Entretien avec Davide Ferrario
Propos recueillis par Maurizia Morini (mars 2008)
Come è nata l'idea del viaggio nell'Europa dell'Est, che poi ha portato alla realizzazione del film?
L'idea è venuta inizialmente a Belpoliti pensando al viaggio di PrimoLevi dopo la liberazione da Auschwitz verso Torino; poi vedendo altri film è venuta l'idea del film. Certo, una bella idea! Ma per realizzarlo occorreva affrontare Levi che è personaggio rilevante; ho riletto La tregua e mi sono innamorato della scrittura di Levi. Il viaggio, oggi, è stata un'idea di scoperta dell'est e capire che c'era un parallelismo fra la condizione di Levi e noi intellettuali di oggi. Pure noi oggi viviamo come al termine di una tregua: per Levi si trattava della tregua fra la fine della seconda guerra mondiale e l'inizio della guerra fredda, per noi è quella fra la caduta del muro di Berlino e l'11 settembre 2001. È una guerra nuova, non dichiarata, con forme di minacce quotidiane; tutto questo mi ha spinto, ha cortocircuitato passato e presente.
Avete fatto un solo viaggio?
Un primo percorso esplorativo solo in due, io e Marco Belpoliti, per cercare i posti, luogo su luogo e sul campo venivano le idee, eravamo aperti al caso, al destino, non volevamo una cosa organica ma lasciare correre le cose e poi ordinarle; tornando abbiamo strutturato una griglia sulla condizione generale dell'Europa moderna e poi per ciascun paese un tema. Quel viaggio, come ogni viaggio ci ha cambiato. Sono poi seguiti altri due viaggi con la troupe.
Costruire sul campo è una sua modalità di lavoro?
Inglobo la casualità nel cinema, non mi piace ingabbiare la realtà ma raddoppiare la dimensione della vita. C'è rischio in questo ma è più divertente, stimolante e il destino ricambia. Intendo dire che se si affronta il destino armato di idee preconcette si finisce per farsi del male; esattamente come andare incontro alle onde di petto: se ci fai surf sopra, invece, puoi cavalcare con profitto anche l'apparente forza casuale del mare.
Pensando al parallelismo con Levi cosa c'è ancora e cosa no?
Certe cose non ci sono più, la famosa casa rossa è stata demolita negli anni Sessanta. Sono rimaste le sensazioni delle persone, il tempo si è come fermato. Per esempio il carattere dei russi, come vivono il tempo, la loro generosità e umoralità! Levi aveva ingrandito ciò che non era epico e certe sue descrizioni enfatiche oggi non sono tali.
Che cosa è cambiato?
La caduta del comunismo ha cambiato la realtà, soprattutto nelle grandi città. In particolare in Romania e Ucraina vi è, in conseguenza della presenza del capitalismo, un'accentuata polarizzazione della società. In Bielorussia una dignitosa povertà, si coglie il legame con la terra , l'arcaicità e il naturale passare del tempo. L'Europa di Levi era piena di rovine, l'Europa di oggi è piena di rovine fisiche, anche di relitti sociali; vi è anche frattura fra le generazioni: i giovani sono occidentalizzati, i vecchi non trovano più un senso alla loro vita.
Avete incontrato difficoltà e ostacoli durante le riprese del film?
In Bielorussia, un vice-sindaco e responsabile ideologico del distretto ci ha fermato e ci ha portato nell'ufficio del KGB, ci ha fatto molte domande sulle nostre intenzioni, aveva un atteggiamento difensivo quando noi intendevamo filmare le proprietà collettive; poi ha telefonato ai suoi superiori e da Minsk ha avuto permessi e quindi ci ha poi aiutato e controllato nello stesso tempo.
E in Ucraina, a Chernobyl?
Tutto intorno ci sono i segni della nube, oggi ci vivono 300 persone, mangiano e coltivano i prodotti della terra, vendono i funghi, mi ha colpito più di Auschwitz. Chernobyl impressiona di più perché dà l'idea di un'umanità passata, non è umano. Levi nel 1986 scrisse un articolo sul nucleare, disse che la peste non ha confini, criticava l'informazione; quella sovietica minimizzava e quella occidentale esagerava.
Nel film vi sono anche le riprese di una commemorazione ad Auschwitz.
Sì, erano presenti molti capi di stato, ma si è trattato di un rito, abbastanza vuoto, mediatico; mi ha colpito il fatto che i giornalisti stessero in una tenda al caldo, a guardare la TV; una virtualizzazione dell'esperienza, coprivano l'evento.
Pensando a Levi non si può dimenticare la sua tragica fine.
Quando Levi scrisse di un altro internato che si è suicidato disse: quando uno si uccide dopo Auschwitz, non si sa cosa passi per la testa del suicida. Per Levi non si può pensare alla premeditazione, non c' entra Auschwitz e se anche c'entrasse non si può giudicare da quell'ultimo atto e l'atto non dà la misura di ciò che Levi ha fatto durante la vita. Era responsabile di ciò che significa stare al mondo, della morte come condizione della vita; la vita è tregua fra due nulla e il suo gesto ha a che fare con la sua vita. Levi non ha mai ceduto le armi, anche se la storia rischia di ripetersi, non ha mai detto, come intellettuale: non ce la faccio più.
Davide Ferrario, regista, scrittore e produttore cinematografico si è laureato in Letteratura angloamericana all'Università Statale di Milano, ha girato numerosi cortometraggi e film (tra gli altri ricordiamo Tutti giù per terra e Dopo mezzanotte) ricevendo riconoscimenti anche internazionali.
La strada di Levi è un film-documentario che si ispira a La tregua di Primo Levi e ne ripercorre l'itinerario attraverso Polonia, Ucraina, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Austria, Germania e Italia. È un viaggio in cui si incontrano persone e luoghi. Sulle tracce di Levi, il film documenta la realtà d'oggi a partire da Auschwitz, in occasione della cerimonia commemorativa dei sessanta anni dalla liberazione, per chiudersi con parole di speranza pronunciate da Mario Rigoni Stern.
Pour citer cette ressource :
Maurizia Morini, Entretien avec Davide Ferrario, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), avril 2008. Consulté le 03/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/cinema/entretien-avec-davide-ferrario