Elena Ferrante, «Storia del nuovo cognome» (2012)
Con Storia del nuovo cognome, Ferrante riafferra le fila del racconto interrotto nelle pagine finali dell’Amica geniale, traghettando il lettore nella complicata giovinezza delle due protagoniste.
Lila, sposa-adolescente, si schianta contro la crudeltà di una vita matrimoniale che si rivela, fin dalle prime ore, un incubo a occhi vegli. Stuprata durante la prima notte di nozze, la ragazza sperimenta sulla propria carne l’inganno dei corpii. Nascosti dietro la delicatezza di uno sguardo, soffocati sotto maniere gentili, gli individui si smarginano dando vita a entità apocalittiche, capaci di rievocare antichi fantasmi infantili. La notte d’amore con Stefano Carracci diviene così un’allucinata scena di violenza. Lila, guastata dall’avidità cieca del marito, intravede nella frammentazione metaforica di quel corpo che la piega e la spezza, l’ombra del padre di lui. Stefano non è il ragazzo simpatico della salumeria, il giovane intraprendente dal carattere sicuro e dai tratti gentili. La sua mitezza controllata si scioglie, perde forma, dando vita a un macabro spettacolo. Lo spettro di Don Achille, lo strozzino del rione, l’orco che ritorna dal regno dei morti, pare così riemergere dalle viscere del ragazzo arrivando a deformarne i tratti, modificandone lo sguardo, inspessendone la voce.
Con Storia del nuovo cognome Ferrante approfondisce la nozione di smarginatura che assume, in questo contesto, i tratti ambivalenti di una conoscenza che è sempre “a perdere”. Se la realtà è percepibile solo attraverso la frattura, il soggetto vi accede a prezzo della propria lacerazione. Vedere equivale dunque, per dirlo con M. Gualtieri, a "uno sfacelo": oggetti, paesaggi e individui hanno l’orrendo potere di smarrire i loro perimetri, sconfinando nei sordidi territori dello spavento. Così, la prima gravidanza di Lila, quel bambino non voluto, frutto dei ripetuti stupri del marito, altro non è che la manifestazione di un “vuoto” che si fa pieno. Il ventre si gonfia di dolore, il niente – quel nulla intravisto dietro le pupille dilatate di Stefano – sembra concretizzare le mura di una prigione terrestre, senza finestre, senza vie di fuga.
Di conseguenza Lenù, privata del suo doppio – del suo monito intellettuale – sprofonda in un grigiore apatico: la scuola non ha più senso, i libri hanno smarrito il loro mistero, la loro capacità di seduzione. Così il mondo, osservato dietro i suoi occhiali spessi, ha perduto quelle tonalità pazze e iridescenti che solo Lila sapeva mostrare. Nella sua solitudine di prima della classe, la narratrice percepisce la vacuità di giorni tutti identici. A che serve studiare, per quale scopo spaccarsi la testa sui libri se si è privati di quella guerra tra teste, di quel confronto-scontro che aveva reso vivaci le scuole elementari, di quel bisogno di rivalsa contro la genialità di Lila che altro non era, in fin dei conti, che bisogno di vicinanza, domanda d’amore. Tuttavia lo spaesamento di Elena non dura a lungo. Viene salvata, ancora una volta, dalla sua amica-ombra che l’accoglie nella nuova casa borghese, la casa di una donna sposata – donna prigioniera – che le offre una stanza, un luogo tutto per sé, capace di restituirle quello spazio intellettuale necessario per ritrovare la fiducia verso il proprio percorso. Lo studio e l’impegno dell’una si scontrano, tuttavia, con la regressione dell’altra. Lila, ben pettinata, stretta nei suoi abiti costosi, è una giovane donna condannata al mutismo, alla perdita d’espressione: una figura paralizzata dalla monotonia di una vita confortevole che non offre diversivi. Prigioniera di mansioni ridicole, 'preparare la cena, […] lustrare la casa, […] guardare la televisione' Lila trascorre le giornate contemplando, verso l’imbrunire, l’ipnotico movimento dei treni. È così che la vacanza a Ischia, necessaria per migliorare le sue condizioni psico-fisiche, soprattutto a seguito dell’aborto spontaneo, costituirà una svolta capitale non soltanto nella sua vita ma anche in quella di Lenù.
