«Le vite ordinarie»
1.
In due divertenti pagine del 1967 Pasolini parla di un suo dialogo con Bertolucci e Moravia. Pasolini sostiene che per esprimere un "facchino" bisogna mostrare un vero facchino. Moravia dice che è d'accordo, ma il facchino deve restare muto perché il cinema è immagine. Bertolucci è d'accordo sul fatto che il cinema è immagine. È d'accordo anche sul fatto che il facchino deve essere vero, ma deve parlare con parole non sue, con parole filosofiche. Allora Pasolini conclude che non c'è niente da fare, che nessuno può togliere dalla testa di Moravia che il facchino deve stare zitto e nessuno può convincere Bertolucci che il facchino deve dire aut aut anche se il facchino vero dice "li mortacci tua".
Lasciando da parte la propria idea, Pasolini si chiede da dove provenga questa paura del naturalismo. E se per caso non si tratti di una paura della realtà. Come se nella realtà mancasse l’essenziale. Come se l’ingrediente segreto dell’arte fosse fuori.
E conclude dicendo che il suo è un facchino morto. Dice che al momento della morte c'è una sintesi: delle tante parole dette in una vita ne emergono alcune esemplari. Sono, per esempio, quelle che i parenti ricordano con commozione.
2.
Antonio ha 32 anni. Con la compagna di 18 anni hanno una bambina di 18 mesi. Ha saputo che stava diventando padre dopo tre giorni che stava di galera. Stavano insieme da tre mesi e lui si deve fare due anni e mezzo dentro. La prima volta che è uscito in semilibertà s'è fermato al bar. S'è messo a piangere quando ha mangiato da un piatto di coccio con posate di metallo e il bicchiere di vetro. Dentro hanno l'obbligo della plastica.
Mario ha 52 anni e sente le voci. Quando prende gli antipsicotici le voci del suo cervello scompaiono. “Ma io le voglio sentire” dice al medico “non mi dia le pasticche”.
Rudi la pasticca di Subutex la polverizza e se la sniffa. Prende il Rivotril, ci beve sopra un cartone di vino e fa le rapine. Si sveglia a casa sua col bottino o in cella pieno di lividi e non si ricorda niente.
Fausto costruisce nacchere nel Gargano. Gli chiedo di cantarmi una canzone e risponde “cantavamo quando lavoravamo la terra. Oggi la terra non la lavora più nessuno” e non canta.
Maria parla sardo. Provo ad intervistarla sulla storia della miniera di Montevecchio, ma non capisco niente. Lei si mette a pregare, così... tanto per non mandarmi via a mani vuote.
Da vent'anni intervisto persone. Non io, ma il microfono prima di me trasforma le loro storie in epigrafi. Si sospendono. Escono dalla vita per andare da qualche altra parte. Eppure si trascinano dietro qualcosa di concreto. Un concentrato del reale.
3.
Se etimologicamente la parola “ordinaria” deriva dal latino ordo-ordinis, bisognerebbe capire da dove deriva la parola antica. Certamente la sua discendenza è prolifica. Ci sono ordini ovunque. Negli eserciti come nella spesa, nei numeri ordinali della matematica, come nelle camerette ri-ordinate dei nostri bambini. Forse deriva dalla tessitura e indica i fili dell'ordito o forse proviene da qualche altra parte.
Sicuramente è uno di quei termini che si sono aperti ad una pluralità di significati. Per questo motivo la “vita ordinaria” è tutto tranne che ordinata. È un'ordinarietà che comprende tanto e apparenta gli opposti. Il passero non somiglia all'elefante, ma nel mondo degli elefanti è normale pesare quintali, come in quello dei passeri avere le ali. La vita straordinaria è spesso solo una vita che appartiene ad un ordine diverso.
epilogo
In una lettera del 1970 Pasolini scriveva a Penna “Ciò lo dico come se ambedue fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria (…) È la vita nella sua totalità, come se noi l'avessimo del tutto adempiuta (e di fatto è quasi così) che ora io guardo”.
Ecco, l'artista si confronta con questo reale che si è astratto, con un'ordinario che non è del tutto comprensibile se non lo si considera straordinario rispetto ad un ordine che gli è esterno. Dunque la soglia tra la vita e la morte diventa lo spazio concreto nel quale si compie la scrittura. Bisogna stare dentro alla vita per scrivere con parole vive. Bisogna stare dentro alla morte per sapere in che modo le storie scritte con quelle parole andranno a finire.
Insomma il facchino è un facchino vero, ma l'arte racconta li mortacci sua.
Pour citer cette ressource :
Ascanio Celestini, "«Le vite ordinarie»", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2014. Consulté le 10/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/le-vite-ordinarie