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La specularità in Calvino

Par Eleonora Galloni : Etudiante en Master 2 - Université de Bologne Alma Mater Studiorum
Publié par Alison Carton-Kozak le 09/07/2017

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Questo articolo si pone l’obiettivo di analizzare il tema della specularità in tre opere della maturità calviniana: ((Le città invisibili))(1972), ((Se una notte d’inverno un viaggiatore)) (1979) e il postumo ((Lezioni americane)) (1988). Con le sue parole leggere, lo “scoiattolo della penna” esplora ogni sfumatura dell’azione riflettente: essa riproduce insensibilmente, moltiplica le immagini, si fa strumento di mediazione. Il tutto nel quadro delle secolari opposizioni tra essenza e apparenza, tra identità e alterità. Insomma, i multiformi specchi di Calvino riflettono nel più ampio senso del termine: non solo riportano un’immagine ma anche, densi come sono di significati, spingono il lettore all’attività critica, quella che chiamiamo, appunto, riflessione.

Introduzione

Lo specchio, in quanto strumento magico capace di riflettere la realtà, di rivelare e al contempo nascondere, di carpire il senso più profondo delle cose, ha da sempre rappresentato un fecondo elemento d’ispirazione in letteratura, un punto di partenza per riflessioni inedite e di singolare profondità. L’osservazione delle immagini riflesse, queste copie speculari di noi stessi e del mondo, predispone la mente ad una molteplicità di considerazioni, di idee; spiccano tra tutte il tema del doppio, dell’identità, della bellezza e della vanità. Un autore che ha saputo cogliere e sviluppare la molteplicità di spunti contenuti in potenza nell’immagine emblematica dello specchio, è stato lo scrittore italiano Italo Calvino. La sua originalità risiede nel fatto che egli non ha mai voluto delineare una posizione univoca o ridurre la prospettiva ad una sola problematica centrale. La specularità compare all’interno della quasi totalità delle opere di Calvino, ma in maniera pienamente indipendente; ogni volta si va ad approfondire un aspetto differente, una nuova nuance, una venatura precedentemente ignorata. In Il visconte dimezzato la tematica si ritrova nella simmetrica e manichea divisione del protagonista, nelle Città invisibili lo specchio è un inquietante, gelido, onnicomprensivo tappeto d’acqua, in Se una notte d’inverno un viaggiatore l’accento è messo sulla molteplicità, sul senso di vertigine dato dell’aumento esponenziale delle immagini, sul desiderio di nascondersi per sfuggire alla morsa pietrificante d’indefiniti nemici. In ognuno dei testi calviniani, diversi per forma, struttura e tematiche, il discorso viene affrontato da prospettive diverse, come se a parlare fossero autori differenti, l’uno interessato ad una particolare sfumatura, l’altro ad un'altra. Ciò contribuisce a disegnare, agli occhi del lettore un mosaico di sorprendente eterogeneità; la lettura comparata dei differenti elementi che compongono il quadro d’insieme, si rivela al contempo complicatissima e affascinante, come se da vari frammenti di marmo, una mano, un piede, una spalla, potessimo passo dopo passo ricostruire la maestosità della statua.

In che misura le numerose riflessioni dell’autore possono essere lette come un continuum, nella storia della letteratura, di posizioni precedenti e problematiche già affrontate? Dove risiede invece la novità, l’originalità? Quali elementi accomunano le immagini dello specchio nei differenti romanzi di Calvino? In cosa consiste invece la loro divergenza? Per tentare di rispondere a queste domande, la presente analisi si concentrerà su tre fondamentali opere della maturità calviniana: Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore, e Lezioni americane. Si tratterà di reperire, all’interno di questi testi, i passaggi in cui si fa riferimento alla specularità, allo scopo di delineare la pluralità di significati che per Calvino si associano strettamente allo specchio e al suo inesorabile riflettere. 

