Malaparte e Dante
Introduzione
“Avete mai incontrato un toscano che si accontenti degli aspetti delle cose […] e non veda in loro il loro spettro, quel che si nasconde dentro le cose, nell'inferno delle cose sensibili” (Malaparte, Maledetti toscani, 2016, 1474).
L'affermazione e la definizione della propria toscanità sono per Malaparte, fra altre cose, un modo di rivendicare il suo legame con Dante. L’essere toscani significa infatti essere, come Dante, fra “i soli testimoni dell'inferno, di quel libero mondo oltreterreno” (ibid., 1475).
In questo contesto, l'inferno può essere interpretato secondo tre diverse prospettive. Innanzitutto, l'inferno rinvia a una tematica, quella della morte e del male come fatalità. In secondo luogo, la dimestichezza con l’inferno è la descrizione metaforica di una certa disposizione a non appagarsi della realtà immediata. L'inferno è il nome dato da Malaparte a un'altra dimensione descrivibile soltanto per mezzo di un'estetica surrealista che fa coincidere il materiale e l'ineffabile.
Ma, oltre a un tema e a un'estetica, la frequentazione dell'inferno è l'espressione metaforica di una ricerca spirituale e morale. Per Malaparte come per Dante, la conoscenza del mondo dei morti è infatti condizione di libertà: “Poiché, scrive il romanziere, la libertà non è altro che la conoscenza del rapporto fra la vita e la morte, fra il mondo dei vivi e quello dei morti” (ibid., 1476). In terzo e ultimo luogo, Malaparte rivendica quindi con Dante una filosofia comune per cui la libertà consiste nella consapevolezza della propria condizione.
È dunque da interrogare la continuità non solo tematica ed estetica ma anche filosofica tra i due scrittori toscani. Sembra che la sua missione di “inviato speciale nella terribilità della storia” (Maurizio Serra) faccia dell'impegno di Malaparte un'attualizzazione del viaggio sotterraneo di Dante.
Tuttavia, il divario tra inferno dantesco e inferno malapartiano è immediatamente avvertibile: nella Divina Commedia, l'inferno non è il termine necessario di ogni esistenza. Esiste per il protagonista la possibilità di uscirne. Per Malaparte invece non c'è un fuori né un dopo. Sia Kaputt che La pelle propongono una riduzione dell'esistente a un inferno. Di conseguenza, il percorso di Dante può avere una valenza morale, storica, mentre quello di Malaparte sembrerebbe dover condurre irrimediabilmente alla disperazione e al nulla. Il confronto del progetto malapartiano con quello dantesco obbliga dunque a interrogarsi sulle determinazioni delle loro rispettive testimonianze.
Si tratterà prima di indagare l'ispirazione tematica ed estetica che i romanzi malapartiani attingono dalla prima cantica della Divina Commedia per poter poi interrogare le convergenze filosofiche e morali di queste due poetiche.
I. L'Europa malapartiana, un'attualizzazione dell'inferno dantesco
A. Una continuità tematica
L'inferno per Malaparte come per Dante si definisce come un luogo di espiazione, cioè come spettacolo della degradazione umana per colpa dell'umanità stessa. L'Italia e l'Europa malapartiane hanno in comune con l'inferno dantesco la caratteristica di rappresentare un mondo “post-storico” dove l'umanità impotente assiste alle conseguenze della propria autodistruzione. Il significato della parola “kaputt” come riassunto di “ciò che noi siamo, di ciò che ormai è l'Europa”, un mondo “rotto, finito, andato in pezzi, in malora” (Malparte, Kaputt, 2016, 431), potrebbe descrivere tanto la desolazione moderna quanto la condizione dei dannati della Commedia.
