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Intervista a Pietro Bartolo

Par Rosanna Maggiore : Enseignante d'italien et docteure - Université de Bourgogne
Publié par Alison Carton-Kozak le 29/03/2018

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En lien avec notre dossier sur l'immigration, Rosanna Maggiore a rencontré Pietro Bartolo, médecin à Lampedusa, qui était à Lyon pour présenter la traduction française de son livre ((Lacrime di sale)) (((Larmes de sel)), traduit de l'italien par Marc Lesage, JC Lattès, 2017) et le film de Gianfranco Rosi, ((Fuocoammare)) (2016). Ces événements ont été organisés par l'Institut Culturel Italien, en collaboration avec la Mairie de Sainte-Foy-lès-Lyon, la Mairie du 7ème arrondissement et le cinéma Mourguet les 13 et 14 novembre 2017. L'interview a été modifiée par endroit pour être adaptée au format écrit.

 

 

Rosanna Maggiore: Visto che è qui sia per il libro sia per il film, comincerei col farle una domanda sul cinema e sulla letteratura. Nel suo libro, scrive: “Lacrime di sale è un pugno nello stomaco, narra cose che nessun articolo di giornale e immagine televisiva potrà mai narrare”. Ma anche: “Da anni cercavo qualcuno che raccontasse quanto accadeva a Lampedusa. Ero stato intervistato da decine e decine di televisioni di tutto il mondo, ma c’era bisogno di qualcosa che restasse […] Stavolta abbiamo il cinema, chissà che non riusciamo a lasciare un messaggio più profondo”. Nel narrare la storia dei migranti, in che cosa si differenziano, secondo lei, la televisione, il cinema e la letteratura?

Pietro Bartolo: La televisione ha dei difetti e dei limiti enormi, il primo dei quali è il tempo. Ha pochissimo tempo per raccontare. Racconta sempre in pochi minuti, anche quando sarebbe opportuno dedicarne molti. Non può raccontare come può farlo il cinema, la letteratura o l’arte in tutte le sue manifestazioni: la fotografia, la pittura, il teatro.
Io mi sono reso conto di questo forse molto tardi. Ogni volta che è successo qualcosa di grave a Lampedusa, sono stato intervistato da tante televisioni e ho sempre cercato di raccontare e di trasmettere alcuni messaggi. Ebbene, con la televisione non ci sono mai riuscito. Ci voleva qualcosa di più incisivo. Nel dicembre del 2014, Gianfranco Rosi è venuto a Lampedusa per fare un cortometraggio. Ma non aveva trovato nulla che lo ispirasse e stava per andare via. Il giorno prima della sua partenza, è venuto in ambulatorio e abbiamo cominciato a parlare. Gli ho raccontato la mia esperienza di medico, gli ho mostrato le immagini che conservo nella mia pen-drive. Gli ho dato questa pen-drive, lui se l’è portata e quando è tornato mi ha detto: “Dottore, la ringrazio, il film lo faccio”. Il cortometraggio è diventato così un film, anche se definirlo un film non è forse del tutto corretto.

 

R. M.: In effetti, Fuocoammare è stato definito ora un documentario, ora un film. Colpisce, in particolare, la scelta di Rosi di non raccontare i modi in cui le vite dei lampedusani e quelle dei migranti si incrociano e si influenzano. Di fatto, ad eccezione dei medici, dei volontari e dei militari della Marina, i migranti li vede lo spettatore, non la gente di Lampedusa. Rosi sembra perciò narrare la vicenda di chi, in una situazione dalle coordinate storico-geografiche ben precise, resta estraneo pur potendo osservare da vicino quel che accade. Cosa pensa di queste scelte?

P. B.: Fuocoammare è un docufilm, una via di mezzo. Ha vinto l’Orso d’Oro come miglior film, mentre per l’Oscar è stato selezionato come documentario.
Ha ragione quando dice che ci sono due piani: quello dei lampedusani e quello dei migranti. Ma questo in parte riflette la realtà. Perché il film è stato girato dopo il 2013. Il 3 ottobre di quell’anno sono morte 368 persone in mare e lo Stato è finalmente intervenuto. Ha costruito un centro di accoglienza lontano dal paese, e da quel momento c’è stata come una separazione tra le due realtà. Però, ogni volta che serve, i lampedusani intervengono. Mi preme aggiungere una cosa: per 25 anni sono stato al molo Favaloro ad accogliere i migranti. Nessuno conosceva bene la situazione, pochi ne parlavano. È grazie a questo film, al cinema e al mondo della cultura che ho avuto una voce che prima non avevo.