1. Le città invisibili: il freddo lago di Valdrada

All’interno de Le città invisibili il tema della specularità è affrontato, potremmo dire, nel cuore del romanzo, ovvero nella città che chiude la terza sezione, Valdrada. “Gli antichi”, racconta Marco Polo, “costruirono Valdrada sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta” (Calvino, 1999, 53). La descrizione iniziale, chiara e circostanziata, fornisce sin da subito gli elementi d’interpretazione, e Calvino si preoccupa di identificare in maniera esplicita, inequivocabile, il punto di osservazione: il viaggiatore. Immediata si palesa, ancor prima del riferimento allo specchio, la tematica della duplicità: due Valdrade identiche, una affacciata sul lago, l’altra, come in un sogno meraviglioso, contenuta in esso. Ma già dalla terza frase il lettore comincia a respirare quel senso d’inquietudine che impregnerà tutto il testo: “Non esiste o avviene cosa nell’una Valdrada che l’altra Valdrada non ripeta” (ibidem). Dall’immagine paradisiaca di una bella città che si sporge su azzurre e limpide acque, inizia a manifestarsi, dapprima velatamente, e poi sempre più marcatamente, una vaga sensazione di cupa angoscia. Ogni vicolo, ogni stanza, ogni angolo della città è stato pensato in modo da potersi riflettere nello specchio: non vi è dunque azione, gesto o smorfia che gli abitanti di Valdrada non possano fare senza che li assilli la viva ed inquieta consapevolezza che tutto si sta già ripetendo, nei minimi dettagli, esattamente uguale, nell’immagine capovolta del lago.

