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Memoria, dolore, vendetta: La violenza del dopo Liberazione

Par Massimo Storchi : Historien, directeur des Archives municipales - Reggio Emilia
Publié par Damien Prévost le 10/06/2008

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Il 25 aprile, o comunque il momento del disarmo ufficiale delle forze partigiane avvenuto il 2 maggio, non sono date significative per quanto riguarda il problema dell’uso della violenza al termine della Resistenza. Come la recente storiografia ha proposto, è indispensabile proporre un percorso più articolato che rifletta sull'esplodere di quella violenza (insurrezionale e non) che ha segnato non solo le provincie emiliane ma tutto il nord Italia all’indomani della ritirata delle truppe tedesche e della caduta della Repubblica di Salò.

Il 25 aprile, o comunque il momento del disarmo ufficiale delle forze partigiane avvenuto il 2 maggio, non sono date significative per quanto riguarda il problema dell'uso della violenza al termine della Resistenza. Come la recente storiografia ha proposto, è indispensabile proporre un percorso più articolato che rifletta sull'esplodere di quella violenza (insurrezionale e non) che ha segnato non solo le provincie emiliane ma tutto il nord Italia all'indomani della ritirata delle truppe tedesche e della caduta della Repubblica di Salò.

Violenza e comunità

Una prima considerazione riguarda la specificità delle situazioni locali. Definizioni come "triangolo della morte" per le province di Reggio e Modena o l'Emilia come "Messico d'Italia", che tanta fortuna hanno avuto nel dopoguerra, racchiudono in realtà al loro interno esperienze e vicende diversificate fra di loro rimanendo molto forte, nella varie situazioni, il legame con le diverse realtà territoriali. In questa lettura la violenza sommaria è uno specchio fedele delle diverse anime e aspetti che la lotta di Liberazione aveva assunto provincia per provincia, zona per zona. Dalle comunità locali era nato il conflitto, nelle comunità locali venne praticata la giustizia sommaria.

Gli episodi di eliminazioni di fascisti coinvolsero il territorio reggiano nei giorni della liberazione con una intensità decrescente. La giustizia sommaria fu un fuoco che divampò e distrusse ma che in qualche modo si autoestinse. Con il mese di maggio il fenomeno poteva dirsi concluso, mentre proseguiva invece fino alla metà del 1946 l'instabilità post-bellica segnata da alcuni casi di assassini politici.

Un primo elemento da sottolineare nel delineare questa esplosione generalizzata di violenza è la mancanza di una cesura fra guerra combattuta e violenza insurrezionale. Fino agli ultimi giorni, quasi le ultime ore, l'azione repressiva dei nazifascisti mantenne intatta la propria drammatica efficacia. Lo scontro fu durissimo e totale sino alla fine delle ostilità "ufficiali".

Nel reggiano l'ultimo rastrellamento in grande stile sull'Appennino era stato il 10 aprile, il 15 vennero fucilati 7 partigiani a Rolo, a Campagnola nel corso di un rastrellamento 3 civili furono passati per le armi, il 23 i tedeschi in ritirata uccisero 9 civili a Canolo di Correggio, a Castelnovo Sotto il 24, mentre Reggio veniva liberata, i tedeschi fucilavano ancora 5 prigionieri.

Le giornate della liberazione costarono un pesante tributo di vite umane con 98 partigiani e 62 civili uccisi nel periodo 22-26 aprile.

Nelle ore del crollo del fronte tutta la bassa reggiana divenne, senza soluzione di continuità, terreno di scontri diffusi in una grande confusione strategica.

Non scattò un piano di insurrezione in senso proprio, le forze partigiane continuarono l'attività dei giorni precedenti unendosi all'atteso irrompere delle truppe alleate che attraversarono le provincie di Modena e Reggio non secondo l'asse viario principale (la SS 9 Via Emilia) ma in direzione Sud Est-Nord Ovest verso il Po.