 

R. M.: Il suo libro adotta una prospettiva diversa rispetto a quella del film. Sin dal titolo del libro (le lacrime di sale sono quelle dei profughi, ma anche quelle dei lampedusani) è evidente il desiderio di legare la storia dei migranti alla sua storia personale. Come nasce questa scelta?

P. B.: Questo libro volevo farlo da tempo, anche per non dimenticare. Registravo tutto nella mia pen-drive. Però non avevo il coraggio di scrivere. Una delle tante giornaliste che venivano a Lampedusa, Lidia Tilotta, mi diceva: “Dobbiamo scrivere un libro”. Io mi opponevo, lei insisteva. Per scherzo, le dicevo: “Sei diventata la mia stalker”. I migranti mi raccontavano le loro storie, le cose più intime e difficili da raccontare: le torture, le violenze, gli stupri. Riportando tutto ciò in un libro, mi sembrava di tradire la loro fiducia. Dopo il film e il grande dibattito che esso ha suscitato, ho capito però che non potevo tenere tutto per me. Dovevo far sapere. Per superare il mio problema, ho deciso allora di raccontare non solo la storia dei migranti, ma anche la mia.

 

R. M.: Lidia Tilotta ha definito Lacrime di sale un “libro politico”. In che senso?

P. B.: Lacrime di sale è un libro politico perché denuncia ciò che avviene in Africa, il mancato intervento dell’Europa, le scelte dell’Italia. Siamo bravi ad accogliere, non a integrare, e la responsabilità è della politica. Si fa molto affidamento ai privati, quando questo fenomeno dovrebbe essere affrontato in primo luogo e soprattutto dallo Stato, dal pubblico. È un libro politico, inoltre, perché denuncia la manipolazione mediatica, le responsabilità dei giornalisti e dei mass media nel non assicurare una corretta informazione sulle questioni migratorie.

 

R. M.: Nel libro e in varie interviste insiste spesso, in effetti, sulla cattiva informazione, sullo scarto che separa fatti e percezioni.

P. B.: Sì, la gente ha una percezione sbagliata dei fatti perché è disinformata o malinformata. Penso a quanto è avvenuto poche settimane fa in Polonia, nel giorno della vittoria a Lepanto[1], in cui si celebra anche la Madonna del Rosario: oltre un milione di polacchi si sono radunati per pregare e scongiurare l’invasione islamica… La gente non è cattiva, è cattivamente informata. La cattiva informazione dipende da alcuni politici e da alcuni giornalisti, da coloro che manipolano la gente seminando il terrore o il panico.

 

R. M.: A registrare un cambiamento nel modo in cui la gente percepisce il migrante è anche il linguaggio che viene usato. Le parole riflettono e spesso assecondano le paure della gente. Producono inoltre assuefazione: ci si abitua a ciò che esse rappresentano, anche se non trovano riscontro nella realtà. Negli anni Cinquanta, anche nel linguaggio del diritto, lo straniero veniva definito una “forza lavoro”, oggi viene considerato una minaccia per l’occupazione. L’Italia ha il dovere – lo prevede la Costituzione all’articolo 10 – di dare asilo politico allo "straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana". Oggi si parla però di concessioni ai migranti e non di diritti, di soccorso e non di accoglienza. Come spiega questi cambiamenti, questa “fin de l’hospitalité” (per citare il titolo di un libro sull’argomento[2])? Bisognerebbe cominciare col rivedere il linguaggio, col ridefinire la parole che usiamo?