Ciò che colpisce in questa breve descrizione è l’ostentata freddezza che si attribuisce allo specchio e alla sua azione: in quanto oggetto, esso è, al contrario di ciò che contiene, un semplice strumento, una superficie rispondente alle leggi della fisica. Con l’indifferenza dell’inanimato, esso riproduce fedelmente e senza imperfezioni; ma la sua azione sembra essere una sottrazione di contenuti, di sentimenti. Calvino rende bene questa idea tramite due emblematici esempi d’intimità e passione: il sesso e l’omicidio. In entrambi il parossismo emotivo è svuotato, vanificato dall’angosciosa presenza dello specchio che riflette: la nudità dei corpi che cercano il piacere, così come gli estremi spasmi che segnano la soglia tra la vita e la morte, sono riprodotti da uno specchio che, privando l’azione del suo senso, ne lascia però intatta l’esteriorità, come una scatola vuota, un vecchio contenitore. “Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano” (ibid., 54): la frase conclusiva, nella sua incisività, conferma la sensazione di apatia, imperturbabilità, freddezza che aveva caratterizzato la descrizione. Sembra che Calvino scelga di partire dallo specchio in quanto oggetto, limpido, lucido, freddo, per poi allargare queste caratteristiche materiali al piano della sostanza.
Un’altra tematica che la particolare conformazione di Valdrada contribuisce a mettere in luce, è quella legata alla visibilità, all’invasione dell’intimità. Abbiamo visto come tutti i movimenti della città si riflettano inesorabilmente nelle acque sottostanti: ecco che ogni gesto, tramite questa duplicazione, si trova inevitabilmente dilatato, esteso, sottolineato. Questa realtà in cui non si può celare nulla, può ricordare per certi versi certi mondi distopici alla Orwell: gli abitanti sono soggetti ad un’incessante ed opprimente osservazione, e lo specchio diventa lo strumento di un giudizio che spaventa. Dietro quest’angosciante privazione della privacy, si nasconde forse il timore del Calvino scrittore: la dimensione privata che diventa pubblica, l’intimità che deve fare i conti con il mondo esterno, lo sdoppiarsi delle due identità, quella della vita di tutti i giorni e quella che sta alla base della propria immagine sociale.
Ecco che il timore di essere visti, intercettati, giudicati, ci rimanda ad un altro racconto di Calvino, decisamente anteriore, la cosmicomica Gli anni-luce.
Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: TI HO VISTO. [...] Prima ancora di controllare sulla mia agenda per sapere cosa avevo fatto quel giorno, ero stato preso da un presentimento agghiacciante: proprio duecento milioni d’anni prima, né un giorno di più né un giorno di meno, m’era successo qualcosa che avevo sempre cercato di nascondere. (Calvino, 2017, 121)
Anche qui, l’autore si trova sottoposto a un giudizio, vede riflesso in quel minaccioso cartello, tutto il suo timore di apparire diversamente da come in realtà è, di dare un’impressione sbagliata. Per Calvino, l’attività di scrittore porta ad un’inevitabile confusione del piano privato con quello pubblico: i suoi libri, oggetti preziosi, intimi, personali, tramite la pubblicazione si trovano soggetti al giudizio altrui, esposti alle critiche, alle osservazioni, ai commenti. La sensazione è quella di trovarsi sempre su una sorta di palcoscenico, al centro dell’attenzione: ogni movimento è captato e valutato, in una morsa pietrificante che più che mai spaventa la personalità vivace, leggera e sfuggente del nostro Calvino. Gli abitanti di Valdrada sono perpetuamente appesantiti da questa grave ed angosciante ombra: il giudizio. La loro spontaneità è frenata, scoraggiata, incatenata al peso dato dalla consapevolezza di essere senza tregua riflessi, imitati, dalle loro apatiche ombre acquatiche: “questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all’oblio” (Calvino, 1999, 54).