Non esiste una situazione definita ovunque e nei giorni dal 22 al 24, ad uno scenario di attesa e di difesa, o comunque di limitata attività offensiva, seguì una fase di alta mobilità subito incentrata nella eliminazione dei presidi fascisti ancora attivi e nella cattura di tedeschi sbandati, imbottigliati sulle rive del Po, ostacolo definitivo per il grosso delle truppe in ritirata. Esemplare è il caso tragico di Canolo di Correggio dove i civili, ormai in festa, scambiarono, con tragiche conseguenze, un convoglio di alleati in arrivo con un camion di tedeschi in fuga.

Nei giorni immediatamente successivi due elementi divennero centrali per lo svolgersi di atti di violenza sommaria. Di fronte agli ordini pure tempestivi, considerate le condizioni, impartiti dai comandi centrali alle unità partigiane operanti nel territorio (ma è soprattutto nella pianura dove si verificheranno i problemi maggiori) per la cattura dei prigionieri, la loro detenzione e il trasferimento ai centri maggiori, sotto il controllo dei CLN locali, l'organizzazione complessiva delle formazioni partigiane mostrò in pieno le proprie debolezze costituzionali. La trasmissione di ordini centro-periferia avvenne con lentezza e quando anche le unità periferiche furono raggiunte dalle circolari e dagli appelli del CLN (e nel reggiano questo avviene ovunque entro il 29 aprile) si verificò una situazione di inerzia diffusa in cui, di fronte alla caccia al nemico sconfitto, gli ordini rimasero inapplicati, sia per l'impossibilità materiale di controllare ogni unità operante, sia per l'improvviso accrescersi delle stesse unità con volontari dell'ultima ora.

Situazioni particolarmente drammatiche si verificarono poi in quelle località dove la resistenza fascista durò fino all'ultimo. Valga il caso del presidio GNR di Montecchio, sorpreso in ritirata a Barco di Bibbiano. Asserragliato in una casa, non solo respinse ogni intimazione di resa, ma seviziò e uccise il partigiano inviato a trattare. Catturati dopo un combattimento e strappati al furore popolare, i militi furono avviati verso le colline dove vennero tutti uccisi e i loro corpi occultati. Altrettanto significativa è la situazione a Castelnovo Sotto dove, partite da poche ore le truppe tedesche, i prigionieri fascisti furono immediatamente eliminati in massa, mentre eliminazioni clandestine di civili si ripeterono nei giorni successivi.

Questa situazione di mancanza di collegamenti efficaci nel caos insurrezionale venne poi aggravata ulteriormente dall'immediata smobilitazione imposta dagli alleati (nel reggiano il 3 maggio), smobilitazione che allentò ulteriormente la rete di controllo e lasciò spazio alle iniziative diffuse di unità locali, distaccamenti e singoli. Questo elemento, unito alla fragilità innata dei CLN locali, aprì la strada alla vendetta immediata.

Il ruolo dei comandanti delle unità partigiane in quelle ore divenne spesso centrale. Dove questo ruolo fu esercitato con fermezza e misura (ed è la maggior parte dei casi), la normalità fu recuperata in pochi giorni. Dove invece questo non accadde si verificarono gli episodi più cruenti.

La pianura fu la zona più nevralgica, sia per la durezza della lotta appena conclusa che per le difficili condizioni in cui questa si era svolta. Vale la pena ricordare come nella pianura reggiana la lotta armata non avesse conosciuto i rovesci dei primi mesi del '45 verificatisi nelle aree limitrofe del modenese e del parmense, consentendo alle unità presenti (GAP e SAP) una attività notevole di contrasto alla presenza nemica nel territorio a costo però di alte perdite sia fra i civili per rappresaglia che fra i reparti partigiani. Val la pena ricordare lo scontro di Fabbrico (26-27 febbraio) che assunse caratteristiche di scontro campale e si concluse con una pesante sconfitta dei nazifascisti. I partigiani poi, appena usciti dalla clandestinità, erano meno influenzati dalle direttive politiche dei comandi, dalla stampa partigiana e dalle circolari orientative che erano largamente diffuse solo nelle zone liberate dell'Appennino.

