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A proposito di cemento, partecipazione e mutui immobiliari

Par Luca Rastello : Giornalista - "La Repubblica"
Publié par Damien Prévost le 09/09/2009
Passato relativamente inosservato, un recente rapporto del ministero Usa del Tesoro analizza la composizione del Prodotto Interno Lordo statunitense evidenziando per la prima volta in sedici anni una contrazione dei settori finanziario e assicurativo. Si tratta di una significativa, pur se modesta e parziale, inversione di tendenza rispetto alla crescita ipertrofica di un segmento dell'economia globale che dal 1980 a oggi ha almeno raddoppiato la sua rilevanza rispetto all'intero secolo precedente...

Passato relativamente inosservato, un recente rapporto del ministero Usa del Tesoro  analizza la composizione del Prodotto Interno Lordo statunitense evidenziando per la prima volta in sedici anni una contrazione dei settori finanziario e assicurativo. Si tratta di una significativa, pur se modesta e parziale, inversione di tendenza rispetto alla crescita ipertrofica di un segmento dell'economia globale che dal 1980 a oggi ha almeno raddoppiato la sua rilevanza rispetto all'intero secolo precedente: la cosiddetta finanziarizzazione, che ha tolto respiro e preminenza ai settori produttivi tradizionali e vanificato i meccanismi di controllo politico e democratico sull'economia, è definita spesso come un sorta di golpe silenzioso che ha trasformato il sistema bancario in un mostro ipertrofico relativamente libero da ogni vincolo di trasparenza. Non è difficile vedere in questa tendenza costante una delle principali cause delle crisi mondiale in corso. Tuttavia altre crisi finanziarie hanno caratterizzato la crescita economica in passato senza destare lo stesso allarme. Quali sono allora i caratteri specifici del caso attuale, in che cosa questa crisi si distingue da fenomeni analoghi degli scorsi decenni e che relazione ha con la tendenza alla finanziarizzazione crescente? Le risposte a queste domande rivelano un imprevedibile risvolto che fornisce anche elementi per valutare la situazione italiana, situazione anomala in cui a una relativa e forse infondata fiducia nella tenuta economica del cosiddetto sistema-paese si affianca una crisi senza precedenti della democrazia e della partecipazione politica.

Ruolo della finanza è per tradizione convogliare denaro da parte di investitori a imprese che necessitano di capitali e che possono essere considerate affidabili. Un servizio facilmente gestito nella prima parte del secolo scorso, quando il modello industriale si caratterizzava per il predominio di alcuni colossi in grado di finanziarsi largamente con i profitti e poco preoccupati della concorrenza. Poche imprese significavano poca attività finanziaria. Sullo scorcio del secolo però i colossi vacillano, la crisi energetica degli anni settanta produce sconvolgimenti negli assetti aziendali, mentre l'irrompere di nuove tecnologie si caratterizza come una vera e propria rivoluzione che, se da un alto rende l'economia largamente più competitiva, dall'altro rende assai fluttuante il rendimento delle aziende. Nuove imprese nascono come funghi e altrettante scompaiono nel giro di periodi talmente brevi da essere impensabili nei tempi dell'economia tradizionale, e affluiscono sul mercato migliaia di soggetti economici affamati di capitali per crescere: alla finanza vengono chieste performance inedite e nascono nuovi investimenti a rischio con il decollo verticale del mercato borsistico. Il tutto in assenza di regole concordate e meccanismi di controllo. Eppure fenomeni di questo genere sono stati da sempre la molla dei boom finanziari: la crescita della finanza era sempre dovuta a cambiamenti effettivi nell'economia reale, produttiva. Alla fine, anche dopo l'esplodere della bolla, restavano sul mercato aziende più competitive e spinte all'innovazione.

Diverso è il caso della bolla immobiliare americana del decennio scorso, a cui si deve il crack in corso: essa non segue a nessun cambiamento significativo dei settori produttivi o delle tecnologie, ma semplicemente alla scelta scellerata di facilitare all'estremo i prestiti per i mutui su proprietà immobiliari. La premessa di tale scelta era un'espansione senza precedenti del settore edilizio, gonfiata da speculazioni e interessi non sempre legali, spinta all'estremo fino a modificare radicalmente il territorio, il paesaggio e l'organizzazione metropolitana. Un'invasione del cemento tanto traumatica da dover richiedere inedite forme di governo e una vera e propria sorta di ideologia giustificativa, una teodicea dell'immobiliare, una narrazione che conciliasse gli interessi speculativi creati dall'intreccio perverso di finanza e cemento con l'inquietudine di chi abita territori stravolti da un giorno all'altro da colossali e non sempre comprensibili progetti infrastrutturali ed edlilizi. Tale ideologia si è sostanziata in una specie di favola, consistita nell'invenzione di un ceto inesistente, immaginato da chi programmava le politiche di sviluppo edilizio: una categoria diffusa di potenziali piccoli proprietari ansiosi di comprare alloggi e vani commerciali nelle aree di recente costruzione. Da questa presupposta massa di acquirenti dovevano nascere i profitti del settore immobiliare che avrebbero reso fruttuosi gli investimenti provenienti dalla finanza. Un solo dettaglio era stato trascurato: un simile ceto proprietario votato alla vita nelle periferie e alla gestione di costosi spazi nei centri commerciali semplicemente non esisteva. Un errore nella rappresentazione della realtà che può essere a buon diritto annoverato fra le cause dei guai in cui ci troviamo: la necessità di gonfiare artificialmente le vendite spinse le banche a una facilità senza precedenti nella concessione di mutui che poi non venivano coperti dai beneficiari. Il movimento di denaro dinamizzava senz'altro il sistema creditizio, ma la crescita dell'attività finanziaria, in passato, aveva comunque reso l'economia più produttiva e più innovativa. Ora no: alla crescita dei profitti nel settore bancario corrisponde solo una quantità spaventosa di case vuote, una massa di cemento inutilizzato e un peso nei costi di manutenzione di opere infrastrutturali di incerta necessità.