Un altro elemento senz’altro degno di essere approfondito è quello che riguarda l’essenza delle cose. Da sempre lo specchio ha rappresentato, simbolicamente, con la sua capacità di riprodurre il reale, una sorta di filtro che permette di cogliere ciò che davvero importa. Spesso lo si è investito di poteri magici, come se si trattasse dell’unico e solo strumento in grado di fornirci un’immagine della nostra anima. Come in una sorta di disegno deformante, nel riflesso l’essenziale è accentuato ed il superfluo trascurato: nulla può sottrarsi a questa selezione. “Lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato” (ibid., 53): ecco che l’immagine riflessa ci permette di cogliere, grazie ad un punto di vista più oggettivo, ciò che realmente importa, lasciando da parte tutto il resto. La riproduzione di oggetti, azioni, persone, permette di prenderne effettiva coscienza: lo specchio è ciò che fa sì che possa crearsi una distinzione tra prima e terza persona. L’Io, specchiato, diventa Egli, e questa scoperta dell’alterità si lega strettamente al problema dell’identità. Tutto ciò che, soggettivo, ha una sua profonda e razionale motivazione, riflesso, deve fare i conti con il punto di vista esterno, con l’oggettivo, l’universale. Ecco che il lago di Valdrada diviene l’infrangersi di un sogno, l’irrompere della dura realtà, lo smascheramento dell’ideale.
Calvino precisa accuratamente la differenza tra identico e speculare: le due Valdrade non sono sovrapponibili ma simmetriche, inverse punto per punto. Proprio come le due metà del Visconte dimezzato esse contengono un’esplicita e sostanziale differenza: pur essendo gemelle rappresentano in realtà l’una il contrario dell’altra. La Valdrada che si riflette teme continuamente il giudizio dell’altra, si trattiene, cessa di vivere, spegne in quell’acqua l’ardore delle proprie passioni; la Valdrada riflessa invece, con inquietante freddezza, salva solo la forma, riproduce le immagini senza amarle, le svuota del loro sentimento. Un’altra città, più avanti nel testo, ci ricorderà, con la sua atmosfera ancora più inquietante, il destino di Valdrada: Eusapia. Anche in quest’ultima, duplice, sdoppiata in regno dei vivi e regno dei morti, il gioco d’imitazione reciproca porta alla confusione, all’offuscamento, alla perdita d’identità: “Dicono che nelle due città gemelle non ci sia più modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti” (ibid., 110).

2. Se una notte d’inverno un viaggiatore: fuga, identità e molteplicità

In Se una notte d’inverno un viaggiatore, Calvino sceglie di dedicare un intero capitolo all’affascinante attività dello specchio (1997, 161). Nell’incipit di In una rete di linee che s’intersecano la freddezza insita nell’azione del riflettere, già marcata ne Le città invisibili, risulta ancora più accentuata: ecco che gli specchi diventano il gelido strumento di una mente calcolatrice e apatica. Il protagonista, il cui nome resta volutamente imprecisato, si presenta come un uomo d’affari, un finanziere; qualcuno che, a causa del suo successo, ha finito per ritrovarsi esposto a svariati pericoli, in primis il rapimento. L’immagine dei nemici, che incombe pesante sulla narrazione, resta ancora più offuscata dello stesso Io narrante, molto vagamente li si identifica con due generiche categorie: “bande di fuorilegge” e “soci e concorrenti nel mondo dell’alta finanza” (ibid., 163). È per sfuggire a questa persecuzione che il protagonista sceglie di avvalersi del mezzo che da sempre più di tutti lo aveva sedotto, attratto: lo specchio. E così, grazie alla sua preziosa collezione di caleidoscopi e antiche macchine catoptriche, il suo Io si ritaglia un angolo solo per sé, fugge al mondo esterno e alle preoccupazioni, costruisce infinite realtà riflesse che lo aiutino a sottrarsi da quella vera. Se con Valdrada ci eravamo immersi in un mondo duplice, bipartito, qui l’accento è messo sulla molteplicità, sul perpetuo aprirsi di possibilità e proiezioni. Non uno solo, ma infiniti specchi circondano il protagonista, in un gioco di riflessi che moltiplica la sua immagine, gli oggetti materiali che gli appartengono, le sue idee. Riflettere diviene sinonimo di elevare a potenza: dall’unità, con un solo magico procedimento, si ottiene il molteplice.