P. B.: La diversa percezione dei migranti dipende dalle bugie che vengono raccontate. Il terrorismo mediatico è un crimine perché spaventa la gente e la induce a reagire male. Esiste il reato di procurato allarme, dovrebbe esistere anche il reato di terrorismo mediatico.
Quando ci dicono che c’è un’invasione epocale, è un’enorme bugia. L’anno scorso l’Italia ha registrato un calo demografico di 170.000 persone. Ne sono entrate 180.000. 180.000 migranti non rappresentano un’invasione, corrispondono a due persone per ogni mille abitanti. Certo, se i migranti si concentrano in poche città, è chiaro che il problema nasce. Ma se ci fosse una distribuzione omogena e un’efficace politica d’integrazione, il problema non si verrebbe a creare. È stato notato che l’occupazione straniera ha in parte controbilanciato la perdita di occupazione nativa, e che se bloccassimo l’arrivo di stranieri da paesi extra-UE da oggi al 2040 l’INPS perderebbe 38 miliardi di euro. Viene spesso detto, poi, che i migranti portano le malattie o che sono terroristi. In 25 anni di lavoro ho visitato più di 300.000 migranti e il primo punto posso smentirlo senza alcuna esitazione. Le patologie che trattiamo sono la disidratazione, l’ipotermia, le ustioni chimiche dovute alla miscela della benzina con l’acqua del mare, le ferite e i traumi legati alle violenze subite o agli abusi sessuali. Quanto al secondo, i terroristi raggiungono l’Europa con altri mezzi…

 

R. M.: Nel suo libro non mancano affermazioni molto forti. A proposito dei migranti che perdono la loro identità e diventano numeri dopo essere stati seviziati e torturati, ha scritto: “Le condizioni in cui viaggiano nel deserto e nel mare i migranti non sono tanto dissimili da quelle dei deportati nei treni della morte. E chi oggi vuole erigere muri e respingere i profughi non si comporta tanto diversamente da quei collaboratori di Hitler che la filosofa Hannah Arendt definì ‘uomini banali’”.

P. M.: Sì, ma l’indifferenza con la quale i cittadini e le istituzioni europee trattano questo dramma è perfino peggiore dell’indolenza mostrata dinanzi all’Olocausto, perché certamente non possiamo dire di non saperne nulla, sta succedendo tutto davanti ai nostri occhi, sappiamo tutto, e per questo abbiamo una responsabilità enorme che sarà una macchia sulla nostra coscienza.

 

R. M.: In Lacrime di sale, a proposito dell’Unione europea, scrive: “Quale Unione europea? Quella dei confini e dei muri, non quella dei popoli”. Avendo svolto anche compiti politici – è stato vicesindaco e assessore alla Sanità –, cosa pensa delle scelte del Ministro Marco Minniti miranti a bloccare le partenze? Cosa pensa, più in generale, della posizione dell’Europa rispetto alla cosiddetta “crisi migratoria”? Come andrebbe modificata, secondo lei, la convenzione di Dublino?

P. B.: Io condanno fortemente l’Europa per quello che non sta facendo, non per quello che sta facendo, perché non sta facendo nulla. In passato ha fatto qualcosa di molto grave: ha passato la palla alla Turchia. È stata per questo criticata da tutti, anche dall’Italia. L’Europa ha ignorato il problema affidando a un solo Stato il compito di fermare i migranti. Questo è disumano, c’è gente che scappa dalla guerra, non possiamo chiudere le persone nei campi profughi.
I padri fondatori dell’Unione europea si basavano sui valori e i diritti dell’uomo, ma l’Europa sociale non esiste più. Questi valori sono stati disattesi dalla Polonia, dall’Ungheria, dall’Austria...
L’Italia non c’era tra questi paesi. Dopo gli accordi con la Libia, ci siamo anche noi. Il Ministro Marco Minniti si vanta del 40% in meno di migranti, ma vorrei chiedergli: “Questo 40% che fine fa?”; “in che mani si trovano queste persone?”. Si dimentica che questo 40% è fatto di uomini.
Tra l’altro, fra la Turchia e la Libia c’è una differenza enorme. In Turchia ci sono i campi profughi, in Libia ci sono i lager, dove i migranti vengono picchiati, torturati, violentati, uccisi. Spero e mi auguro che un giorno, percorrendo la Libia, non troveremo le fosse comuni.
Io condanno i giornalisti che fanno terrorismo, ma stimo molto i giornalisti onesti che fanno del loro lavoro una missione. Questi giornalisti danno una voce a chi non ce l’ha, verificano cosa succede. Ebbene, anche questo dovrebbero farlo l’Europa o le Nazioni Unite. Dovrebbero essere loro a verificare se i diritti umani vengono garantiti o meno. Io penso di no, perché gli ultimi racconti che mi sono stati fatti sono raccapriccianti per la quantità di violenze, torture e sevizie.

