Il teatro di Eduardo De Filippo, tra adesione al reale e intrusione del soprannaturale
Introduzione
La nozione di “realismo” a teatro
Come è noto, André Antoine (1858-1943) aveva ipotizzato l’esistenza di un teatro realista, ossia di un teatro in cui gli attori avrebbero dovuto agire in scena come se si fossero trovati nelle loro case, apparentemente indifferenti alla presenza del pubblico, intento ad osservare le loro azioni attraverso un’immaginaria quarta parete.
Nel corso degli anni successivi la nozione di realismo a teatro è stata relativizzata in virtù dei fattori convenzionali che fondano lo statuto stesso dello spettacolo. Se un realismo teatrale esiste, questo non è altro che un sistema di convenzioni più segrete, meno esplicite ma altrettanto rigorose. Il quadro di vita vissuta (la tranche de vie naturalista) non esiste a teatro, poiché il solo fatto di essere esposto sulla scena lo separa dalla vita, facendone un fenomeno in vitro che, per quanto rinvii almeno parzialmente alla vita, è già profondamente modificato dalle condizioni dell'osservazione.
Eduardo De Filippo aderisce indubbiamente a un tipo di teatro che, con le debite precauzioni alle quali abbiamo appena accennato, potremmo definire di stampo “realista” o quanto meno referenziale.
La specificità della figura artistica di Eduardo de Filippo
Figlio d’arte (è uno dei figli illegittimi dell’attore-autore Eduardo Scarpetta, 1853-1925), attore, regista, autore di testi ma anche teorico del teatro attraverso la scrittura, la pratica e l’insegnamento, Eduardo, uomo di teatro totale, ha messo i propri talenti al servizio dello spettacolo, facendo in modo che nessuna attività prevalesse sull’altra.
A proposito della scrittura di Eduardo De Filippo, Claudio Meldolesi ha parlato di una categoria specifica di autore, quella dell’attore che scrive. Secondo il critico italiano, passando da un testo all’altro l’attore tende ad immagazzinare situazioni e battute che potrebbero essere da lui riutilizzate al momento della stesura di un nuovo testo. Nel corso della sua carriera, l’attore-scrittore De Filippo è venuto così a costituirsi un vero e proprio “capitale” teatrale, una sorta di riserva composta di materiali drammatici assimilati nel corso della sua pratica della scena e pronti per essere rielaborati.
1. La matrice realista del teatro di Eduardo
Tuttavia, se l’attore-scrittore De Filippo ha a sua disposizione un cospicuo bagaglio teatrale, da un passo delle Lezioni di drammaturgia che Eduardo impartisce all’Università di Roma «La Sapienza» si evince che il drammaturgo deve avvalersi anche e soprattutto del materiale fornitogli dal mondo che lo circonda:
"Quello che è necessario per voi è vivere di osservazione, stare a sentire i dialoghi nei negozi, sull’autobus, avere sempre l’orecchio al teatro... E prendere appunti, segnare, segnare" (1986, 37).
La scrittura comporta una fase preliminare di documentazione basata sull’osservazione (“vivere di osservazione”), seguita da un lavoro di rielaborazione drammaturgica (“avere sempre l’orecchio al teatro”). Infatti, pur ispirandosi al mondo che lo circonda, il lavoro del drammaturgo non si limita a una mera trascrizione del reale: "il teatro deve essere non verità ma verosimile; perché la verità nuda e cruda è noiosa" (De Filippo, 1986, 122). Lungi dal tentare di adeguare il proprio teatro al reale, Eduardo opta per una finzione che sia conforme a una situazione reale possibile, plausibile, verosimile, in nome di una concezione del teatro che svolga una funzione compensatoria rispetto al tedio al quale la realtà pura e semplice rinvia.