1. Una desolazione fisica
L'espiazione infernale consiste in primo luogo nell'assistere al disfacimento continuo e senza termine dei corpi, in uno spazio dove il corpo si riduce a materia organica. Al primo capitolo del romanzo La Pelle, “La peste”, Malaparte descrive l'umiliazione dei corpi come segno più ovvio della degradazione morale dei suoi contemporanei: “Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carponi nel fango baciando le scarpe dei loro “liberatori”” mentre gli americani “si aggiravano timidi, spauriti […] quali importuni testimoni dell'universale vergogna” (La pelle, 995). Il paragone di questo morbo con le pesti del Medioevo sottolinea il valore d'esemplarità che Malaparte cerca di dare alla sua testimonianza.
Il figurare in termini fisici il morbo morale può ora far pensare al castigo dei falsari dell'ultima delle dieci bolge dantesche, colpiti da una lebbra incurabile. Anche lì l'aspro realismo della descrizione è accentuato dal riferimento ai grandi episodi di peste dell'Antichità, come la peste di Egina, e ai feriti dei campi di battaglia.
“Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.” (Dante, Inferno XXIX, 45-51)
I corpi dei napoletani obbligati a strisciare, “carponi” nel fango, a trascinarsi dinanzi agli americani evocano quelli dei falsari, mentre il disagio dei fieri americani ricorda quello di Dante e Virgilio nel “tristo calle”:
“Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.” (ibid., 67-72)
2. Un'umanità imbestialita
La degradazione morale, figurata dal morbo fisico, trova un'espressione spettacolare negli atteggiamenti dei personaggi. Si assiste infatti alla regressione iperbolica di uomini che perdono la loro natura di uomini. Il capitolo XVI di Kaputt, con il titolo paradossale “Uomini nudi”, presenta creature prive da ogni umanità. Questo capitolo descrive una disumanizzazione particolarmente ispirata all'immaginario dantesco: “Giungeva dal di fuori uno strepito straordinario: era un coro di latrati, di miagolii, di grugniti, pareva che un branco di cani, di gatti e di porci selvatici si azzuffassero nell'atrio del palazzo. Ci guardammo in viso l'un l'altro meravigliati. Ed ecco la porta si aprì, e sulla soglia apparve, ed entrò carponi, il Generale Dietl, seguito da un gruppo di ufficiali che camminavano a quattro zampe l'uno dietro l'altro”. (Malaparte, 2016, 844-845)
Nel canto XIII dell'Inferno, ritroviamo la fonte possibile di questa sceneggiatura, con la stessa anticipazione dell'entrata rumorosa dei personaggi, l'allusione al cinghiale, detto “porco selvatico” e la locuzione “ed ecco”, che nella Commedia annuncia in modo ricorrente le svolte narrative:
“Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.” (Dante, Inferno XIII, 109-116)
o ancora, tra i falsari dell'ottavo cerchio:
“Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.” (ibid., XXX 21-26)
Il riferimento alla prima cantica per evocare l'infierire dei nazisti – che contrasta con la loro paradossale raffinatezza - ci riconduce forse alla pretesa di proporre una visione antropologica piuttosto che storica. Questo stato selvaggio riguarda infatti tanto i nazisti vincitori in Kaputt quanto i popoli vittime ne La Pelle. Ad esempio nel capitolo “Le parucche”, la folla isterica irrompe, dopo il bombardamento, nell'ospedale per dilaniare, lacerare i cadaveri: “E quel che non aveva potuto il bombardamento, finì di fare quel macabro furore, quella pazza pietà” (Malaparte, 2016, 1039). La sintassi enfatica della sentenza compendia tutta la sofferenza morale che rende possibile questi atti selvaggi. Il suo carattere ellittico ricorda senz'altro la formula conclusiva del racconto di Ugolino:
“Poscia, più che'l dolore potè'l digiuno” (Dante, Inferno XXXIII, 75).
