L'Italia alla deriva democratica ?
Luca Rastello giornalista de La Repubblica
A qualche settimana dall'esito dei ballottaggi per le elezioni amministrative, e a valle della rissa scatenata all'interno dello schieramento di maggioranza dal peso sempre crescente della Lega Nord negli equilibri della coalizione, la vittoria della destra italiana appare conunque netta e inequivocabile, quasi il segno di un'egemonia raggiunta e consolidata a dispetto di ogni tentativo di incrinarla e a dispetto della leggenda corrente sull'egemonia culturale della sinistra in Italia. Vorrei proporre qualche considerazione. Che si tratti di una leggenda lo mette bene in luce, per fare un esempio, l'idea diffusa, ripetuta in ogni dibattito televisivo, enunciata in ogni occasione possibile, dall'assemblea di condominio al mercato rionale, dal litigio di strada alle riunioni studentesche al punto da essere ormai un luogo comune, che prima dei governi berlusconiani, l'Italia sia stata governata per mezzo secolo dalla sinistra, quando non addirittura dai comunisti. È una convinzione tanto infondata da non meritare neppure una confutazione, eppure la diffusione rapida ed efficace di questa sciocchezza cara alla propaganda dell'attuale premier fin dai tempi della "discesa in campo" nel '93, dimostra come per una buona metà del paese, al di là di ogni dibattito sul revisionismo, ciò che avvenuto fra il 1946 e il 1993 rappresenti qualcosa di anomalo, una deviazione dal legittimo corso della storia italiana. Come, cioè, nel pensiero istintivo di almeno metà del paese la forma naturale di governo sia il fascismo.
Conviene tenerne conto.
L'eccesso di comunicazione a effetto in politica non è un fenomeno solo italiano, senza dubbio, ma da noi assume misure parossistiche e paralizzanti, anche se a volte ha una ricaduta virtuosa quando mette in luce istinti pericolosi come quello a cui accennavo. La tenuta della destra italiana può apparire sorprendente a paragone con ciò che contemporaneamente è accaduto in Francia, dove i risultati elettorali puniscono la politica di Sarkozy troppo centrata, come quella della coalizione vincente in Italia, sulla comunicazione e sull'immagine più che su una dimostrata capacità amministrativa. Ma senza dubbio l'azione di governo francese non ha ancora dimostrato la catastrofica tendenza alla paralisi che caratterizza l'Italia: il vuoto pneumatico dietro l'enunciazione di formule rituali prive di contenuto e pur ripetute da anni, prime fra tutte le misteriose "riforme" da tutti (i rappresentanti del ceto politico) invocate e la cui mancata realizzazione sarebbe l'ostacolo a ogni progresso. Nonostante questa paralisi l'elettorato continua a premiare uno schieramento al potere, con qualche discontinuità da più di cinque lustri che una sola cosa ha dimostrato: l'incapacità di mantenere anche una sola delle promesse fatte nelle tante campagne elettorali, dal federalismo alla riforma fiscale, dalla semplificazione burocratica alle politiche del lavoro. Perché in Italia non ha corso il pragmatismo francese che premia - magari a volte con fiducia eccessiva - la proposta e però vigila e nel caso punisce la mancata realizzazione? Perché il ventennio berlusconiano si ripete sempre uguale nei suoi riti, con parti assegnate e prevedibili anche per la "leale" opposizione democratica? Perché qui prevale lo slogan, il tic linguistico, il discorso autoreferenziale? Si verifica in Italia, forse con maggior velocità che altrove, ciò che previde Noam Chomsky parlando di disinteresse alla politica indotto artificiosamente per la gestione del potere da fastidiosi controlli democratici. Ipercomunicazione, rappresentazione del tutto svincolata da referenti oggettivi che si sostituisce alla realtà, gestione cruda e disinvolta del potere: è su queste coordinate che prende forma il significato del termine "politica" nell'Italia di oggi, in un paesaggio perfettamente coerente con le analisi di Guy Debord, che superficialmente, trent'anni fa, potevano essere bollate come "provocatorie". Con buona pace di idee tramontate come "L'arte del possibile", "La cura della cosa pubblica", "Il bene comune", "Il legame sociale".
