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Sibilla Aleramo, «Una donna» (1906)

Par Barbara Solari - Institut Grossetan Historique de la Résistance et de l'Âge Contemporain , Milano Feltrinelli
Publié par Damien Prévost le 04/12/2007

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Scheda di lettura del romanzo ((Una donna)) di Sibilla Aleramo, pubblicato per la prima volta nel 1906.

Una donna di Sibilla Aleramo (scritto nel 1906) non è un diario, perché non scritto giorno per giorno. Non è un romanzo, perché racconta di vicende veramente vissute. Non è neanche un semplice libro di memorie o una autobiografia; è una spietata autoanalisi in forma letteraria su una parte della vita dell'autrice, quella che la porterà alla dolorosa decisione di lasciare il marito e il figlio per ritrovare se stessa e realizzare la propria vita. Sta tutto qui lo "scandalo" di un libro imbarazzante e provocatorio per l'epoca in cui fu pubblicato, diventato negli anni per alcuni testimonianza anzitempo del percorso di liberazione indicato dalle femministe degli anni Settanta (autocoscienza/presa di coscienza), per altri soltanto l'asserzione di un percorso sofferto e crudele di emancipazione: l'irriducibile dicotomia tra la maternità vissuta pienamente e la decisione di abbandonare il figlio, una scelta dettata dal bisogno di autodeterminazione, di liberazione dal dover essere. Sibilla Aleramo, nella scelta tra essere se stessa e dover essere moglie, madre, schiava di una vita non sentita come propria, sceglie la prima opzione, pur tra mille pene, dolori e rimorsi.

In questa storia si intrecciano le figure di un padre apparentemente illuminato e progressista, che delega alla figlia appena adolescente parte della direzione della fabbrica; un padre che però ha una doppia faccia e una doppia vita, essendo anche un marito egoista nei confronti della moglie e traditore, incapace di comprendere - e probabilmente causa del - il progressivo declino della moglie nella follia. Vi è poi, appunto, la figura della madre di Sibilla Aleramo, paradigma della donna che accetta il proprio ruolo di madre e moglie senza riserve e che, per mantenere questo ruolo, subisce in silenzio il tradimento e l'indifferenza del marito, vivendo non per sé ma per la propria famiglia e trovando, infine, in una progressiva follia, e quindi nell'inconsapevolezza, una sorta di rifugio.

Fondamentale per comprendere l'evoluzione di Sibilla Aleramo da semplice spettatrice della propria vita a protagonista della stessa, è la figura del marito, legata a doppio nodo al tradizionale ruolo del "padrone", ai rituali della violenza e del possesso. Appena quindicenne, Sibilla lo sposa perché convinta di "appartenere" all'uomo che l'ha stuprata:

Il primo grande dolore che avevo provato mi era venuto da mio padre, dalla scoperta della debolezza d'un uomo che m'era parso un dio. Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando l'unione con un essere che m'aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m'imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola. (pp. 60-61)

Pian piano si accorge che la sua vita si sta appiattendo sulla commiserazione di sé, sui sogni perduti, sui doveri coniugali ai quali cede con distacco.

La maternità viene percepita allora come una via d'uscita, un modo per dare un significato alla propria vita. Prendersi cura di un altro essere umano le appare come liberatorio e appagante.

Forse era soltanto la legge del sangue: quelle membra che erano uscite di me, io le pensava istintivamente animate dall'identico mio soffio, allora e sempre; quella creatura mia [corsivo nel testo, ndr] doveva nella vita riflettere le mie azioni, lottare con me per l'elevazione. (p. 72)

Ma man mano, con lo scorrere del tempo e con il maturare di una consapevolezza nuova - l'urgenza di esprimere se stessa e la propria natura, il bisogno di riprendere in mano le redini della propria vita - l'autrice si rende conto che manca dello "spirito" per poter guidare serenamente la vita del proprio figlio.

E prende corpo in lei la consapevolezza che la maternità non può e non deve essere vissuta come un supplizio, che il dovere di ogni essere umano è quello di esprimere se stesso nella propria interezza, che una "buona madre" non è una "semplice creatura di sacrificio": deve essere innanzitutto "una donna, una persona umana".

La fuga verso il nord, quindi, è il primo passo verso la liberazione, verso l'esprimere se stessa. Una scelta fatta anche per preservare la serenità del figlio che a tutto aveva diritto tranne che crescere con una madre che provava disgusto per la propria vita. Pronta anche a morire di crepacuore per la lontananza dal figlio ma con la flebile speranza, che è poi il motivo per cui mette su carta la prima parte della sua vita:

Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore! (p. 157)

 

Pour citer cette ressource :

Barbara Solari, Milano Feltrinelli, "Sibilla Aleramo, «Una donna» (1906)", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), décembre 2007. Consulté le 29/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/sibilla-aleramo-una-donna