Stefania Auci, « I leoni di Sicilia » (2019)
Pubblicata il 6 maggio 2019, col titolo I leoni di Sicilia, la saga della famiglia Florio occupa ancora, a distanza di un anno, il primo posto nella classifica dei libri più venduti. Vincitrice del Premio Nazionale Rhegium Julii nella categoria narrativa, essa ha garantito il successo della scrittrice trapanese Stefania Auci, già autrice di un saggio (La cattiva scuola) e di tre romanzi (Fiore di Scozia, La Rosa Bianca e Florence).
È la notte del 16 ottobre 1799, quando, a Bagnara Calabra, la terra trema ancora una volta, l’ennesima volta. Ignazio, Paolo e Giuseppina Florio il terremoto lo conoscono bene: se lo portano dentro sin da bambini e per quanta paura, per quanto timore ne abbiano, saranno destinati a farvi i conti per tutta la vita: ci sarà sempre qualcosa a scuotere la vita dei Florio, una vita fatta di vibrazioni, vibrazioni intense, con cui il lettore si confronta sin dalle prime pagine acquisendone familiarità. Alla Auci non basta, infatti, che il suo pubblico venga a conoscenza delle vicende di una delle famiglie protagoniste della scena commerciale nel XIX secolo: l’autrice, attraverso una scrittura iperrealistica, dettagliata, in cui sono incastonate espressioni dialettali e proverbi che ne aumentano la drammaticità (come nella prima scena, quella del terremoto, quando la descrizione della casa immersa nel buio e nel panico viene interrotta dalla voce di Giuseppina - "Figghiema! Ccà vene, Maronna mia, aiutateci" - che tenta di mettere in salvo il figlio Vincenzo), fa sì che il lettore si immerga totalmente nelle vite dei protagonisti (o meglio, nella vita dei protagonisti, perché i Florio, per quanto diversi, ebbero un’anima sola), oltreché nella storia del Meridione di Italia, dai moti del 1818 allo sbarco di Giuseppe Garibaldi in Sicilia. In questo l’autrice è particolarmente attenta: costruisce il capitolo in maniera rigorosa, contestualizzando innanzitutto gli eventi, non lasciando nulla al caso e proseguendo per tutta la narrazione in un intreccio chiaro e mai stonato di affari e vicende private. D’altronde la vita dei Florio è imprescindibile dalla loro attività commerciale: tutto ruota attorno allo sviluppo dei loro commerci, anche quando non sembra, anche quando non dovrebbe essere così.
Non è un caso che le prime pagine del romanzo siano intrise di paura, di panico: i Florio non ne saranno mai immuni, anche nei momenti in cui sentiranno di avere un significativo controllo delle situazioni; essi hanno coscienza del fatto che, in ogni momento, le condizioni possono passare dall’essere favorevoli all’esatto contrario. I Florio arrivano in alto proprio perché sanno mantenere i piedi per terra, perché hanno la consapevolezza - a differenza della vecchia aristocrazia siciliana, abituata ad aver tutto e ad essere privata di niente - che pochi secondi sono più che sufficienti perché la vita spazzi via ogni cosa e sottragga loro ogni sogno, come quando erano bambini. Essi dunque non sognano: i Florio pensano, progettano, studiano e soprattutto lavorano duro, lavorano onestamente, conoscono il sacrificio e non si arrendono. Perché, nonostante la paura, essi sanno che la vita può cambiare e che, nel loro caso, deve cambiare: “Voglio di più, Igna’. Questo paese non mi basta più. Questa vita non mi basta più. Voglio andare a Palermo”. Sono queste le parole di Paolo Florio al fratello Ignazio, la notte del terremoto a Bagnara; sono, quelle di Paolo, i pensieri di ogni uomo in cerca di un futuro migliore, in cerca di un abito adatto alla propria vocazione, quando i panni della propria terra iniziano a stargli troppo stretti.