La scrittura di Eduardo tende così a rendere conto delle molteplici sfaccettature che caratterizzano la società a lui contemporanea. Secondo Dario Fo, De Filippo è addirittura "l’unico attore che si preoccupa di raccontare le cose legate al suo tempo" (Fo, 1992, 75) (si noterà l’impiego dei termini "attore" e "raccontare" che riecheggiano la definizione di Meldolesi dell’attore che scrive). Anna Barsotti sottolinea la capacità di Eduardo di rendere conto degli umori della società se non addirittura di presagirli. Tale sensibilità si manifesta sin dalla creazione dei personaggi i quali prendono forma attraverso un processo che ricorda da vicino la nascita del personaggio pirandelliano: l’autore dice infatti di sentire in lui il personaggio che parla e la nascita di quest’ultimo è il frutto di una ricerca all’interno della società alla quale appartiene l’autore stesso. A scopo illustrativo, basterà citare l’esempio del personaggio di Zi’ Nicola (Le voci di dentro, 1948), la cui creazione è legata tanto ai bisogni tematici e attanziali della drammaturgia quanto alla necessità di fare appello all’esistente:
"Lo zio Nicola [...] esiste. Infatti in una vecchia raccolta di articoli c’è un pezzo di Ferdinando Russo che parla di un fuochista napoletano e descrive [...] questa specialità, quest’arte. Era un poeta dei fuochi artificiali [...]. Siccome io avevo bisogno di un personaggio che rappresentasse la saggezza (e la saggezza non può parlare), allora mi ricordai di zio Nicola, vedevo questo personaggio e poi lo avevo impresso dentro di me perché anche lo conoscevo" (Pandolfi, 1956).
L’attenzione rivolta alla società e alla storia è una delle componenti principali del teatro di Eduardo che, come è già stato ampiamente dimostrato, supera il regionalismo al quale potrebbe essere ridotto per rendere invece conto dei grandi eventi e delle problematiche essenziali del XX secolo. Nato agli inizi del secolo scorso, Eduardo offre, attraverso la sua opera, una preziosa testimonianza degli eventi che hanno segnato il Novecento, fissandoli attraverso una doppia memoria, personale e collettiva. In effetti, le commedie di Eduardo registrano i cambiamenti e reagiscono alle trasformazioni che si producono all’interno della società e sollevano delle questioni che a mano a mano si impongono all’attenzione di tutti: il periodo che va dagli anni Venti all’apogeo del fascismo, la Seconda Guerra mondiale e il Dopoguerra, e infine lo sviluppo della società industriale.
Rispondendo a una domanda relativa al legame delle sue opere con la Storia, Eduardo traccia una sorta di inventario delle problematiche affrontate nelle proprie commedie, rivelando il carattere risolutamente attuale e necessario del proprio teatro ed attribuendo la colorazione spesso cupa del proprio percorso creativo non ad una tendenza personale, ma agli effetti che la Storia inevitabilmente produce nella coscienza degli artisti:
"Quello che voi chiamate un periodo di pessimismo è la parabola naturale dell’uomo: gioventù con alti e bassi di speranza e disperazione, entrambe illogiche e meravigliose; maturità, cioè grandi aspettative confortate dall’aiuto del pensiero; vecchiaia: delusione e amarezza. O, se vogliamo, è il ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista. Nel mio caso, durante la dittatura fascista c’era il desiderio della libertà; con la “liberazione” venne la giusta aspettativa di una società migliore e di un’umanità diversa; poi sono venute le prime delusioni: poco è cambiato, i figli illegittimi legalmente sono ancora figli di NN (Filumena Marturano, De Pretore Vincenzo); il matrimonio è ancora una catena che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare (Questi fantasmi, L’arte della commedia); la vita sociale è sempre basata sulla sfiducia reciproca (Le voci di dentro); la famiglia è diventata e resta un’istituzione basata sull’ipocrisia e sull’interesse (Bene mio e core mio, Mia famiglia, Il contratto, Gli esami non finiscono mai), la giustizia è sempre più incoerente e ingiusta (Sindaco del Rione Sanità); le parole come patria, eroismo, guerra, svuotate del significato vero e umano diventano anacronismi retorici e senza alcun senso per chi deve subire il potere (Il Monumento)" (Quarantotti De Filippo, 1985, 172-174).