B. Un'ispirazione estetica
1. Una natura ostile
L'ispirazione dantesca dei romanzi si riconosce innanzitutto da elementi scenografici molto caratteristici: in entrambe le opere vediamo gli uomini sovrastati da elementi ostili che si scatenano e li mortificano. La forza cieca della natura è espressa in primo luogo dalla sua manifestazione pura, sotto le sue quattro forme elementari. Ad esempio, in Kaputt all'inizio del capitolo IX, “I cani rossi”, con la spaventosa alleanza tra acqua e terra: “Pioveva da giorni e giorni, il nero e profondo mare di fango dell'Ucraina saliva lentamente all'orizzonte. […] il fango poco a poco gonfiava come una pasta di pane quando comincia a lievitare. L'odore grasso del fango giungeva nel vento dal fondo dell'immensa pianura...” (Malaparte, 2016, 689).
L'inquietante crescita del fango si ritrova in particolare al canto VI dell'Inferno dove i golosi si ritrovano immersi in una stessa “sosta mistura” descritta in questi termini:
“Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.” (Dante, Inferno VI, 6-11)
Un altro elemento funge da leitmotiv sia in Malaparte che in Dante: è il vento, onnipresente nei romanzi, riferito esplicitamente alla “bufera infernale di Dante” (Malaparte, La pelle, 2016, 1245), del canto V. Il fuoco entra in contrasto con l'acqua nel capitolo dei cavalli di ghiaccio e diventa protagonista del capitolo IX de La pelle, il cui titolo è una citazione del castigo dei violenti contro Dio radunati sul sabbione infuocato:
“Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.” (Dante, Inferno XIV, 28-30)
2. Il palcoscenico della storia
L’estetica malapartiana ricorda quella dantesca anche per una speciale e ricorrente scelta scenografica: la divisione quasi sistematica tra uno spettacolo corale e uno o due spettatori. Già in Tecnica del colpo di Stato al capitolo XIII avvertiamo un’opposizione tra, da una parte, il punto di vista esterno di Malaparte e di Israël Zangwill esposto sul tono di una conversazione placida, e dall’altra, la narrazione dinamica della cosiddetta rivoluzione fascista. Come Virgilio e Dante nei gironi dell’inferno, Malaparte e i suoi vari compagni di viaggio assistono a uno spettacolo che metaforizza la storia europea, se non universale. Tra l’azione e quelli che la vedono, sembra che ci sia una differenza di natura, una frattura insuperabile, e una distinzione dei ruoli molto definita.
In Kaputt, questa scenografia condiziona l’organizzazione di determinati brani come la visita del ghetto di Varsavia insieme a una scorta S.S., guida demoniaca paragonata con l’angelo dell’Antico Testamento – figura malapartiana dell’astrazione – per il suo distacco nei confronti degli abitanti della “città proibita” (Malaparte, 2016, 535). Tale compagnia non ci riconduce ancora alla relazione dialogica del duetto dantesco. Mette tuttavia in risalto la dicotomia tra attori e spettatori della storia, che è anche una dicotomia tra masse e individui, tra istanza attiva e istanza riflessiva. Gli ebrei incontrati da Malaparte e dalla sua scorta non sembrano dotati di una consistenza individuale paragonabile a quella degli spettatori. Lasciata ogni speranza, queste anime dannate illustrano una condizione di sofferenza collettiva insuperabile. Tale condizione, vera e propria sostanza della storia, non include Malaparte-personaggio, come i vari castighi infernali non includevano Dante-personaggio. Esteriore, Malaparte contempla invece lo svolgersi della storia come “in teatro in una poltrona delle prime file” (ibid., 532).