 

R. M.: Proprio oggi l’ONU ha richiamato l’Europa e l’Italia per gli accordi con la Libia. Sono state mostrate le foto delle prigioni e di una vendita all’asta di uomini.

P. B.: Noi vediamo gli effetti di quelle prigioni. Per tenerli calmi, li torturano. Arrivano pelle e ossa. Li tengono per mesi a riso e olio esausto di motore. Hanno il fegato e i reni distrutti. Per questo dico: a che prezzo questo 40% in meno?

 

R. M.: Alla fine del suo libro, afferma: “Siccome non ci arrendiamo mai […], con l’azienda da cui dipendo, quella di Palermo, stiamo portando avanti un progetto ambizioso. Creare un centro di medicina umanitaria e delle immigrazioni”. Può dirci qualcosa di più?

P. B.: Abbiamo presentato questo progetto anche a livello regionale e nazionale. Forse ci stanno lavorando. Tornerò sicuramente alla carica. Un centro così ci aiuterebbe molto, ma ce la faremo comunque vadano le cose.
Ricordiamo che il complesso di Contrada Imbriacola, insieme a quelli di Pozzallo (Ragusa), Trapani e Taranto, è uno dei quattro hotspot italiani. Un punto di prima accoglienza, voluto dall’Unione Europea, dove gli stranieri vengono assistiti e identificati. L’UE non ha purtroppo mantenuto le sue promesse; Lampedusa, invece, ha fatto sempre la sua parte.

 

R. M.: Esiste una parola, “isolitudine”, pregnante in quanto indica la condizione esistenziale di isolamento ma anche di attaccamento di chi è nato in un’isola. Sulla sicilitudine, l’isolitudine, l’insularità d’animo si sono fermati molti scrittori (Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Tomasi di Lampedusa e altri ancora). Cosa vuol dire, per lei, questa parola?

P. B.: Beh, devo dire che Lampedusa è un’isola particolare. Non ci sentiamo soli. E non ci sentiamo soli anche grazie alle persone che arrivano. Certo, avvertiamo l’isolamento culturale: manca un cinema, manca un teatro... Ciò nonostante, Lampedusa è un’isola serena. È la porta dell’Europa. Ha questo significato l’opera che Mimmo Paladino ha realizzato nel 2008 in memoria dei migranti che non sono riusciti a mettere piede in Italia. Al molo Favaloro ci sono inoltre due murales e due scritte per noi cariche di senso: Ai sorrisi di chi arriva e di chi accoglie, Proteggere le persone, non i confini.

 

R. M.: Sappiamo che è venuto a Lione anche questa estate. Per concludere con un messaggio positivo, può spiegarci le ragioni di questi viaggi?

P. B.: Sono venuto questa seconda volta per parlare ai ragazzi nelle scuole, ma anche per far visita a una bambina di nove anni, Susan, arrivata a Lampedusa circa un anno fa. È partita da sola dalla Nigeria e ci ha messo un anno e mezzo per raggiungere l’Italia. Quando le ho chiesto: “dov’è la mamma?”, mi ha detto: “in Europa”. Da lì è nata la mia lunghissima ricerca – mi sono rivolto agli ambasciatori, al Presidente della Repubblica e anche al Papa. Ho così ritrovato la madre a Lione. Dopo sei mesi – la burocrazia purtroppo non mi ha aiutato – sono riuscito a ricongiungerle, madre e figlia. Non si vedevano da otto anni.

 

[1] Il 7 ottobre del 1571 la flotta navale dei turchi musulmani venne sconfitta dalla Lega Santa.

[2] Fabienne Brugère, Guillaume Le Blanc, La fin de l’hospitalité. Lampedusa, Lesbos, Calais… Jusqu’où irons-nous?, Flammarion 2017.

Pour citer cette ressource :

Rosanna Maggiore, "Intervista a Pietro Bartolo", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mars 2018. Consulté le 24/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/migrations/intervista-a-pietro-bartolo