È evidente però che la sinistra italiana oggi sprofonda ben più di quanto non accada ai suoi avversari nell'autoreferenzialità e nella totale mancanza di programmi e idee. Lo dimostra la subalternità strutturale di un'identità politica interamente costruita sul riferimento all'avversario, o come mostro da esorcizzare ("Votami comunque, sennò arrivano i turchi berlusconiani") o come potere da blandire in quel minuetto senza fine e senza contenuto che ha il perno nel feticcio delle "riforme" (come ai tempi della "bicamerale" quando Massimo D'Alema rilanciò la leadership di un Berlusconi agonizzante, affossando il primo governo Prodi). Lo dimostra l'incapacità di instaurare un qualsiasi dialogo con interlocutori che non siano interni alla classe politica (forse sarebbe bene rispolverare la vecchia espressione di "ceto politico", oggi senza dubbio più vicina alla verità di quanto non fosse quando era in voga negli anni '70). L'incapacità, addirittura, di ascoltare il proprio elettorato e di trarre indicazioni dalle conseguenze di scelte sciagurate. Un esempio per tutti: la reazione del governatore uscente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso che, avendo dilapidato il più consistente dei vantaggi sull'avversario (il leghista Cota), non riesce a spiegare altrimenti il suo fallimento che inveendo contro un pugno di scontenti che hanno dato il voto alla lista di Beppe Grillo. Come dire: non contano nulla le ragioni per cui non mi votano, contano i complotti orditi ai miei danni da altri politici. Vale appena la pena di notare che la sinistra della Bresso, alleandosi con l'Udc di Perferdinando Casini che nelle elezioni scorse, schierata con Berlusconi, aveva ottenuto il 6% di voti, avrebbe dovuto garantirsi anche solo con questo un margine potenziale del 12%. Ma non sono i numeri quel che conta, molto più significativo è il fatto che la reazione della governatora non ha niente di estemporaneo e si inserisce perfettamente nel quadro dell'umore diffuso nel partito democratico. Stiamo parlando di un partito che - non dimentichiamolo - ha paralizzato per due anni l'azione del governo Prodi con un'estenuante discussione ombelicocentrica su come dovessero essere strutturati i propri stessi vertici locali e nazionali, provocando poi nei fatti (e secondo alcuni anche secondo intenzioni) la caduta proprio del governo che doveva essere espressione delle forze che quei vertici avevano il compito di rappresentare. Autentico vaudeville. L'annuncio della nascita del nuovo partito democratico fu infatti l'inizio di un interminabile grottesco balletto che allontanò, temo una volta per tutte, il partito da una gran fetta della società italiana.
Intanto dall'altra parte dello schieramento politico nasceva il partito unitario della destra, il Pdl, capace di riprendere in pugno il governo a soli due anni dalla sconfitta elettorale, anche grazie alla sua abilità nello scippare tutte le battaglie che la sinistra insipiente avrebbe dovuto far sue: con la Lega che si oppone al dilagare delle concessioni per la grande distribuzione tutelando quel che resta del territorio, con Fini che si batte per il voto agli immigrati, con la dimostrazione in generale della capacità di portare al potere persone giovani in un paese la cui gerontocrazia è oggetto di barzellette in tutto il mondo. Slogan, inganni, propaganda, può darsi. Ma certo qualcosa che una sinistra non ridotta a puro establishment dovrebbe saper svelare e di cui dovrebbe sapersi riappropriare nei modi e nelle forme corretti. Niente di più lontano dall'azione e dalle enunciazioni, anche dopo il disastro elettorale, dei massimi esponenti PD.
Non c'è alcun dubbio, almeno per me, sulla deriva democratica a cui è in preda il Paese e sulla natura regressiva di un governo - quello di Berlusconi - che non ha realizzato nulla nonostante le grandi enunciazioni, che ha il fine di privatizzare tutto, dal welfare alla sanità, e di costituire un sistema di servizi a doppia velocità: efficiente per chi paga caro, del tutto paralizzato e privato di risorse per gli altri, come accade nella scuola prefigurata dalla riforma Gelmini. Di un governo che ha incarognito la vita pubblica dando carta bianca a tutti i comportamenti ai margini della legalità che caratterizzano le democrazie svuotate di Paesi ben più lontani del nostro dal cuore dell'Occidente, corruzione, evasione fiscale, mercificazione totale dell'immagine e del corpo della donna, svuotamento dell'autonomia della magistratura e, per contro istituzione di una specie di giustizia frettolosa e privatizzata incarnata dalle "ronde" autorizzate con il pacchetto-sicurezza.
Ma non c'è alcun dubbio, per contro, che queste scelte e questi atteggiamenti costituiscano una risposta effettiva alla domanda espressa dalla parte di Italia che vota per quel governo: una domanda di legalità allentata, di darwinismo sociale, di demolizione del legame sociale, discutibile finché si vuole ma capace di ricevere ascolto ed efficace realizzazione da parte di coloro che ricevono il mandato elettorale da chi la esprime. Come dire che c'è una parte dello schieramento politico, la destra, che effettivamente governa in nome del suo elettorato, dà soddisfazione alle richieste della base che rappresenta, incarna realmente la fetta di società di cui è espressione politica.
E c'è un'altra parte, la sinistra, prigioniera della chiacchiera autoreferenziale, del dibattito sui propri organi dirigenti e, soprattutto, della vecchia idea comunista che l'elettorato non vada ascoltato ma educato, che la società che dà il suo voto sia qualcosa di simile a una massa di minorenni a cui va spiegato quale sia il suo vero interesse, se necessario in opposizione a ciò che viene effettivamente richiesto. Poco prima delle elezioni - valga anche questo come semplice esempio - una manifestazione contro la costruzione della ferrovia Tav ad alta velocità Torino-Lione ebbe un successo inaspettato, portando in piazza 50mila persone: i vertici locali del PD reagirono convocando una contromanifestazione a favore del Tav che fallì, sfociando in una riunione al coperto di poche centinaia di persone. La reazione fu esplicita: "Non possiamo lasciarci governare dalla piazza" dissero gli stessi che avevano tentato di mobilitare la piazza a proprio favore, sindaco di Torino e Presidentessa della Regione in testa: "l'interesse dei cittadini è ben altro". Per carità, avranno avuto ragione, magari. Ma finché il blasone della sinistra porta l'insegna del "ben altro" e quello della destra quella del "proprio questo", sarà difficile immaginare un cambiamento vero in questo Paese autofago.
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Luca Rastello, "L'Italia alla deriva democratica ?", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), avril 2010. Consulté le 16/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/l-italia-alla-deriva-democratica-