Ma è soprattutto ne La pelle che questa istanza riflessiva del personaggio-spettatore diventa duale. Malaparte recita sempre la parte dell’osservatore esterno ma la sua consapevolezza storica si spiega ormai tramite dialoghi con un altro personaggio, Jack Hamilton, o talvolta Jimmy, nello stesso modo in cui Dante esplicitava gli accadimenti nel corso dei suoi dialoghi con Virgilio. Il capitolo IX, “La pioggia di fuoco”, inscena questa distinzione di ruoli. Il punto di vista di Malaparte e Jimmy sulle folle terrorizzate dalla rabbia del Vesuvio emana da una dimensione astratta, onnisciente, che resiste al furore collettivo. Il primo capitolo, “La peste”, è anch’esso emblematico di questa separazione tra i soggetti impotenti della storia – le masse napoletane colpite dal misterioso morbo – e gli individui “puri”, “sani” ma senza presa su questa fatalità storica, ossia l’ufficiale americano e Malaparte stesso. L’indecisione della posizione di quest’ultimo tra campo dei vinti e campo dei vincitori, rende ambigua, paradossale, la sua cosiddetta purezza. Il suo apparente distacco mette in gioco problematiche morali che affronteremo più avanti.
3. Una narrazione “per immagini”
Per finire, l'espediente estetico più appariscente è il “modo di narrare per immagini” come Malaparte stesso scrive nei suoi appunti per un'intervista (Martellini, 1995). Se prendiamo la scena famosa dei “cavalli di ghiaccio” prigionieri nel lago di Làdoga, vediamo quanto la lettura dell'Inferno sia stata feconda per Malaparte. Possiamo infatti confrontare il brano di Kaputt con l'immagine che colpisce Dante quando scorge i dannati confitti nel Cocito gelato:
“Un orrendo e meraviglioso spettacolo apparve ai loro occhi. Il lago era come un’immensa lastra di marmo bianco, sulla quale eran posate centinaia e centinaia di teste di cavallo. Parevano recise dal taglio netto di una mannaia. Soltanto le teste emergevano dalla crosta di ghiaccio. Tutte le teste erano rivolte verso la riva. Negli occhi sbarrati bruciava ancora la fiamma bianca del terrore. Presso la sponda, un groviglio di cavalli ferocemente impennati sorgeva fuor dalla prigione di ghiaccio” (Malaparte, 2016, 493).
Nel cerchio 9 dell'Inferno, ritroviamo il lago gelato, con le teste dei traditori che emergono. L'acqua materializzata connota la durezza dei cuori, come suggerisce il paragone con il vetro o con il ferro e il legno in Dante, con il marmo in Malaparte.
“Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
(…) livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.” (Dante, Inferno XXXII, 22-35)
A questo punto possiamo interrogarci sul significato di questi riferimenti. La scelta di scambiare i dannati con dei cavalli fa venir meno l'idea di contrappasso, di giustizia. Infatti in Dante la durezza della prigione di ghiaccio materializzava la durezza di cuore dei condannati, mentre i cavalli sono figure dell'innocenza e rendono arbitrario il doloroso spettacolo. Bisogna quindi riflettere sul senso di tali riferimenti.
II. Il male e la pietà, principi di una filosofia comune?
Per interrogare la possibilità di una continuità filosofica tra i due autori, occorre innanzitutto sottolineare l'opposizione tra le loro due prospettive sulla storia, specialmente in Kaputt. Potremo tuttavia vedere che ne La pelle questa antitesi viene progressivamente superata dalle preoccupazioni morali di Malaparte e dalla sua riflessione sulla giustizia universale. Questa evoluzione ci consentirà di notare gli spunti danteschi alla meditazione malapartiana sulla pietà.
A. Due prospettive escatologiche antitetiche
È già stata accennata nell'introduzione la differenza di significato tra l'inferno dantesco e quello malapartiano. La vocazione redentrice del cammino sotterraneo fa da contrappunto all'insuperabilità dell'esperienza malapartiana. L'infernale spettacolo dell'Europa post-bellica appare in Kaputt come la traduzione di un'esperienza di disperazione e di rinuncia a trovare nel mondo i segni di una possibile salvezza.