Un caso interessante in cui è stata la finanza (il cui compito dovrebbe essere di seguire l'economia e non di guidarla) a creare la realtà, a modellarla anziché rifletterla. E lo strumento per questo rovesciamento di un rapporto sano tra denaro e mondo è stato il settore immobiliare. Cose da americani.

Evidentemente, però, una situazione come quella descritta non manca di avere conseguenze sui modelli di governo e sullo stile politico di chi amministra i territori. La necessità di gonfiare il settore immobiliare - il solo a muovere ricchezza in una situazione di stallo dell'economia produttiva - ha nei fatti portato in buona parte del mondo a una prassi che tende a escludere progressivamente ogni forma di partecipazione attiva dei cittadini nella progettazione della convivenza e nella gestione del tessuto urbano. In un certo senso, dunque, a ridefinire i contorni dei concetti di partecipazione, di cittadinanza e in definitiva di democrazia. Quali possibilità di controllo su uno sviluppo forzato realizzato a scapito del territorio ci si potrebbero infatti garantire, in presenza di meccanismi di reale partecipazione e negoziazione civica?  Che cosa può fare un'amministrazione, poniamo di una città, a cui altre fonti d'entrata siano precluse, se non tentare di aver parte in questo ballo finanza-cemento mettendo a disposizione aree, risorse ambientali, interi quartieri per trarne qualche beneficio economico?

Non è quello che sta accadendo nelle principali città italiane, qualunque sia il colore delle giunte al potere? Ipermercati, nuovi profili edilizi, quartieri a sviluppo rapidissimo privi di servizi essenziali, ipertrofiche opere infrastrutturali (ad esempio metropolitane e parcheggi sotterranei di cui non c'è necessità oggettiva, o su un piano più vasto ferrovie ultraveloci di dubbia utilità) sono le caratteristiche di quello che oggi in Italia viene presentato come un modello di sviluppo, tanto da destra quanto da sinistra. E, si badi bene, uno sviluppo deciso nei gabinetti della politica, governando le città, per esempio, non attraverso strumenti propri della democrazia come il varo di piani regolatori (che vengono votati nei consigli comunali) ma con semplici varianti (decise autocraticamente dalle giunte), come nel caso di Torino - la metropoli italiana maggiormente investita da questo tipo di dinamiche - dove 205 varianti dal 1995 a oggi hanno modificato definitivamente e strutturalmente il tessuto urbano, ridisegnando gli spazi e i modi della convivenza senza che nulla fosse negoziato con la cittadinanza. In contesti come quelli descritti la partecipazione dei cittadini rappresenta a tutti gli effetti un ostacolo, e accade che venga sostituita da pantomime come le narrazioni oggi molto di moda nei vari progetti periferie, cantieri partecipati di cui ogni comune italiano che si rispetti ama fregiarsi, all'insegna di un nominalismo non dichiarato per cui sembra legittimo e soddisfacente sostituire i valori civili con la loro rappresentazione, le pratiche di cittadinanza con la narrazione delle pratiche di cittadinanza, la democrazia con il teatro della democrazia. È questo il meccanismo diffuso di governo del territorio nel nostro paese oggi, ed è difficile nel chiasso mediatico legato alle contrapposizioni interne al ceto politico, distinguerne i profili. È difficile addirittura trovare interlocutori politici nella discussione di questioni come queste, pur sostanziali ma relegate al rango di affari secondari rispetto, ad esempio, al dibattito sulle bravate erotico-senili del premier.

Può darsi che siano tendenze inevitabili, epifenomeni di una modernità che sfugge alla comprensione dei suoi interpreti, ma è difficile non scorgere un'allarmante analogia con una situazione invece ormai vecchia di almeno un decennio che, negli Stati Uniti, ha creato le premesse per la catastrofica crisi finanziaria in corso (rispetto alla quale peraltro i nostri governanti amano dichiarare pressoché immune il nostro paese). Forse, ancora una volta, rincorriamo in ritardo modelli americani senza averne piena coscienza. Forse no. In ogni caso,  potrebbe essere prudente prestare attenzione nel futuro prossimo a un'eventuale allentamento dei vincoli restrittivi alla concessione dei mutui nelle banche di casa nostra... 

Luca Rastello è giornalista de "La Repubblica" e direttore responsabile di osservatoriobalcani.org. Specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, è stato direttore di "Narcomafie" e de "L'Indice". Ha lavorato come inviato in Asia centrale, Caucaso, Corno d' Africa, Centro e Sudamerica.

 

Pour citer cette ressource :

Luca Rastello, "A proposito di cemento, partecipazione e mutui immobiliari", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2009. Consulté le 25/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/politique-italienne/a-proposito-di-cemento-partecipazione-e-mutui-immobiliari