All’interno di questo incipit sono individuabili in potenza, a livello più o meno esplicito, numerose riflessioni su svariati temi; la pluralità, l’identità, il desiderio di celarsi. Quest’ultimo ci sembra senza dubbio il più interessante: in questo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore, paradossalmente lo specchio diviene il principale mezzo per nascondersi. Il procedimento è opposto a quello visto nella città di Valdrada: lì, al contrario, i riflessi mostravano, palesavano, esibivano ogni cosa. Abbiamo visto come nulla poteva sfuggire a quest’azione rivelatrice; persino i momenti più intimi ritrovavano, perfettamente speculare, la riproduzione delle loro immagini nelle limpide acque del lago. Calvino non rigetta la posizione precedente, tutt’altro: sembra piuttosto volerla ampliare, voler esaminare la questione da una prospettiva differente. Se ne Le città invisibili aveva voluto soffermarsi sulla visibilità data dal riflesso, sul suo modo di svelare il palese e l’implicito, ora moltiplica gli specchi per evidenziare come in questa confusione tra il reale e il virtuale, tra la copia e l’autentico, più che mai sia facile perdersi. “È la mia immagine che voglio moltiplicare, ma non per narcisismo o megalomania come si potrebbe troppo facilmente credere: al contrario per nascondere, in mezzo a tanti fantasmi illusori di me stesso, il vero io che li fa muovere” (ibid., 162), il progetto del protagonista è tanto assurdo quanto elaborato nei minimi dettagli; egli ha trovato nello specchio il modo per sottrarsi ai nemici, per costruirsi una via di fuga, per risolvere, tramite il ricorso alla molteplicità, il più assillante problema dell’identità. Altro non è che un meccanismo di difesa; più che dai fuorilegge abbiamo l’impressione che egli voglia proteggersi da sé stesso. L’angoscia della condizione umana, limitata dalla caducità, dalla finitudine, è superata tramite la dispersione dell’Io: l’individualità si dilata, dalla propria persona si estende alle svariate copie, e giunge ad abbracciare la totalità del reale. Abbiamo già accennato come lo specchio sia il principale strumento che porta l’uomo a maturare la consapevolezza dell’alterità: l’identificare al contempo sé stessi come Io e come Egli permette di auto-esaminarsi da un punto di vista esterno. Per il finanziere del romanzo, il riconoscersi, l’individualizzarsi rispetto al resto diviene un fardello tale che s’innesca il bisogno di riacquistare una sorta d’identità primordiale col tutto. Ecco che egli, tramite infinite copie della sua persona, sceglie di moltiplicare sé stesso: la frattura tra il singolo e il resto del mondo è superata nel momento in cui l’Io cessa di esistere, evapora, si diluisce nei suoi cloni. La tematica legata al nascondersi e quella dell’identità sono così strettamente interconnesse in questo incipit, che è difficile trattare l’una senza scivolare nell’altra. È infatti perdendo la propria individualità che il protagonista riesce a nascondersi, a far perdere le proprie tracce. Gli specchi dunque permettono di celare, nella misura in cui, producendo innumerevoli copie, aiutano il singolo a mimetizzarsi nella nebulosa confusione che inevitabilmente si viene a creare.
Anche in questo passaggio, così come in Valdrada, lo specchio diventa strumento in grado di rivelare verità occulte: Calvino si sofferma per ben due paragrafi a descrivere il modo in cui i riflessi, nel mondo antico, fossero ritenuti il modo per mettere in evidenza realtà segrete e/o lontane. Ci sembra di risentire l’eco della nostra città invisibile, “Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato”; così come alcuni elementi inessenziali, presenti nella realtà, perdono il loro spessore, cessano di esistere una volta messi a confronto con il filtro del riflesso, alcune cose, impercettibili nel mondo, sembrano ritrovare vita solo nelle immagini della lastra lucida.
È interessante vedere come lo specchio, qui come nella descrizione di Valdrada, sia un’arma a doppio taglio; pensato razionalmente da chi se ne avvale come uno strumento affascinante, utile per raggiungere i propri fini, si rivela in realtà in ultima analisi un qualcosa la cui azione gli si può ritorcere contro. Il finanziere, mago della specularità, razionalissimo calcolatore, si trova alla fine vittima delle sue stesse macchinazioni, prigioniero nella gabbia di specchi. Tutte le mosse studiate, le precauzioni prese, si rivelano vane, e tutto ciò che aveva sempre cercato di nascondere di sé stesso (i piani, i movimenti, l’amante) inevitabilmente viene non solo svelato, ma addirittura ampliato, moltiplicato, elevato a potenza.
Nella scena conclusiva la presenza delle due donne della sua vita, esasperata dall’azione riflettente degli specchi, ci appare una sorta di resa dei conti. L’immagine di Lorna, il suo amore segreto, simbolo dell’intimità, è qui crudelmente dilatata: ogni suo spasmo si amplia all’infinito, in un movimento che ci ricorda la meccanica ondulatoria, i cerchi concentrici che vengono a formarsi quando si getta un sassolino in acque piatte e tranquille. Legata, la donna è ridotta all’impotenza; lo specchio sembra aver cancellato i suoi sentimenti, al punto che, come una gatta, graffia, reagisce, oppone resistenza alle mani che tentavano di liberarla, agli slanci d’affetto del suo stesso amante. Al contrario Elfrida, la moglie, passiva e riservata, dimostra qui una potenza di carattere che è rinvigorita dalla specularità che la circonda. Le immagini delle due donne si moltiplicano e si confondono nella stanza e nella mente del protagonista: “Già non so più distinguere ciò che è dell’una e ciò che è dell’altra, mi perdo, mi sembra d’aver perduto me stesso, non vedo il mio riflesso ma solo il loro” (Calvino, 1997, 168). E qui, imprigionato, paradossalmente, il freddo finanziere ritrova nella cattività la rassicurante ombra di ciò che aveva sempre inconsciamente sognato: la perdita totale di sé stesso. Ecco che si palesa, dietro questo perenne riflettere e nascondere, la reale motivazione; non è per sfuggire ai nemici che egli aveva elaborato tutte queste maniacali accortezze, ma per sfuggire a sé stesso. C’è una bella citazione, contenuta nel libro L’occhio di Vladimir Nabokov, che va esattamente in questa direzione: “Si sa che io non esisto: esistono solo i mille specchi che mi riflettono” (Nabokov, 1998, 47). La perdita dell’individualità, l’identificazione col tutto, ben lontano dall’essere una punizione, si rivela il più inconfessato e rincuorante desiderio: “Ora mi sembra che tutto quello che mi circonda sia una parte di me, che io sia riuscito a diventare il tutto, finalmente...”. Per quanto si tratti, come per gli altri capitoli, di un incipit, e dunque di un inizio senza conclusione (il carattere d’incompiutezza è sottolineato da questa chiusa con i puntini di sospensione), non possiamo non leggere in queste ultime righe la sensazione di calma ritrovata, di pace raggiunta, propria dei finali.
L’intimo movimento di questo testo ci ricorda, per vari aspetti, un altro avvincente romanzo della letteratura italiana, Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. Anche per Vitangelo Moscarda, tutto era iniziato con una semplice, innocua contemplazione dinnanzi a uno specchio: “Che fai? mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio” (Pirandello, 2013, 5). La sbalorditiva scoperta di avere il naso leggermente inclinato da un lato si pone, per il personaggio pirandelliano, alla base di un’estesa e profonda riflessione su sé stesso e sugli altri, sulla vita in comunità, sulle innumerevoli maschere che quotidianamente portiamo. Ed anche per lui tutto si conclude, alla fine del romanzo, con la rincuorante constatazione che il problema dell’identità può trovare il suo sfocio naturale nell’immensità del Tutto: “Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori” (ibid., 126). Come il finanziere, Moscarda ritrova la sua serenità, la pace, fondendosi, diventando un tutt’uno col mondo esterno.