La divergenza morale tra i due propositi fa considerare a Michèle Coury la visione malapartiana del mondo come antitetica a quella di Dante:
“Si Malaparte emprunte bien des éléments à la scénographie dantesque, le propos théologique est aux antipodes. Dans l’enfer de Kaputt, les suppliciés ne subissent pas le juste châtiment divin mais la dévastation arbitraire d’une nature indifférente à la cruauté et à la souffrance du vivant. Le déluge de feu et de glace qui ne connaît ni coupables ni innocents emporte dans un même sacrifice humains et animaux, pris de panique et tremblants d’épouvante.” (Coury, 2017)
In altri termini, M. Coury mette l'accento sull'antagonismo morale tra il poeta e il romanziere. C'è per Dante una redenzione possibile mentre per Malaparte, la dannazione è irrimediabile. Il suo è un inferno senza giustizia e senza senso. Il mondo è “un vero inferno” (Malaparte, Kaputt, 2016, 730), uno spazio morto simile a un organismo ridotto alla sua fisicità. Se l'ispirazione dantesca è soltanto estetica, ci possiamo chiedere se l'inferno malapartiano sia quello di Dante senza la sua teologia?
B. Malaparte moralista, l'irreprimibile sete di giustizia
La questione del senso eventuale dei castighi sofferti dall'umanità ci consente di avvertire un'evoluzione tra i due romanzi Kaputt e La pelle. Per mettere in evidenza la nuova prospettiva escatologica de La pelle, partiremo da tre scene molto rappresentative di questa tendenza crescente di Malaparte a cercare dietro il male e la sofferenza l'espressione di una giustizia universale. Questi tre esempi hanno in comune il loro richiamo all'immaginario dantesco.
1. Un dato antropologico
Il primo esempio di riferimento a una giustizia intrinseca all'ordine naturale non impegna necessariamente la visione di Malaparte stesso. L'esteriorità del narratore al punto di vista dei personaggi potrebbe far concludere a una distanza reale. Malaparte si presenterebbe come un osservatore neutro che riterrebbe la ricerca di senso e di giustizia un dato antropologico irreprimibile, un bisogno umano, religioso, e non un indizio della realtà di questa giustizia. Al capitolo “La pioggia di fuoco”, mentre la città si consuma nelle fiamme, troviamo quest’interpretazione impersonale dell’eruzione del Vesuvio: “[…] era finalmente venuto il giorno del giudizio e il castigo di Dio non avrebbe risparmiato né donne, né vecchi, né bambini.” (Malaparte, La pelle, 2016, 1243)
Inoltre, resta da capire se Malaparte si contenti di dar voce ai napoletani o se venga anche lui pervaso dal timor sacro collettivo. La formula impersonale fa infatti esitare tra l’identificazione di un punto di vista interno oppure un giudizio onnisciente. La seconda interpretazione ricollegherebbe il romanziere alla posizione di narratore-moralista adottata da Dante quando descrive, senza ambiguità, il castigo dei violenti del settimo cerchio, assaliti da una crudele pioggia di fuoco:
“O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!” (Dante, Inferno XIV, 16-18)
Ritroviamo in questi versi gli accenti profetici e la voce accorata del poeta, tormentato dalla visione delle torture patite dai suoi simili. L’ispirazione dantesca del brano può inclinare a pensare che Malaparte non restituisca un punto di vista interno, quello dei napoletani terrorizzati, ma la propria intuizione apocalittica.
2. Il contrappasso
Un secondo esempio incita a prestare agli avvenimenti un valore di contrappasso. L'orrore circostante sarebbe una punizione meritata e proporzionata ai misfatti umani. Si tende a riconoscere in questa interpretazione implicita, suggerita senza enfasi, la percezione del narratore stesso. Si tratta del capitolo VI de La pelle “Il vento nero” in cui la morte del giovane soldato americano, Fred, dà luogo a una scena molto pittoresca, riassunta dalla formula “un Watteau dipinto da Goya”:
“Da un enorme squarcio al ventre gli intestini gli colavano lentamente giù per le gambe, aggrovigliandosi fra le ginocchia in un grosso nodo bluastro” (Malaparte, 2016, 1147).