Una guerra che non finisce

Le eliminazioni vennero organizzate secondo schemi già collaudati e tipici della lotta clandestina. I prigionieri, prelevati spesso dalle rispettive abitazioni, furono concentrati in zone precise e avviati, nottetempo, verso la eliminazione e la sparizione. Si portava a termine una operazione già avviata durante la lotta, le vittime erano quelle già individuate nei mesi precedenti. Possiamo osservare che quanto accade non fu preordinato ma seguiva una logica precisa. Nelle fosse comuni o in altri luoghi ancora ignoti finirono figure precise del fascismo e del collaborazionismo locale. Non si colpì quasi mai a caso: anche nelle esecuzioni di prigionieri già detenuti nelle carceri (a Reggio furono prelevati 13 prigionieri nella notte del 29/30 aprile e 12 in quella del 2/3 maggio, a Carpi prigionieri fascisti vennero passati per le armi addirittura il 15 giugno) le vittime furono scelte con logica ancora "combattente" (Storchi, 1995).

Si uccideva il nemico sconfitto, si vendicavano i caduti e gli eccidi. Si anticipava il corso di una giustizia che ritardava troppo la sua azione: per quanto riguarda il reggiano la Commissione Provinciale di Giustizia iniziò ad operare, in fase istruttoria, il 2 maggio, mentre il primo processo della Corte di Assise Straordinaria si tenne solo il 6 giugno.

La tipologia delle vittime conferma questa logica di vendetta messa in atto nei giorni della liberazione e nelle settimane seguenti: oltre i due terzi degli uccisi erano appartenenti a reparti militari di Salò (GNR e Brigata Nera), mentre numerosi erano gli iscriti al PFR e persone già segnalate nel corso della lotta per il loro collaborazionismo (Storchi, 1998).

Lo stesso modus operandi del periodo clandestino (prelievi notturni, sparizione dei cadaveri) si affiancava alle procedure ufficiali. Come nel caso di Campagnola di giorno si arrestarono i collaborazionisti, il CLN locale procedette nei loro confronti con interrogatori sommari, vennero rilasciati per essere poi prelevati nottetempo da squadre provenienti da zone limitrofe.

Si voleva infliggere al nemico, passate le necessità contingenti della lotta clandestina (necessità di occultare le vittime per evitare rappresaglie), una "doppia morte" negando anche l'onore di una sepoltura. Non si uccise in maniera pubblica ed esemplare, come pure sarebbe stato possibile senza eccessive difficoltà e con il completo favore popolare, si voleva in realtà cancellare la presenza del nemico, disperderne ogni traccia. Escluderlo anche dalla sepoltura, dal luogo della comunità che è il cimitero.

I casi di linciaggio pubblico furono rari e si verificarono soltanto nelle ore immediatamente successive alla liberazione. Fa eccezione il caso eclatante - per la sua tragicità - del direttore del carcere fascista dei Servi di Reggio che venne ucciso, ormai alla metà di maggio, nei pressi di quello stesso edificio in cui aveva operato. Il cadavere, scempiato dalla folla, venne portato in corteo, esposto al ludibrio pubblico, fino al cimitero, per le vie della città fra i lazzi e il sarcasmo collettivo.

L'invito tassativo "Arrendersi o perire" lanciato ai fascisti nelle ultime settimane fu applicato comunque al nemico, catturato e individuato nelle proprie responsabilità (reali o presunte).

E mentre nei giorni immediatamente seguenti alla liberazione i distaccamenti della Polizia partigiana nei vari paesi furono sommersi da richieste di giustizia (che rimasero quasi totalmente inevase) da parte della popolazione, in pochi giorni si procedette ad una operazione di "pulizia" che prese il posto dei tribunali di guerra che nel reggiano, come nel modenese, non entrarono mai in funzione.