L’opera di Eduardo, conformemente alla sua concezione di un teatro che è presente nel mondo e che agisce sul mondo, è ancorata alla Storia attraverso l’esperienza personale dell’artista ("è il ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista"): esistono infatti molteplici corrispondenze tra il ciclo della Storia e il ciclo della vita dell’artista ("nel mio caso") il quale ha vissuto direttamente le crisi economiche, politiche e ideologiche che hanno attraversato l’Italia nel corso del XX secolo, dal fascismo agli anni Ottanta.
2. Adesione al reale e azione: la guerra in Napoli Milionaria!
Fra i diversi temi affrontati dallo scrittore napoletano, concentreremo la nostra attenzione su quello della guerra, la cui rilevanza nell’opera di Eduardo non è solo tematica, ma anche strutturale. Infatti l’evento della Seconda guerra mondiale costituisce una vera e propria frattura che articola la produzione di Di Filippo e determina la classificazione delle sue commedie in due Cantate, quella dei Giorni pari e quella dei Giorni dispari, dove sono riunite rispettivamente le opere scritte prima e dopo il secondo conflitto mondiale. Eduardo dichiara infatti:
"La guerra, io penso, ha fatto passare cent’anni. E se tanto tempo è trascorso, io ho bisogno, anzi ho il dovere, di scrivere dell’altro e di recitare diversamente" (Ruggero Jacobbi, 1945).
Alla guerra è dedicata Napoli milionaria! (1945) la cui azione si svolge per l’appunto durante gli anni del secondo conflitto mondiale. Gennaro Jovine, povero abitante di un “basso” napoletano, assiste impotente al commercio clandestino praticato dalla moglie Amalia e dai figli per sopravvivere. Se nel primo atto permangono i momenti comici e umoristici tipici del “vecchio teatro” di Eduardo (basti pensare alla famosa scena del sopralluogo della polizia, in cui Gennaro è costretto a fingersi morto per non far scoprire la merce nascosta sotto il letto), il secondo atto segna una svolta. Gennaro viene fatto prigioniero dai tedeschi e durante la sua assenza Amalia intrattiene una relazione, non solo professionale, con il giovane Errico Settebellizze, mentre la figlia Maria Rosaria rimane incinta di un soldato americano e il figlio Amedeo diventa ladro d’auto. Gennaro torna senza preavviso dalla prigionia mentre a casa sua tutto il vicolo festeggia il compleanno di Errico. Nell’euforia generale nessuno vuole ascoltare le sue vicende. Gennaro abbandona perciò il pranzo e va a vegliare Rituccia, la figlia più piccola, gravemente ammalata e bisognosa di una cura introvabile. La celebre battuta "Mo adda passà ’a nuttata" (“deve passare la nottata”), che si riferisce al superamento non solo della malattia di Rituccia, ma anche della crisi che stanno attraversando la famiglia di Gennaro e l’Italia, conclude, politicamente e simbolicamente, il ciclo della Cantata dei giorni pari e apre quello della Cantata dei giorni dispari.