Lo zoom sulla ferita descritta in termini iperrealistici fa di Fred un oggetto di ribrezzo. Questa scelta estetica prende un nuovo rilievo se la confrontiamo con un passo dantesco:
“Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com'io vidi un, cosi non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia” (Dante, Inferno XXVIII, 22-27)
Il confronto con questa scena della nona bolgia del cerchio 8, dove sono raccolti i seminatori di discordia e di scandalo, fa del riferimento a Dante una condizione di comprensione strutturale, e non soltanto di apprezzamento estetico, del brano malapartiano. Dante per designare Maometto, Malaparte per descrivere gli americani, usano gli stessi espedienti dissacranti. Questo parallelo evidenzia la colpa degli americani: aver seminato lo scandalo a Napoli. Da questo punto di vista, l'innocenza individuale del giovane Fred è compensata dall'idea di colpa collettiva dell'invasore.
3. L'ultimo giudizio
Il terzo e ultimo esempio che proponiamo si riferisce esplicitamente alla questione della giustizia dell'ordine umano con una riscrittura originale del tema biblico dell'ultimo giudizio. Non si tratta più di uomini ansiosi di ricavare dagli avvenimenti un senso che giustifichi la violenza e il male ma di una sorte di coro mostruoso che commenta e giudica le vicende umane. Svolta nel capitolo “Il processo”, questa scena enigmatica concepisce un'altra dimensione, fuori dal mondo vivo come dal mondo morto, popolato da esseri né vivi né morti. Questa scena è enigmatica ma il confronto con il testo dantesco può fornire elementi di interpretazione. La descrizione seguente può infatti ricordare l'arrivo di Dante nel regno di Lucifero, nel girone dei traditori:
“In ognuno di quei boccali era immerso un feto umano […] orribili feti, quali in piedi, quali seduti sul fondo del boccale, quali raccolti sulle ginocchia in atto di spiccare un salto” (Malaparte, La pelle, 2016, 1314).
“Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l'ombre tutte eran coperte,
e transparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com'arco, il volto a' piè rinverte.” (Dante, Inferno, XXXIV, 10-15)
La similitudine dantesca che paragona i dannati con la festuca nel vetro evoca il testo de La pelle. In questi due brani, troviamo una stessa reificazione dei corpi contorti e ridotti a una materia indefinita. Questa natura insieme misteriosa e mostruosa accomuna i feti di Malaparte con le ombre dell'ultimo cerchio.
Tra i personaggi che compongono l'inquietante tribunale di feti, si distingue una creatura più inquietante ancora: “il re di quello strano popolo: un orrendo e gentile Tricefalo, un feto con tre teste” (Malaparte, La pelle, 2016, 1314).
Ora la funzione di quel giudice tricefalo può essere esplicitata dal riferimento allo stesso canto dell'Inferno sopracitato:
“Lo'mperador del doloroso regno […]
Oh quanto parve a me gran meraviglia
quand'io vidi tre facce a la sua testa!” (Malaparte, Inferno XXXIV, 28-38).
La rappresentazione di Lucifero con tre teste consente di capire la tonalità diabolica del tribunale infernale che giudica Mussolini.
La volontà di dare senso al caos è quindi presentata da Malaparte come una tendenza irresistibile dello spirito umano. L'oscillazione tra una percezione oggettiva del caos, della distruzione cieca e un'intuizione soggettiva del senso, della possibilità di trarre un significato morale, è una costante della scrittura del romanziere e lo riallaccia all'autore della Commedia. Un concetto in particolare cristallizza questa tensione, la nozione problematica di pietà.
C. Il senso religioso della pietà
La pietà potrebbe essere la manifestazione soggettiva dell'intuizione di una giustizia possibile. Il carattere enigmatico e moralmente problematico del termine nell'opera di Malaparte potrebbe venire esplicitato dal suo uso dantesco.