Un elemento che ebbe grande peso nelle uccisioni sommarie fu la "memoria" della lotta appena conclusa. Dove più forte aveva infierito la repressione nazifascista più forte colpì la vendetta del post-liberazione. In molti casi questa memoria "recente" si saldava con quella più "antica", in un "sovrapporsi di memoria, dolori e rancori" (Crainz, 1995). Si chiudeva tragicamente un ciclo iniziato nelle giornate del 1920-22, proseguito in alcuni casi anche negli anni trenta e terminato nei venti mesi di lotta partigiana.

Non può essere infatti trascurato come le zone della bassa reggiana dove più forte e sanguinoso era stato l'impatto dello squadrismo agrario e padronale siano state quelle dove la "pulizia" viene condotta con la massima energia e quelle stesse zone abbiano mantenuto anche nel corso del tempo, fino alla contemporaneità, un legame molto forte con quegli atti di giustizia sommaria.

Non ci si preparava a una sorta di ora x di eliminazione della borghesia o delle classi dirigenti ma si puntava alla concreta eliminazione del nemico di vent'anni, alla cancellazione del fascismo come fase comunque necessaria alla costruzione di un nuovo ordine sociale in cui la dottrina marxista era per la maggior parte dei combattenti ancora un mito o una indistinta utopia.

Ultimo elemento comunque da non trascurare, seppur quantitativamente non rilevante anche se non definibile con precisione, è l'incidenza di fattori extra-politici nella formazione del movente dell'uccisione. I casi di vendette private o, addirittura, di scambi di persona confermano l'atmosfera di caos e confusione che caratterizzò i giorni all'indomani del 25 aprile, quando, cadute le strutture del regime collaborazionista di Salò, si doveva ricostruire faticosamente non solo gli apparati statali ma anche la stessa rete di relazione delle comunità locali.

Solo con lentezza la situazione tornò sotto controllo. Ma il passaggio non poteva essere agevole: le frizioni nascenti fra i reparti della polizia ausiliaria e quelli regolari bloccavano il funzionamento degli organi di polizia, i cui organici di provenienza partigiana furono ridotti in giugno da 700 a sole 200 unità.

Il tutto mentre il PCI, forza egemone nel movimento partigiano, non nascondeva le proprie difficoltà ad imporre una linea 'legalista' che, pur chiara nelle sue linee fondanti ("epurazione ma nel rispetto dell'ordine pubblico" chiese Togliatti a Modena il 18 maggio), veniva intesa da buona parte della base come una mera dichiarazione di principio, in contrasto non solo con le parole d'ordine ripetute fino all'ultimo nel corso della lotta armata ma anche con le aspettative diffuse di un sostanziale cambiamento dell'assetto sociale complessivo. Che in realtà la liberazione dal fascismo dovesse portare ad una radicale ridiscussione degli assetti sociali ed economici era certamente un'aspirazione diffusa in una provincia dove la Resistenza aveva avuto dimensioni di massa. Le grandi dimostrazioni di piazza di novembre per la soluzione democratica della crisi di governo e quella di dicembre per la modifica del patto di mezzadria (manifestazione conclusa dall'intervento di Di Vittorio) testimoniavano queste speranze che era necessario ricondurre sul piano del confronto politico, evitando ogni illegalismo, tanto più negativo in una provincia dove i comunisti erano forza egemone e avrebbero raccolto, nella prima tornata elettorale, un successo elettorale di ampie proporzioni, superando il 40% dei suffragi.

Ma che questo desiderio fosse diffuso oltre i militanti comunisti è confermato dal vero plebiscito (quasi l'80% dei voti) con cui il 2 giugno 1946 sarebbe stata votata nel referendum istituzionale la Repubblica.