Palermo è, al momento dello sbarco dei Florio in Sicilia, nel 1799, una città viva, uno dei porti più attivi del Mediterraneo; una città che mescola lingue diverse e che apparentemente (e solo apparentemente) non teme il contatto e l’integrazione con lo straniero. Palermo sembra dialogare in maniera entusiasmante con la diversità. La città è, agli occhi di Paolo Florio, una terra che solo a guardarla promette una vita migliore: "Ogni volta che lo schifazzo arriva in vista del porto di Palermo, sente una morsa allo stomaco, proprio come un innamorato". Ma quest’ultimo si rende presto conto che Palermo molte di quelle promesse non è ancora in grado di mantenerle. Il loro arrivo, la presa di coscienza di avere a disposizione null’altro se non il coraggio e una dose non indifferente di orgoglio e determinazione, demoralizzano i fratelli Florio e incupiscono l’animo dei due alle prese con una putìa che odora di umido e di scoramento. Ma tutto resta nella dimensione del non-detto, non-detto che guida la vita dei Florio e fa sì che nulla traspaia delle loro emozioni. Ciò permette che l’avvilimento non prenda il sopravvento e che resti solo un pensiero, che non assuma una fisionomia, lungi dall’essere reale. E i pensieri dei Florio nessuno li sa: Palermo li osserva, li provoca, attende una loro reazione ma non la ottiene e non la otterrà. Essi mantengono in città quella riservatezza tanto estranea alla Palermo dell'epoca e a cui i Palermitani guardano con scetticismo, con ostilità, con timore, perché i Florio oltre a rappresentare “l’altro da sé”, qualcosa con cui non si ha dimestichezza, sono indecifrabili e, proprio perché incontrollabili, una minaccia per la città.
Ma i Florio sanno bene che i panni sporchi si lavano solo in famiglia e non altrove e dunque tengono quelle emozioni per loro. La famiglia è il nucleo attorno a cui ruota tutta la vicenda. I Florio sono un pugno chiuso, lo stesso che stringono in diverse situazioni per mantenere la calma e soffocare la rabbia, come se quel gesto potesse rasserenare ristabilendo il giusto equilibrio tra energia ed emozioni. Questo è la famiglia per i Florio: un pugno chiuso in cui ritrovare il calore perso, in cui raggomitolarsi per trovare conforto sfuggendo all’insicurezza; Giuseppina e Vittoria, rispettivamente moglie e nipote di Paolo Florio, ripetono spesso quest’ultimo gesto, come se raggomitolarsi fosse un modo per chiudersi nel loro mondo, per non guardare al di fuori, per evitare il pericolo; e Giuseppina di pericoli ne vede moltissimi; ritrovare uno spazio di chiusura per proteggersi da quella realtà è essenziale per lei; Giuseppina è una donna che non ha avuto alcuna possibilità di scelta, che non avrebbe mai voluto lasciare il suo spazio sicuro, la sua vita a Bagnara, la sua famiglia, la sua casa. È una donna che è stata sradicata dalla propria terra, che nella nuova non trova appiglio, non trova uno proprio spazio, un terreno mite che possa davvero accoglierla. L’apertura al mondo di Ignazio e Paolo non le interessano; Giuseppina quel mondo non lo conosce e ne ha paura, la stessa che hanno i Palermitani davanti all’intraprendenza dei fratelli Florio, davanti alla loro incapacità di conoscere un limite e un confine, alla loro volontà di scoprire cosa ci sia al di là del mondo conosciuto e, come sarà poi per il figlio Vincenzo, del convenzionalmente accettato. I leoni di Sicilia descrive una Palermo che ad inizio '800 si mostra del tutto restìa a rinunciare alle proprie convinzioni e convenzioni, una Sicilia che crede e sostiene la nobiltà di sangue, fatta in realtà di titoli svuotati di qualsivoglia valore. L'Auci rappresenta quella Palermo che ha timore di ciò che non conosce, che non sovvertirebbe mai l’ordine preesistente. È una paura negativa quella che emerge dal racconto, una paura che inibisce l’azione, la crescita, che frena il progresso. I Florio al contrario si aprono al mondo, rischiano ed è per questo che riescono ad arrivare in alto. Ma Palermo è all'epoca ancora troppo chiusa e ripiegata su stessa per accettarlo. La difficoltà dei palermitani nell'accettare di confrontarsi con un mondo del tutto nuovo, si trasforma in invidia verso i nuovi arrivati, in maldicenza, come quella di Saguto, genero di Canzoneri, che spettegola e mette zizania perché “non è libero come quei due Calabresi che non hanno paura di niente e non chiedono niente a nessuno. E lui, i Florio, li odia per questo motivo: perché possono essere ciò che lui non sarà mai”. Palermo i Florio li tratterà sempre come estranei, come bagnaroti, come putiàri arricchiti ("Pirocchi arrinisciuti. Facchini nascistivu e facchini arristativu") e non come uomini degni di ammirazione per la loro dedizione al lavoro (al contrario, per i nobili palermitani i Florio “puzzano di lavoro”). Essi saranno stranieri anche dopo 60 anni, anche se a Bagnara non ci sono più tornati; anche se per Palermo hanno fatto di tutto, anche se hanno smosso l’economia, portato lavoro. È quel lavoro di cui Palermo ha paura. Palermo ha paura di un movimento che nelle vite dei Florio esiste invece da quel primo terremoto che da bambini ha mosso loro la vita, l’esistenza.