Il ritorno di Gennaro dalla guerra
Evocando i cambiamenti intercorsi all’interno della propria famiglia, soprattutto per quello che riguarda i propri figli, Gennaro traccia un quadro degli sconvolgimenti che la guerra ha prodotto in Italia:GENNARO [...] Ama’, nun saccio pecché, ma chella criatura ca stal là dinto me fa penzà ô paese nuosto. [...] A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a sora, me cunfessaie tuva’tte cose, che aggi’ a fà? ’A piglio pe nu vraccio, ’a metto mmizz’ ’a strada e le dico: "Va’ fa’ ’a prostituta"? E quanta pate n’avesser’a caccià ’e ffiglie? E no sulo a Napule, ma dint’a tutte ’e paise d’ ’o munno. [...] E Amedeo? Amedeo che va facenno ’o mariuolo? [...] Amedeo fa ’o mariuolo. Fìglieto arrobba. [...] E se ognuno putesse guardà ’a dint’a chella porta... [...] ogneduno se passarìa ’a mano p’ ’a cuscienza... (De Filippo, 2005, 148-151)
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Gennaro non registra solo le conseguenze psicologiche, sociali e morali della guerra, ma sollecita uno sforzo di comprensione e di riflessione quanto alle cause di questi sconvolgimenti (la prostituzione e il furto). Poiché questa lunga battuta è situata alla fine del terzo atto, nel momento in cui la fine della commedia sta per restituire lo spettatore alla propria realtà e alla propria coscienza, è lecito supporre che questo appello, per la sua lucidità, per il suo invito alla tolleranza, per l’azione riparatrice a cui rinvia, non sia destinato solamente ad aiutare Amalia a sottrarsi dalla tristezza e dall’umiliazione né che si rivolga esclusivamente a quest’ultima. Nel marzo 1945, nella Napoli liberata dai nazisti e occupata dagli Alleati, la battuta finale della commedia, "Adda passà ’a nuttata", che segna il prima e il dopo della guerra, si rivolge indubbiamente allo spettatore reale affinché vengano ricostruite la famiglia e l’Italia. In questo senso il teatro di Eduardo è azione.
Come dimostreremo nel paragrafo successivo, l’adesione al reale non impedisce tuttavia il ricorso al soprannaturale nell’evocazione del tema della guerra.
3. Il ricorso al soprannaturale e il lato oscuro del reale: gli effetti prodotti dalla guerra ne Le voci di dentro
Se in Napoli milionaria! questo tema è evocato secondo un procedimento che mira a tracciare fedelmente gli sconvolgimenti prodotti dal conflitto, in altri due commedie scritte pochi anni dopo la fine della guerra (Questi fantasmi, 1946 e Le voci di dentro, 1949), i riferimenti a quest’ultima appaiono sotto forma di allusioni inquietanti.
Per ragioni di spazio, in questa sede ci concentreremo su Le voci di dentro che Eduardo propone al pubblico nel 1949, quattro anni dopo la stesura e la rappresentazione di Napoli milionaria!.
Confondendo sogno e realtà, Alberto Saporito denuncia l’omicidio di Aniello Amitrano, commesso, secondo lui, dai propri vicini, i membri della famiglia Cimmaruta. Benché Alberto realizzi molto presto che si è trattato di un sogno, questo delitto (sognato) ha delle conseguenze (reali) sui vicini i quali, in seguito alle accuse di Alberto, cominciano a sfilare gli uni dopo gli altri nell’appartamento del testimone-visionario per denunciarsi reciprocamente.
Attraverso questa commedia, Eduardo traccia un quadro pessimista della società contemporanea, incapace di distinguere il sogno dalla realtà, ma anche il bene dal male. Dietro al disordine sociale che la falsa accusa di Alberto enfatizza, si nasconde un disordine che potremmo definire ontologico: il sogno e l’inconscio diventano mostruosi e la mostruosità invade personaggi così ordinari che qualunque lettore o spettatore potrebbe riconoscersi in uno di essi. Questo stato di confusione morale, di cui l’allucinazione di Alberto rivela il lato più oscuro, si materializza, anche visualmente, nella scenografia del secondo atto, ambientato nell’appartamento di Alberto Saporito e del fratello:
"Uno stanzone enorme ingombro di ogni rifiuto e cianfrusaglie. Colonne di sedie, l’una sull’altra, ammassate negli angoli, ai lati, al centro e nei posti più impensati; perfino dal soffitto pendono grappoli di sedie. Spezzoni di tappeti arrotolati e legati a fascio. Arcate di festoni da luminarie a petrolio, che servirono per le antiche feste nei vicoli di Napoli, stendardi, pennacchi, lampioncini piedigrotteschi, fiori di carta, santi e immagini sacre d’ogni genere" (De Filippo, 2005, 1076).