Verso una faticosa normalità

La stessa presenza dell'amministrazione alleata con la AMG (Allied Military Government), che gestì il potere locale fino all'agosto, non giocò in maniera efficace a favore di un ritorno alla normalità, ma costrinse, tutt'al più, ad una condotta clandestina delle medesime operazioni di eliminazione.

Ma il problema della violenza diffusa rimase, nelle prime settimane dopo la liberazione, in secondo piano nel dibattito politico ed anche a livello di percezione diffusa erano altri i problemi più urgenti. L'assuefazione alla morte, frutto dei passati, tragici mesi, distoglieva l'attenzione dell'opinione pubblica dai vari quotidiani episodi di violenza ancora più frequenti nelle province limitrofe (nel modenese in giugno gli uccisi furono ancora 43 e 14 fra giugno e luglio).

L'approvvigionamento alimentare, la mancanza di alloggi e di generi di prima necessità, il reinserimento dei reduci, erano le questioni incalzanti. Non a caso ripercorrendo la stampa quotidiana dei primi mesi dopo la liberazione le notizie che hanno più spazio sono quelle relative alle imprese di bande criminali dedite... al furto di formaggio grana o alla scoperta dei tanti piccoli traffici illeciti di un paese ancora allo sbando (prostituzione, furti, traffico di stupefacenti).

Il dibattito politico si incentrò sull'epurazione del personale di amministrazioni pubbliche e di aziende private compromesso col fascismo, epurazione che tardava a prendere quota, e sui problemi subito aperti legati alla elevata conflittualità sociale nelle campagne.

Un ruolo positivo venne giocato, nell'estate, dall'apertura della Corte di Assise Straordinaria (CAS) che iniziò ad operare in un clima di grande partecipazione emotiva popolare. Furono mesi in cui la fiducia in una giustizia pronta ed efficace rimaneva ancora diffusa, sensazione di breve durata che si infranse prima sulla effettiva efficienza della giustizia ufficiale (a Reggio solo 6 condannati a morte saranno fucilati e solo agli inizi di ottobre)e poi nell'azione a tappeto della Cassazione completata dall'amnistia del 1946.

Secondo i dati recentemente reperiti relativi all'attività della CAS reggiana vennero condannate per collaborazionismo e crimini di guerra 240 persone, di queste 50 furono condannate alla pena capitale (6 sentenze eseguite, 13 usufruirono dell'amnistia, 18 furono annullate, solo nei rimanenti 13 casi i condannati scontarono una pena detentiva comunque non superiore ai cinque anni). Nel complesso quasi il 60% degli imputati godette comunque dei benefici dell'amnistia.

Gli omicidi politici del 1946

Si è accennato alle difficoltà del partito comunista a recuperare l'illegalismo diffuso fra i suoi militanti. A peggiorare la situazione concorreva anche la crescita vertiginosa dei militanti (passati dai 6200 della fine aprile agli oltre 44.000 di ottobre), fenomeno che poneva seri problemi di selezione e formazione dei quadri dirigenti e di effettiva applicazione della linea politica ufficiale. La presenza all'interno dei gruppi dirigenti stessi di posizioni differenziate non semplificava le cose. Non sembra particolarmente utile riproporre il dualismo fra un'anima legale e una clandestina, resta comunque il fatto che l'eliminazione fisica dell'avversario rimaneva, nei fatti, per alcuni gruppi di ex-resistenti interni al partito, una opzione reale e praticata, il tutto senza provocare interventi particolarmente efficaci da parte dei dirigenti.