Nella Commedia, la pietà esprime la tendenza del poeta a identificarsi con i dannati, a provare compassione e riconoscere la loro comune umanità: gli incontri con Paolo e Francesca, con Ciacco o con Pier della Vigna, per citare i più famosi, muovono la pietà di Dante. Questa è tuttavia una tendenza contro la quale deve lottare. Infatti la pietà spontanea del poeta smarrito viene condannata da Virgilio perché implica un rifiuto della giustizia divina. In inferno ogni cosa è come deve essere, giusta. La pietà-compassione (in francese “la pitié”) non rispetta sempre le leggi della pietà nel senso di osservanza della legge divina (la pietà religiosa).
“Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, si che la mia scorta
mi disse: “Ancor se' tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand'è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?” (Dante, Inferno XX, 25-30).
Allo stesso modo, Malaparte impone a se stesso di non provare pietà. L'assenza di compassione corrisponde alla forma di superomismo alla quale aspira. Implica un'accettazione stoica dell'ordine naturale, della sua giustizia incomprensibile. L'esaltazione del senso della fatalità e dell'assenza di pietà è un motivo ricorrente, per esempio negli autoritratti Donna come me o Cane come me (Malaparte, Racconti, 2016, 361 e 376). La personalità del narratore di Kaputt illustra il raggiungimento di questo ideale di non-partecipazione. Il suo laconismo e il suo distacco, anche di fronte agli ebrei del ghetto, sono espressione di una pietà paradossale. Infatti Malaparte esprime la sua pietà nei confronti delle carogne di macchine, oggetti inanimati, al capitolo “Patriacavallo”. Al capitolo “I cani rossi”, i russi manifestano compassione per i tedeschi, i carnefici, che uccidono i cani. La scelta di non usare mai il termine di pietà nei confronti delle vittime (se non in modo riflessivo: Louise a pitié d'être femme, non a caso dopo riflessioni sulla reversibilità del rapporto tra carnefice e vittima) suona come una provocazione che pone la questione del valore morale della disposizione compassionevole.
Ne La pelle, la pietà intesa nel senso di compassione viene dotata da una connotazione negativa. Per esempio, la pietà degli americani è descritta come la causa morale della peste metaforica che colpisce Napoli (Malaparte, 2016, 997). Invece quando compare in senso positivo – per esempio la virtuosa pietà dei napoletani – riveste il senso antico di pietas, di timor dei con lo spirito di rassegnazione che la caratterizza. È il senso che possiamo dare all’espressione che conclude “La pioggia di fuoco”: “Pieta, pietà. Pietà anche per te” (ibid., 1255). Questa formula di accettazione della crudeltà naturale suona come un “così sia”, un “amen”. Per Dante come per Malaparte, la pietas deve trionfare della compassione.
Ma Dante personaggio, malgrado il rimprovero di Virgilio, continua di esprimere empatia e commiserazione fino agli ultimi canti. Le esortazioni di Ugolino a compatire risuonano come singhiozzi del poeta stesso:
“Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?” (Dante, Inferno XXXIII, 40-42)
La pietà-compassione, per Dante, non è sempre espressione di una rivolta contro Dio. È condannabile quando contesta la legittimità e la necessità della pena ma virtuosa se si trasforma in volontà di aiutare, in misericordia o disposizione alla caritas. Consiste nel ricordare ai vivi la memoria dei dannati gloriosi e nel pregare per redimere le anime del purgatorio.