Gli oggetti che compongono questo ciarpame non svolgono più la loro funzione originaria: le sedie non ricevono più il pubblico in occasione delle feste popolari ma pendono dal soffitto come ghirlande smisurate. Per quanto riguarda gli altri oggetti, l’impiego del passato remoto ("servirono") indica che al momento nessun oggetto è votato ad assolvere di nuovo la propria funzione, cristallizzando lo stato di confusione che regna nello stanzone. Così, l’accumulo di oggetti ormai inutili diventa una sorta di metafora del disordine psichico dei personaggi, congestionati da falsi valori.
Paola Quarenghi ha sottolineato che questa commedia è impregnata degli umori dell’epoca, moralmente segnata dalla crisi del sistema dei valori, materialmente ferita e poco fiduciosa nella possibilità di una rinascita autentica dopo gli orrori della guerra. Se è vero che, come vedremo, la pièce non rinvia solo alla guerra, ma anche ad alcuni fatti di cronaca che nel periodo della sua stesura e rappresentazione terrorizzano gli Italiani, secondo la Quarenghi è come se, ne Le voci di dentro "gli orrori della guerra avessero contaminato anche le coscienze delle persone più normali e insospettabili" (Quarenghi, De Blasi, 2005, 1024).
Nella Nota storico-teatrale dell’edizione "I Meridiani", Paola Quarenghi e Nicola de Blasi rilevano i riferimenti alla cronaca nera presenti nel testo. In particolare l’accusa che Luigi Cimmaruta rivolge a zia Rosa allude alle vicende di Leonarda Cianciulli, condannata nel 1948 per aver accoltellato, tagliato a pezzi e saponificato tre donne:
"[...] Mia zia tiene una camera chiusa dove non fa entrare nessuno. Una specie di laboratorio. Là dentro fabbrica sapone e candele e le conclusioni, traetele voi" (De Filippo, 2005,1088).
Il ricordo della storia della "saponificatrice di Correggio" è ancora vivo nella memoria collettiva degli Italiani nel periodo in cui l’opera viene scritta e rappresentata e lo è ancora fino al 1978, quando la pièce viene registrata per la televisione. Di conseguenza l’allusione di Luigi assume inevitabilmente una connotazione sinistra e il pubblico degli anni Quaranta – che può avvalersi di elementi extra-testuali (ha letto i resoconti dell’udienza nei giornali e visto le foto in prima pagina) – è istintivamente pronto a credere che Rosa abbia effettivamente ucciso e poi saponificato Aniello Amitrano. Questo ragionamento è molto più esplicito nelle prime versioni della commedia. Infatti, nel manoscritto V. Gabinetto Vieusseux, leggiamo:
LUIGI [...] Il vostro amico l’ha ucciso mia zia.
ALBERTO E lo dite così semplicemente?
LUIGI E come lo dovrei dire? Mia zia tiene una camera chiusa dove non fa entrare nessuno. Una specie di laboratorio. Là dentro fabbrica sapone e candele... Le conseguenze e le conclusioni traetele voi.
ALBERTO (trasecolato) Ma voi calcolate quello che dite?
LUIGI (confermando) Sapone e candele.
ALBERTO Vale a dire?
LUIGI Che il vostro amico è stato saponificato e trasformato in candele. E una mano ce l’ha messa pure mia sorella, perché mia zia solo a lei permette di entrare in quella camera.
ALBERTO Ma siete proprio sicuro?