Dopo la esplosione di violenza di fine aprile e maggio che portò alla uccisione in tutta la provincia di circa 500 fascisti (le ricerche condotte negli anni novanta ha definito questa cifra intorno alle 430 unità) (Magnanini, 1992), la situazione recupera velocemente livelli di normalità, con una quantità di omicidi fino alla fine anno non superiore alle 30 unità. Ma si innescò una nuova situazione che vedeva il verificarsi in varie zone della provincia di omicidi a sfondo politico che ebbero per vittime figure non coinvolte nel regime fascista o addirittura che avevano operato contro di esso. Simili azioni criminose rivelavano il persistere di zone franche dove l'autorità di figure emerse dalla Resistenza e con appoggi nella federazione comunista reggiana riuscivano a mantenere livelli elevati di autonomia, controllando le amministrazioni e i servizi locali, utilizzando ancora le reti clandestine di solidarietà attive durante la lotta armata. Zone come la bassa ovest o la zona costiera del Secchia videro il verificarsi di numerosi crimini (anche con venature di delinquenza comune) che scossero l'opinione pubblica, mantenendo a lungo un clima di intimidazione e violenza che bloccò il pieno recupero della normalità.

Il primo caso eclatante si verificò con l'uccisione dell'ing. Vischi, direttore delle OMI Reggiane (31 agosto 1945), omicidio che non solo portò al coinvolgimento diretto del segretario della Federazione comunista Arrigo Nizzoli e del segretario dell'ANPI Didimo Ferrari (già Commissario generale delle formazioni partigiane reggiane) ma provocò uno strascico di sparizioni e uccisioni fino a tutto il 1947.

L'ing. Arnaldo Vischi, che pure aveva avuto il 'gradimento' del CLN reggiano per il mantenimento del suo incarico presso l'importante complesso industriale (il più grande dell'Emilia prima del conflitto), fu ucciso, da ex partigiani, già dipendenti delle stesse Reggiane. Alla sua morte va collegata la sparizione di Nello Riccò, presunto esecutore materiale dell'omicidio, e l'assassinio di Adelmo Cipolli, avvenuto ancora nel giugno 1947.

Dopo l'uccisione di Vischi, che vide anche un coinvolgimento della Polizia partigiana e della Questura locale, nella prima metà del 1946 si susseguirono le uccisioni del'industriale Verderi (Sant'Ilario), il ferimento del vicesindaco Lui (a Reggiolo), l'assassinio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino di Correggio, l'assassinio del capitano Mirotti a Campagnola, dell'avvocato Farioli a Sassuolo, del Sindaco Farri a Casalgrande (l'ultimo omicidio, avvenuto il 26 agosto).

I responsabili vennero identificati dalle forze dell'ordine quasi nella totalità dei casi (solo il delitto Farri rimase senza colpevoli) e solo una gestione politicizzata e deviata a obiettivi strumentali delle indagini, nel corso degli anni cinquanta (come la recente riabilitazione di Germano Nicolini e Egidio Baraldi hanno dimostrato) impedì il raggiungimento della punizione dei veri colpevoli, i quali, conosciuti tempestivamente dai dirigenti locali comunisti, vennero da questi spesso protetti ed aiutati ad espatriare in Iugoslavia prima e in Cecoslovacchia poi per evitare la giusta condanna.

Lo stato di scarsa affidabilità del gruppo dirigente comunista reggiano e la sua tolleranza verso simili atti di violenza costrinse lo stesso Togliatti ad un intervento personale diretto nella tarda estate del '46, intervento in seguito al quale, unitamente alla sostituzione di Nizzoli con Valdo Magnani alla segreteria del partito, cessarono definitivamente i casi di violenza politica.

Bibliografia

  • G. Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, "Meridiana", n.22-23, 1995
  • G. Magnanini, Dopo la Liberazione, Bologna 1992
  • G.Ranzato, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G.Ranzato, Bollati-Boringhieri, Torino 1994
  • M. Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Marsilio, Venezia 1998
  • M.Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e dibattito politico a Modena (1945-1946), FrancoAngeli, Milano 1995
  • H.Woller, I conti con il fascismo: l'epurazione in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 1997

 

Pour citer cette ressource :

Massimo Storchi, Memoria, dolore, vendetta: La violenza del dopo Liberazione, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juin 2008. Consulté le 23/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/fascisme-et-seconde-guerre-mondiale/memoria-dolore-vendetta-la-violenza-del-dopo-liberazione