Un'analisi della «Trilogia della villeggiatura» di Carlo Goldoni
Trilogia della villeggiatura
[...] Nel complesso della Trilogia Goldoni si impegna in una lucida analisi del sociale, fotografando uno spaccato borghese in una situazione "critica", ossia fermando l'immagine dell'azione scenica ogniqualvolta essa consenta di fissare un atteggiamento, un moto affettivo, una situazione da cui emerga con chiarezza un sintomo utile a formulare una "diagnosi" infausta per la società. "I personaggi principali [... ] sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira scrive con una punta di malinconia l'autore - cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa più degli altri, l'ambizione de' piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch'io ho cercato di porre inveduta, per correggerlo, se sia possibile." E possibile non sarà, purtroppo, come il commediografo amaramente sembra intuire, velando con l'ipotetica il suo consueto palmare ottimismo. Come siamo lontani dal clima fiducioso di una Locandiera, di una Bottega del caffè in cui il nuovo Pantalone si faceva interprete sulla scena di una morale laica, fondata sulla laboriosità, l'onore, la reputazione, per assumersi le responsabilità, così disattese dalla miope poltroneria di un'aristocrazia ridotta a un'ombra del suo passato splendore! Nel volgere di un decennio, Goldoni è costretto al riconoscere l'inadeguatezza della sua borghesia mercantile a farsi classe politicamente e civilmente egemone, oltre che economicamente trainante: egli è costretto a constatare i nuovi ediversi eccessi in cui essa cade, rinchiudendosi ostinatamente nell'angusto spazio della casa e della bottega, sacrificando la vita propria e quella altrui sull'altare dell'interesse e di un malinteso decoro, ovvero misurandosi in una sterile tenzone con l'aristocrazia per emularne gli esteriori privilegi,scimmiottandone le costumanze e le mode con ridicola presunzione. [...] All'universo tematico della villeggiatura il commediografo si era più volte avvicinato, tentandolo da differenti angolazioni - secondo una tipica sua metodologia elaborativa - nel Prodigo (1739), nell'Arcadia in Brenta (1749), nella Castalda (1751), nella Cameriera brillante (1754), nei Malcontenti (1756) e nella Villeggiatura (1756): l'argomento viene ad assumere una particolare rilevanza di costume in Venezia poiché proprio allora la media borghesia comincia a far sua l'abitudine - inveterata per l'aristocrazia fin dal Cinquecento - di trasferirsi in villa per le stagioni estiva e autunnale, esibendo ostentatamente le proprie ricchezze senza timore di farne sperpero fino a indebitarsi, pur di dare un'immagine prestigiosa di sé.
Solo nella Trilogia, tuttavia, Goldoni trasforma il tema del villeggiare da mero sfondo o agreste cornice nel centro problematico dell'azione drammatica, piegando la smania emulatoria dei borghesi alla funzione di segnale e sintomo del più vasto e preoccupante atteggiamento di una classe sociale che, non sapendo elaborare una sua autonoma cultura, si rinchiude nello sterile e umiliante gioco dell'imitazione. [...]
Ma, come è noto, Goldoni affida frequentemente ai personaggifemminili il compito di dare rilievo ai contrasti e alle disarmonie che emergono all'interno della dinamica sociale: la donna gli appare, infatti, come il tramite sensibile fra le componenti generazionali della famiglia e fra le classi, e sa porsi come la chiave di volta nel rapporto tra la vita sociale equella individuale.
Tale compito è affidato nella Trilogia a Giacinta, accanto a cui portano ciascuna un suo ricco contributo in termini di analisi psicologica e sociale Vittoria, vagheggina duramente battuta da un'amara esperienza di umiliazione sentimentale e costretta, infine, a mettersi nelle mani di un consorte che non l'ama, implorandolo di "avere almeno compassione" di lei; Costanza e Rosina, due volti generazionali di una medesima meschinità sociale e morale, tristemente mascherata da uno drucito manto; la vecchia Sabina, patetica amante caparbiamente restia ad accettare il giusto collocamento a riposo, e perciò oggetto di feroci quanto prevedibili raggiri.
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È l'amore, infatti, il sentimento più genuinamente individuale, ad assumere, soprattutto nelle Avventure e nel Ritorno, la funzione ditestimone di una morale sociale: è il sacrificio che trasforma la fonte di ogni diletto nello struggimento della rinuncia e dell'infelicità a ricondurre il significato dell'intera vicenda nell'area dell'analisi sociale da cui essa aveva preso le mosse nelle Smanie. Nel personaggio di Giacinta, infatti, Goldoni conduce l'analisi del sentimento amoroso - a cui già aveva lavorato con esiti di smagliante luminosità negli Innamorati (1759) - fino a toccare le corde del dramma, allorché la fanciulla si dibatte tra l'impegno formalmente assunto con Leonardo e la coscienza dell'insorgere della passione per Guglielmo, dilaniandosi di fronte alla vertigine di un'ipotesi di tradimento da cui discenderebbe - sul piano sociale - il disonore.
[...] È così la conclusione voluta da Goldoni con il ritorno pur sofferto alla normalità in Giacinta che domina la passione e in Leonardo che mette finalmente la testa a partito, adombra l'inesauribile fiducia dell'autore nell'uomo: l'autore sembra ancora credere ottimisticamente nell'ipotesi di un ritorno all'equilibrio e alla positività da parte della borghesia, giunta forse all'esodo da una fase di negatività e di delirio sociale.
Ma la consolazione, la pace ritrovata, non giungono senza dolore e senza strazio: restano a testimoniarli le parole di uno degli ultimi monologhi di Giacinta nel Ritorno in cui mi pare si possa cogliere fra le righe quasi una vena sottile di amarezza ed il rimpianto dell'autore per non aver saputo o potuto andare oltre, scavalcando il fosso delle convenienze e delle opportunità sociali e civili per sostenere lucidamente la causa di un radicale rinnovamento: "Confesso che il distaccarmi dalla mia Patria, che abbandonare quella persona ch'io amo più di me stessa... parlo di voi, caro padre, padre mio tenerissimo; ah! nell'abbandonare un sì caro oggetto mi si stacca il cuore dal seno, ed è un miracolo ch'io non soccomba. Ma lo stato mio lo richiede, la mia virtù mi sollecita, l'onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta, m'intende. Voi, sposo mio, m'intendete; voi, che nelle contingenze in cui siamo, miglior destino non potevate desiderare. Partirò da una patria per me funesta, mi scorderò i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze... Sì, scorderommi, voglio dir, l'ambizione, la vanità, il fanatismo delle mie superbe villeggiature. Se seguitata avessi la strada incautamente calcata, chi sa in qual precipizio sarei caduta? Cangiando cielo, si ha da cangiar sistema.
Ecco il mio sposo, ecco colui che mi destinano i numi, eche mi ha accorciato mio padre. Io farò il mio dovere, facciano gli altri il loro."
Trilogia della villeggiatura, Paolo Bosisio.
Ringraziamenti
Testo tratto dall'opuscolo di presentazione della Trilogia della villeggiatura, Edizioni Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa, Milano, 2007 con la gentile autorizzazione della produzione.
Pour citer cette ressource :
Paolo Bosisio, Un'analisi della Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mars 2010. Consulté le 10/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/theatre/trilogia-della-villeggiatura