3. Lezioni americane: i benefici della visione indiretta

Un interessante spunto per quanto concerne il tema dello specchio è presente anche all’interno del libro teorico Lezioni americane. In questa raccolta di conferenze riguardanti gli imprescindibili valori letterari da salvaguardare nel terzo millennio, Calvino descrive, attraverso le imprese di Perseo, un’ennesima e positiva funzione propria allo specchio: la mediazione. Quando pensiamo all’emblema dello specchio nei miti e in letteratura, normalmente ci vengono in mente, come abbiamo già visto, il tema del doppio, dell’identità, della vanità. L’importanza del riflesso come un qualcosa che si frappone tra realtà e riproduzione, della visione indiretta, può essere considerata una novità, un apporto originale dello stesso Calvino.

All’interno della prima lezione, Leggerezza, l’autore reinterpreta il mito di Perseo individuandone ed esplicitandone la forza: “Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo [...] spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio” (Calvino, 2014, 8). La specularità diviene il principale mezzo per fuggire a ciò che, visto direttamente e senza filtri, accecherebbe, distruggerebbe. L’eroe dai piedi alati, lieve e delicato, si avvale del riflesso del suo pesante scudo per sfuggire al pericolo della cristallizzazione.
Notiamo come anche qui, come negli estratti analizzati dei precedenti libri, lo specchio rappresenti un qualcosa di freddo, impassibile; la differenza con Le città invisibili e Se una notte d’inverno un viaggiatore sta nel fatto che qui colui che utilizza lo strumento, lo conosce bene e sa perfettamente come avvalersene, lo maneggia con cura e attenzione, con riguardo, con la dovuta leggerezza. Il finanziere, così come gli abitanti di Valdrada, non erano stati in grado di calcolare i risvolti negativi che i loro disegni potevano produrre; al contrario Perseo, dall’alto della sua vista aerea, rappresenta uno stadio successivo di maturità e consapevolezza, sa che nel suo rilanciare le immagini lo specchio fende e ferisce, e trova il modo di rivolgere la sua azione, non contro sé stesso, ma contro il nemico. Sembra che Calvino abbia intrapreso, da un romanzo all’altro, una sorta di maturazione, di percorso per quanto riguarda la problematica della specularità, che lo ha condotto a rivalutare ed ampliare le sue diffidenti posizioni iniziali. Lo specchio, come tutte le armi, è senza dubbio uno strumento pericoloso, minaccioso, tagliente, ma può anche risultare una risorsa, un bene prezioso, per colui che, abile, ha imparato a maneggiarlo.
Ma dove sta la pericolosità dello specchio? Prima di tutto nella sua capacità d’imbrogliare, di trarre in inganno. Elsa Morante, ne Il mondo salvato dai ragazzini, racconta un brevissimo episodio, una sorta di parabola, in cui una piccola orfanella si ritrova inevitabilmente tormentata della propria stessa vanità, dell’incapacità di distinguere tra Sé e l’Altro. Novella Narciso, la bambina, posta per la prima volta dinnanzi a uno specchio, riconosce in testa alla bimba che la osserva da dentro la lastra, la propria cuffietta turchina. La disperazione, l’invidia, l’impossibilità di staccarsi dall’oggetto stregato, ne fanno un emblema della prigionia di sé stessi, dell’incapacità di staccarsi dalle prime apparenze, della tendenza tutta umana di desiderare sempre quel che non si ha, di cercare al di fuori piuttosto che nella propria intimità. Anche in questo corto ed incisivo racconto siamo di fronte ad una pietrificazione, come la Gorgone, la piccola è vittima del proprio stesso sguardo: “Un incantesimo in quell’istante l’ha dannata e ancora l’incantata creatura sta lì, dietro la lastra dello specchio nera di polvere, con la sua bella cuffia turchina in capo” (Morante, 1977, 139). La magia dello specchio, ospitando il reale in un riflesso, in una proiezione, ammalia, strega, chiunque, per una ragione o per l’altra, vi entri in contatto.