I leoni di Sicilia è un libro che seppur encomiato dai più non è di certo scampato alle critiche negative. Nella seconda parte, quando assistiamo all’ascesa commerciale di Vincenzo Florio, la narrazione si fa effettivamente molto più lenta; inoltre, con l’ampliamento dei commerci, il lettore perde un po’ il senso dell’orientamento, non riuscendo più a districarsi tra le numerose attività dei Florio. C’è chi ha espresso disappunto anche per la mancanza di un’analisi psicologica dei personaggi; tuttavia dar credito a quest’ultima osservazione risulterebbe molto difficile: se è vero che l’Auci non si sofferma ampiamente sulla descrizione psicologica dei personaggi, al lettore risulta chiarissima la personalità dei protagonisti; è un romanzo I leoni di Sicilia, che si costruisce interamente sui pensieri, sulle emozioni, sulla memoria e soprattutto sulle sensazioni, su cui l’autrice si sofferma con grande scrupolosità, facendo del suo romanzo un racconto che il pubblico di lettori non solo è in grado di vedere ma anche di sentire, di vivere; Stefania Auci non descrive soltanto le strade, i luoghi; ella ci parla di odori, odori fortissimi, di mare, di spezie, di ricordi; ci parla di suoni, di carezze (persino di quelle non date), di umori repressi; ci parla di sapori, di stagioni, in un’alternanza di luce e buio specchio dei movimenti dell’anima; e il lettore è lì, nella scena, a Palermo, a casa dei Florio. È un sole che brucia davvero quello che descrive la Auci, una primavera che sentiamo realmente arrivare, una salsedine che pare pizzicarci la pelle. E quando il romanzo finisce e non ci è più possibile voltare pagina e accompagnare ancora i personaggi nelle loro vite, ne sentiamo tutta la mancanza. Noi ci sentiamo i Florio. E con i Florio gioiamo, soffriamo e piangiamo. Piangiamo quando la vita scivola via e lascia solo un gran numero di ombre; quando la vita ricomincia, quando la memoria tradisce, quando i fantasmi la inseguono; siamo lì quando da bambino Vincenzo si attacca alla vita tirando il seno della madre, quella madre che non accetterà mai di essere azzittita, senza la quale l’attività dei Florio non sarebbe stata possibile, così come non sarebbe potuta continuare senza la grazia e la tenacia di Giulia, moglie di Vincenzo, madre di un nuovo Ignazio, nonna ancora una volta di Vincenzo e Ignazio; affinché il loro nome possa sopravvivere, affinché ci siano sempre un Ignazio e un Vincenzo Florio.
I leoni di Stefania Auci non sono i Palermitani, sono i Florio, quei Florio che non ruggiscono come la nobiltà siciliana, ma che scovano le loro prede e studiano le loro mosse in silenzio, per poi combattere con coraggio, con forza e far sì che la vera vittoria faccia rumore. I Florio non hanno alcun bisogno di tirare fuori gli artigli per farsi valere o di denigrare gli altri per essere rispettati: un leone è un leone e non ha bisogno di sfoggiare o dar prova di alcunché, anche quando è ancora troppo piccolo per non lasciarsi sopraffare. E i Florio non sono i leoni di Bagnara, sono i leoni di Sicilia, quella Sicilia che amano e per la quale lottano in mezzo alle iene, al fine di preservare la bellezza di quello spazio, di quell'isola maledettamente bella e, proprio perché isola, maledettamente difficile.