LUIGI E voi siete sicuro di aver sognato ? (De Filippo, 2005, 483)
In questa versione Luigi evoca non solo la passione di sua zia per la fabbricazione di saponette e di candele e l’esistenza di un apposito laboratorio, ma spiega anche chiaramente il legame che secondo lui intercorre tra questa attività e la scomparsa di Aniello Amitrano, rimettendo in discussione l’idea che Alberto possa avere soltanto sognato l’omicidio di cui ha accusato la famiglia Cimmaruta. È chiaro che l’eliminazione di queste spiegazioni nella versione finale mira a creare un’atmosfera quanto mai funesta e ambigua, per cui dietro ad ogni frase può celarsi un’insinuazione sinistra e macabra. In questo modo, le allusioni al clima della guerra e del dopoguerra penetrano più sottilmente nelle coscienze degli spettatori che le accolgono non tramite un qualche ragionamento ma mediante inquietanti analogie con la Storia.
Nella versione televisiva del 1978, De Filippo insiste ulteriormente sull’elemento del sapone. Infatti, nella prima scena, Rosa Cimmaruta osserva con soddisfazione le saponette e le candele che ha fabbricato.
ROSA Eh, stavolta è venuto proprio bene. Mi sono proprio perfezionata! Mari’, ti ricordi che l’altra volta quando s’asciugarono si spaccarono tutte e diventarono la terza parte? Invece adesso... Eh, guarda, guarda! Pure le candele, pure le candele. Guarda ccà, guarda, sono riuscita a farle diventare dure come le steariche prima della guerra (De Filippo, 1978).
Il riferimento alla stearina (che è uno dei costituenti del grasso animale) favorisce lo slittamento immaginario nello spettatore. Le due allusioni alla fabbricazione sospetta delle candele e alla guerra servono senz’altro a ricordare al pubblico del 1978 il contesto storico nel quale la commedia era stata scritta trent’anni prima. Certo, la percezione storica e la sensibilità memoriale del pubblico sono evolute tra il 1948 e il 1978. Tuttavia, oltre al fatto che i crimini perpetrati da Leonarda Cianciulli nel 1948 restano, a distanza di trent’anni e ancora fino ai giorni nostri, uno dei casi più noti e più inquietanti della cronaca giudiziaria italiana, l’immaginario scaturito dal fatto di cronaca si articola a quello nato intorno al nazismo. L’ipotesi secondo la quale dei cadaveri umani sarebbero stati utilizzati dai nazisti per produrre sapone a partire dal grasso umano ha costituito infatti una delle leggende nere della Seconda Guerra mondiale.
In uno scambio tra Pasquale Cimmaruta e Alberto Saporito si allude di nuovo ai cadaveri dei morti ammazzati, ricorrendo in modo più esplicito al soprannaturale. Alberto si riferisce infatti agli spiriti di coloro che sono stati uccisi dai loro simili e che si intrufolano nei mobili delle case perturbando il sonno dei vivi. Nella versione stampata, questa battuta è relativamente breve:
ALBERTO Ah, ecco! Vuie parlate ’e chille ca mòreno c’ ’a morte... Quelli sì. Quelli si mettono in santa pace e danno pace pure a noi. Ma chille c’avevan ’a campà ancora e che, invece, mòreno per volontà di un loro simile, no. Quelli non se ne vanno... Restano. Restano con noi. Vicino a noi... Attuorno a nuie ! Restano dint’ ’e ssegge... dint’ ’e mobile... ’A notte sentite: "Tu..." È nu muorto ca s’è miso dint’ ’o llignamme ’e nu mobile. Na porta s’apre? L’ha aperta nu muorto. Sott’ ’o cuscino... dint’ ’e vestite... sott’ ’a tavula... Chilli i muorte là restano... Nun se se vanno. E strilleno comme ponno strillà. Perciò nun putimmo durmì ’a notte, don Pasquà (De Filippo, 2005,1071-1072).