Conclusione

Abbiamo visto come in queste tre opere della maturità di Calvino lo specchio assuma significati sempre differenti e, seppur distanti, per vari aspetti strettamente legati gli uni agli altri. Ci sembra interessante sottolineare come la tematica della bellezza e della vanità non sia riscontrabile in nessuno dei testi presi in esame; pensiamo tuttavia che si sia trattato di una scelta consapevole. L’eco dei fratelli Grimm, della seducente matrigna intenta a rimirarsi nel riflesso magico, di Narciso, del Dorian Gray che resta giovane e forte mentre il suo gemello dipinto lentamente ed inesorabilmente invecchia, rende forse questo soggetto, questa angolazione, se non banale, comunque già ampiamente trattata e approfondita. Calvino non vuole ripercorrere dei topos per cui già fiumi e fiumi d’inchiostro sono stati versati; ben al contrario preferisce evidenziare ciò che era in ombra, quel che non è evidente, quel che ancora nessuno ha saputo pensare in quei termini. Ecco perché dei personaggi di Wilde conserva non tanto la vanitas quanto la capacità di vedere riflessa la propria anima; di Narciso l’idea di trappola, ma non la motivazione egocentrica.

Un altro aspetto interessante in Calvino è quello riguardante la metaletteratura, la presenza di racconti nel racconto, di romanzi nel romanzo. Ecco che libro e specchio, partecipando del medesimo movimento di riflessione, giungono a combaciare, diventano la stessa cosa. In Se una notte d’inverno un viaggiatore, il romanzo, al contempo contenente e contenuto, si trova all’interno di sé stesso, in un gioco di riflessi e specularità che intriga sin dalle prime righe: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa” (1997, 3). Ci pare che dietro questa attenzione per gli specchi, per la loro azione e i loro effetti, si celi in realtà una profonda riflessione sull’arte dello scrivere e sulla stessa letteratura. Il principale riflesso con cui l’autore viene a contatto non è la lastra incorniciata in cui ciascuno di noi si riconosce la mattina, si tratta dello specchio fatto di carta e nero inchiostro, lo strumento magico per eccellenza, il libro. È dentro i romanzi che Calvino intravede, più o meno limpida, l’immagine di sé stesso; è tra le pagine che il lettore, leggendo, può ritrovarlo e ritrovarsi. “I libri sono specchi. Riflettono ciò che abbiamo dentro” (Ruiz Zafon, 2011, 344); questa bella frase di Carlos Ruiz Zafon racchiude, nella sua incisività, il meraviglioso incantesimo della scrittura e della lettura. Nel descrivere tante situazioni in cui la specularità è protagonista – dalle acque del lago di Valdrada, ai variopinti caleidoscopi, al bronzeo scudo di Perseo – in realtà l’autore parla del libro stesso, di sé, della sua letteratura. Non sempre per rivedersi c’è bisogno di specchiarsi; talvolta, come c’insegna Calvino, è sufficiente stiracchiarsi un po’, mettersi comodi, aprire un libro ed iniziare a leggere.

Bibliografia

CALVINO, Italo, Le città invisibili, Verona, Arnoldo Mondadori Editore (Oscar Mondadori), 1999

CALVINO, Italo, Lezioni americane, Milano, Arnoldo Mondadori Editore (Oscar Mondadori), 2014

CALVINO, Italo, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1997

CALVINO, Italo, Tutte le cosmicomiche, Milano, Arnoldo Mondadori Editore (Oscar Mondadori), 2017

MORANTE, Elsa, Il mondo salvato dai ragazzini, Torino, Einaudi (Gli struzzi), 1977

NABOKOV, Vladimir, L’occhio, Milano, Adelphi (Piccola Biblioteca), 1998

PIRANDELLO, Luigi, Uno, nessuno e centomila, Roma, Newton Compton Editori, 2013

RUIZ ZAFON, Carlos, L’ombra del vento, Milano, Arnoldo Mondadori Editore (Oscar Mondadori), 2011

Collegamenti interni

 
 
 
 

 
Pour citer cette ressource :

Eleonora Galloni, "La specularità in Calvino", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juillet 2017. Consulté le 20/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/la-specularita-in-calvino