Lila si innamora. La felicità di quei giorni di sole assume la forma di piccoli istanti rubati alla morte. Sono istantanee che preannunciano la catastrofe, immagini di un tempo perfetto che sfiora i confini dell’abisso. Nino Sarratore discute con lei di Beckett, gli sguardi da reticenti si fanno più attenti. I sorrisi si soffocano dietro pagine di libri, la distanza dei corpi cede il passo a un furtivo allacciarsi di dita, al piacere di lunghe passeggiate sul bagno-asciuga, a baci rubati che si guadagnano cercando di scardinare le labbra di lei – labbra tenute strette nel tentativo disperato di resistere alla passione. La bellezza altro non è, per Lila, che un ritorno alla vita, una nascita che significa abbaglio, anticipazione di una sciagura. Un ri-emergere sfidando il buio soffocante del rione. Venire alla luce significa apprendere cose semplici, fatti elementari, capire cos’è un bacio – "cos’era non lo sapevo – ti giuro che non lo sapevo" – significa lottare contro le tenebre della morte-in-vita, combattere contro l’orrore di un’esistenza granitica, immutabile, segnata dalla perentorietà di un orizzonte costellato da "cocci di vetro […] dietro un bitume blu".
Tuttavia, il tempo, in Ferrante, è un compagno tiranno: le giornate s’accorciano seguendo quasi, sornione, un perfido disegno. La vacanza sta per finire, presto la vita prenderà il sopravvento. Lenù, dal canto suo, cova una gelosia assassina verso quell’amica capace d’aver conquistato, senza sforzi, il suo amore d’infanzia. Nino e Lila che escono dall’acqua: bellissimi e innamorati. Nino e Lila che ridono, Nino e Lila che si amano mentre lei, eterna seconda, soccombe al proprio scontento, soffoca nell’incapacità di mostrare l’autenticità dei suoi sentimenti. Lila sa, però, che la felicità altro non è che un soffio: un inganno, una mascherata incapace di resistere all’urto quotidiano. È solo "cipria passata sopra l’orrore": un pulviscolo sottile sopraffatto dall’angoscia di vivere. La fine della relazione con Nino coinciderà con lo sfacelo del suo matrimonio.
Così, mentre Lenù vince una borsa di studio per entrare nella prestigiosa Normale di Pisa, Lila lascia il marito, si trasferisce con l’amico Enzo e il figlio Rino nella squallida periferia di San Giovanni a Teduccio. Per guadagnarsi il pane e mantenere il figlio – che spera, fino all’ultimo, essere frutto dell’amore con Nino – Lila trova lavoro come operaia nella fabbrica d’insaccati di Bruno Soccavo. Quel ragazzino, amico di Sarratore, che durante la vacanza a Ischia pareva un vero galantuomo, si rivela essere un capetto laido e prepotente: uno che mette le mani addosso alle dipendenti, uno che circuisce le più avvenenti sul posto di lavoro perché, a suo dire, l’odore della carne attanaglia le viscere: scatena l’eccitazione. Lila, sfiancata dai turni, umiliata dai responsabili, piegata da mansioni crudeli – impastatoio, insaccatura, spolpatoio: "la spostano sempre" – getterà nel fuoco La fata blu, il racconto scritto quando era bambina, recuperato da Lenù nel disperato tentativo di risvegliarla dal torpore. Consegnando alle fiamme quell’infantile tentativo di scrittura, Lila cede le armi, affoga nella palude dell’arrendevolezza. Nel suo carcere emotivo il sogno di creazione sprofonda sotto il peso "di un’infelicità senza sfogo, tutta dentro gli occhi e nelle pieghe profonde intorno alla bocca".
Pour citer cette ressource :
Ilaria Moretti, Elena Ferrante, Storia del nuovo cognome (2012), La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2019. Consulté le 27/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/elena-ferrante-storia-del-nuovo-cognome-2012