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La versione televisiva comporta una dilatazione del monologo di Alberto (interpretato dallo stesso Eduardo) che si amplifica attraverso l’introduzione di elementi provenienti da una serie di credenze tradizionali. Queste sono modulate nel dialogo tra due "voci" diverse, quella di Alberto (sorta di napoletano generico) e quella del fantasma che non parla ma interagisce ridendo e producendo rumori:
ALBERTO Ah eh... Ah ecco, quelli che muoiono con la morte, cioè naturalmente... e quelli sì, eh eh, quelli si mettono in pace e danno pace pure a noi, ma gli altri no, ’on Pasqua’, gli altri no. Quelli che dovrebbero vivere ancora e che muoiono, invece, per volontà di un loro simile, eh, chilli nun se ne vanno. Quelli restano. Eh, eh, restano in mezzo a noi. Intorno a noi!... si nascondono sotto i tappeti, sotto ’e ssegge, sotti i mobili, se me... nel legno dei mobili si mettono, eh eh, sono persistenti, sono tenaci, àspito!, sottili, e che si nascon... Quante volte di notte, è ve’, nuie ‘o ddicimmo sempre eh eh, di notte, don Pasqua’, mentre uno ha pigliato suonno, stal là llà, al primo sonno, ha smorzato pure ’a luce, nel buio della notte, sentite... "tà... tà...". "Madonna, e ch’è, che è stato?..." ‘e ccuperte pe ll’aria, ’a paura, "che c’è?". Appicciate ’a luc: non c’è nessuno nella stanza. "Che è succieso", poi vi rendete conto, dice: "Meh, va bene... è il legno del mobile che sta a tant’anne int’ ’a casa, se spacca ’o legno proprio in quel momento..." È stato un morto. È stato un morto che ha protestato, ha minacciato, s’è difeso, eh ah, ha accusato e, comme no, vi ha sfottuto... eh eh. Na porta s’arape, per esempio eh, si apre na porta alla vostra insaputa, così, mentre state facendo un lavoro, non so, state scrivendo: alle vostre spalle si apre la porta. "Chi è, avanti, chi è? chi è?". Correte, guardate: non c’è nessuno. Dice "ma che è succieso? ma come si è aperta sta porta?? Ma comme, ’e bello...? E chi la ha aperta". Poi la giustifica alla nostra coscienza: "Eh be’ sai, si è aperta così, da sè". Seh, na porta si apre da sè: è stato un morto. Eh, un morto ha aperto ’a porta, v’ha guardato, v’ha minacciato, sapete... «eh eh», s’ha fatto ’a risata... uuhh, ha chiuso ’a porta ed è sparito. Eh, si nascondono, ’on Pasqua’, nei mobili, nelle sedie, nee... nelle giacche se metteno, eh eh e ti ostacolano il movimento, e stenti a metterti la giacca, non t’ ’a puo’ mettere, non... te dà fastidio..., devi durare fatica, eh: so’ lloro, ’e muorte. Se metteno int’ e ccravatte’, si mettono nelle cravatte: ’a matina, non so, ve state annodando ’a cravatta, e non ci riuscite. Dice: "Ma che è stato? Ma sono così bravo, ma come ogni mattina in un momento io me l’annodo; ma stamattina cher’è? Ma ch’è stato, ma ch’è succieso?" E chille è nu muorto che s’è miso int’ ’a cravatta, [...] ’o capo ’e sotto. Vi innervosisce, ’a cravatta non v’ ’a fa fà, non ve la fate la crava... non v’ ’a putite fà ’a cravatta, non ve la fate. Perciò non possiamo dormire la notte, caro don Pasquale (De Filippo, 1978).