Malaparte, anche quando afferma di non provare compassione, si mostra alcune (rare) volte mosso da una misericordia attiva. Nel capitolo di Kaputt “Patriacavallo” dice di provare pietà soltanto per la macchina in putrefazione, ma in pratica prova a salvare il carrista immerso nel fango. Nel capitolo de La pelle “Il vento nero” prova a staccare gli ebrei crocifissi. Nel capitolo “La bandiera” dello stesso romanzo aiuta i parenti del miserabile schiacciato dal carro. La misericordia o pietà-carità, per Malaparte, non si esprime tramite parole: è attiva o non è. Dante-poeta vuole sublimare la compassione di Dante-personaggio in un'opera che sia anche incitazione ad agire. Allo stesso modo, la compassione è per Malaparte disprezzabile quando è scissa dall'atto: diventa sinonimo della falsa retorica che ha sempre a cuore di estirpare.
La retorica è una pietà empia, una passione senza atto, mentre l’espressione della pietà deve essere immediata. Deve essere azione o immedesimazione. Il soggetto deve innanzitutto avere se stesso per oggetto di pietà, come Louise, o Malaparte all’occasione dell’episodio del sigaro (Malaparte, Kaputt, 2016, 545-546). L’oggetto di pietà non sono le ragazze ebree ma Malaparte stesso, per la sua incapacità ad agire. La vera pietà, la pietà pia per Dante come per Malaparte è auto-comprensiva, riflessiva. A questa riflessività hanno secondo Malaparte rinunciato gli intellettuali moderni. Per non essersi riconosciuti in quelli che soffrono o fanno soffrire, sono diventati “crudeli” (ibid., 556). Infatti una pietà proclamata che definisce il suo oggetto senza coinvolgere attivamente il proclamatore è un discorso compassionevole ma spietato poiché Malaparte fa dell’astrazione la madre della crudeltà. In altri termini, l’alternativa tra pietà attiva e astrazione crudele non conosce nessuna via d’uscita.
Conclusione
È necessario distinguere l'escatologia dantesca dall'inferno senza uscita di Kaputt. Tuttavia sembra che l'inferno malapartiano non si riduca al caos e abbia una ragione di essere. I problemi del male, della giustizia dell'ordine naturale e umano vi si pongono irresistibilmente. Infatti la pietà che l'uomo prova di fronte alla creatura che soffre costituisce in negativo l'esigenza di una giustizia, esigenza empia se si limita a rifiutare passivamente il reale, ma salvatrice se si traduce immediatamente in un sentimento onnicomprensivo, attivo, corrosivo. Questa immediatezza è azione – ma Malaparte agisce poco –, o semplicemente immedesimazione che rende possibile il viaggio. Diversamente da un’Anita Bengenström, scandalizzata dagli episodi di antropofagia (Malaparte, Kaputt, 2016, 496), Malaparte può come Dante capire le ragioni di un Ugolino moderno perché sa che il vero inferno non risiede nelle superfici, neanche quelle più atroci, ma nella pietosa anima dell'uomo. E non si può esplorare questo inferno immateriale senza una pietà compassionevole ossia senza umanità. Così la perplessità di Malaparte davanti al “buio inferno” interiore di Frank è meno un ostacolo che un avvio alla sua metafisica del male.
Lì è il paradosso deliberato di Maledetti toscani: presentare come una specificità regionale la disposizione più umana che esista.
Bibliografia
COURY Michèle, 2017, “La beauté et l'enfer se disent à voix basse: dire le mal et témoigner dans Kaputt” in Cahier d'études italiennes n. 24, https://cei.revues.org/3378. Consulté le 16/09/2017
MALAPARTE Curzio, 2016, Opere scelte, IV edizione I Mondadori, a cura di Luigi Martellini, Mondadori
MARTELLINI Luigi, 1995, “Malaparte tra cinema e letteratura” in Chroniques italiennes n. 44, http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/PDF/44/Martellini.pdf. Consulté le 16/09/2017
SERRA Maurizio, 2011, Malaparte, Vies et légendes, Grasset&Frasquelle
Pour citer cette ressource :
Marie Lucas, "Malaparte e Dante", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2017. Consulté le 06/10/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/malaparte-e-dante