco solo queste due categorie. Poi, attenzione, anche il teatro inutile di intrattenimento serve, voglio una sera poter andare in un posto dove mi fanno solo ridere, con delle battute, peraltro neanche impegnatissime o intelligenti, perché può anche andar bene. E l’esempio che faccio sempre è lo Zelig... l’accendi, ti fai due risate, punto. Va bene anche quello, perché alla casalinga di Voghera non le puoi chiedere di leggere Heidegger, perché non passa... va bene che ci sia l’intrattenimento fine a se stesso. Però, diciamo che l’asse che io riconosco è questo qua. E le persone che ho citato credo che siano più spostate, con diverse sfumature, verso il teatro necessario, e spero, e credo, senza false modestie, di essere spostato anch’io verso quel fronte. Non riconosco la categoria dei narratori in quanto tale, li ho citati perché si parlava di narrazione, però, per dire, Ronconi fa parte di quel mondo là, Strehler faceva parte di quel mondo là, il Teatro dell’Elfo fa parte di quel mondo là, e forse più di me: il Teatro dell’Elfo fa teatro a tutto tondo, con i personaggi ecc., ma sceglie sempre drammaturgie e drammaturghi che in qualche maniera stanno rendendo bruciante una materia che ci riguarda in questo momento. Quando prendono Angels in America e lo fanno in un paese come l’Italia, cattolico, refrattario a certi argomenti, dove non si può parlare di omosessualità, fanno teatro “necessario” pur facendo teatro come se mettessero in scena Molière. Ma anch’io credo di aver fatto la stessa cosa quando mi sono tradotto il Misantropo in settenari italiani e l’ho messo in scena così com’era, semplicemente prendendomi la libertà di non tradurre la scena di Célimène così come scritta da Molière ma riadattandola ai personaggi della corte di Berlusconi. Ho riadattato quei quadri ad alcuni personaggi di quel momento, per il resto la traduzione e la messinscena erano fedelissime, quindi la diatriba tra Philinte e Alceste era assolutamente identica, perché non è nemmeno un classico, è un universale... la misantropia di Alceste, la rabbia di Alceste vale all’epoca di Molière come oggi perché parla dell’essere umano. Questo voglio dire: non trovo altro se non il fatto che tu stai facendo teatro per cambiare la società in cui vivi oppure semplicemente per svagarti e svagare le persone. Punto.

Capisco che questa idea di teatro di narrazione come marca di fabbrica del teatro italiano piaccia, che piace anche pensare che ci sia questa specificità del teatro italiano attuale, ma in qualche maniera nello stilema c’è: sei seduto su una sedia, da solo, racconti, e la gente vede un’epopea. Spesso io e Ascanio diciamo che se dovessimo fare un film dei nostri spettacoli sarebbe un kolossal di Hollywood, ci vorrebbero i soldi dell’Ultimo imperatore, perché descriviamo epopee generazionali. Se dovessi rappresentare Milite ignoto sarebbe un grande film di guerra che richiederebbe milioni di dollari per essere messo in forma filmica. Eppure sono seduto su quattro sacchi di iuta, la scenografia è costata 60 euro in tutto, e la gente vede un’epopea. Quindi c’è, nello stilema, nel modo di mettere in scena questa cosa una peculiarità tutta italiana nel fare quel tipo di teatro, però se poi vai a guardare all’osso, la forza di quel teatro lì, è il teatro, non è l’impegno civile, è la scrittura – la scrittura di Ascanio è la sua forza principale, lui potrebbe scrivere l’elenco telefonico e riuscire a essere avvolgente, a spirale... può risputarti fuori e tu non sai neanche da dove sei passato. Quella è la forza di Ascanio. La mia forza probabilmente, più che la scrittura, è quella dell’attore. E via dicendo. Per cui lo ribadisco per non dimenticarci che stiamo facendo teatro, altrimenti rischiamo di diventare una categoria letteraria, sociologica quasi.

 

FC e FF: Ma adesso ti darai al cinema... un kolossal?

MP: Sto scrivendo un film da un mio spettacolo – non vi dirò mai quale sinché non diventa ufficiale che sono sul set –, ma anche lì vedo una continuità, c’è una continuità: indago un altro linguaggio per dare corpo a quelle immagini che in scena ho soltanto evocato. Io da sempre mi sono pensato come un artista che ha bisogno di dire delle cose e adotta il mezzo migliore per quella cosa lì. Quindi appunto: non esiste il mio teatro... esiste che se Molière, Aristofane e Flaubert hanno detto meglio di me le cose che volevo dire – e lo hanno fatto tante volte –, allora adatto Flaubert (il che è stato necessario perché si tratta di un romanzo), oppure traduco Molière... inutile che io scriva un nuovo Misantropo, lo ha già fatto lui e lo ha fatto benissimo. Se ho bisogno di mettere in scena il mondo di Ligabue e di avere duecento artisti di ogni forma d’arte che popolano quaranta chilometri di territorio, dal manicomio di Reggio Emilia fino alle rive del Po, e tu spettatore stai su un autobus e ti sposti, e non sai neanche quando ti sei spostato e come hai fatto ad arrivare in un posto dove ti accadono cose intorno, io allora prendo duecento artisti. L’anno prima te l’avevo raccontata, questa vicenda di Ligabue, da solo in scena, disegnando i personaggi che si agitavano nella mia fantasia. Quindi, faccio le cose che penso siano più necessarie per quello che voglio dire. Quello spettacolo da cui sto traendo il film, da sempre, da quando è nato, ho detto “questo è più un film che uno spettacolo”. E infatti adesso diventerà un film, ora che posso permettermi di provare l’avventura di fare una regia per il cinema, lo faccio.

Pour aller plus loin

 

Pour citer cette ressource :

Florence Courriol, Filippo Fonio, Fare teatro oggi in Italia. Conversazione con Mario Perrotta, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), novembre 2020. Consulté le 26/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/theatre/fare-teatro-oggi-conversazione-con-mario-perrotta