Come si evince dalla versione televisiva, Alberto evoca la presenza dei morti con una tale convinzione che questi sembrano prendere corpo. In questo punto della commedia, il discorso della scena si compone di elementi sonori (musica e voci degli attori), di elementi visivi (quelli che la cinepresa mostra al telespettatore) e di elementi prossenici (la relazione che si instaura tra il personaggio di Alberto e i personaggi di Rosa e Marta che lo ascoltano da una parte e il fantasma che si materializza attraverso i gesti di Pasquale dall’altra). Il racconto di Pasquale suscita una forte impressione sui suoi interlocutori amplificando il potere della suggestione: Rosa e Maria si avvicinano infatti a Pasquale guardando Alberto. Una musica monotona, intrigante e inquietante indica un cambiamento di atmosfera. Vedendo che Pasquale è sul punto di infilare la giacca, Alberto insinua che i morti si nascondono anche dentro le giacche. Pasquale si ferma un istante per osservare Alberto, poi riprende il gesto che era sul punto di compiere, il quale però si rivela tutt’altro che semplice: infatti Pasquale, condizionato dal racconto di Alberto, fa fatica a indossare il vestito. Questo gioco si riproduce quando Pasquale cerca di annodare la cravatta, ma con una variazione importante; Alberto non vede Pasquale giacché quest’ultimo si trova proprio dietro di lui, ma i gesti di Pasquale traducono perfettamente le battute sulla difficoltà di fare il nodo alla cravatta a causa della presenza dei morti: il fantasma prende corpo, se così si può dire, nel gesto intralciato e incompiuto del personaggio.
Alcuni critici (Silvio d’Amico, Vito Pandolfi) hanno sottolineato la difficoltà per il pubblico di accettare, in un contesto in apparenza verosimile, gli scarti tra la realtà e il sogno che caratterizzano questa pièce. Secondo altri (Enrico Bassano) De Filippo ha costruito la commedia in modo tale che lo spettatore, preso dal concatenarsi degli eventi, sia indotto a sospendere ogni ragionamento quanto alla credibilità della situazione. Cesare Garboli osserva addirittura che con Le voci di dentro Eduardo opera una sorta di ribaltamento, poiché, secondo lui, in questa commedia "le visioni, gli incubi, le ossessioni, le fobie producono le cose e non viceversa" (Garboli, 1977).
Eppure, nonostante questo capovolgimento, nonostante il ricorso al sogno e le allusioni al soprannaturale, questa pièce – che Eduardo continua a mettere in scena fino agli anni di piombo – secondo quanto afferma lo stesso De Filippo in occasione dell’edizione del 1976-1977, mira a mostrare al pubblico niente meno che la realtà:
"Questa commedia è oggi ancor più attuale di quanto lo fosse nel ’48; viviamo brutti tempi [...]. E il dovere di un artista è quello di mostrare alla gente la realtà, per quanto sgradevole essa sia" (Fiore, 1977).
Conclusione
L’introduzione del soprannaturale nel teatro di Eduardo produce l’effetto di una realtà ambigua, sempre in movimento, ma non per questo meno ancorata alla Storia. Per la sua natura intrinseca il teatro in cui – attraverso la corporeità dell’attore e la presenza fisica degli oggetti scenici da una parte e l’immaterialità del testo dall’altra – convivono il reale e la fantasia, è senz’altro il mezzo più adeguato a rendere conto di tala ambivalenza. Eduardo De Filippo, seppure in modo meno sistematico e rigoroso rispetto al maestro Pirandello, si interroga sui meccanismi del teatro, sulla relazione che si stabilisce tra la finzione – o il nostro bisogno di finzione – e la realtà (la forma e la vita in Pirandello), proponendo al pubblico la propria interpretazione della Storia, mai disgiunta dalla sua esperienza di uomo e di artista, consapevole della funzione compensatoria del teatro (e della finzione) rispetto alla monotonia dell’esistenza.
Riferimenti bibliografici
DE FILIPPO (Eduardo), Le voci di dentro, RAI, 30 e 31 dicembre 1978.
DE FILIPPO (Eduardo), Lezioni di teatro all’Università di Roma "La Sapienza", Torino, Einaudi, 1986.
DE FILIPPO (Eduardo), Teatro, vol. II, Cantata dei giorni dispari. Milano, Mondadori (i Meridiani), 2005.
FIORE (Enrico), Paese Sera, 10 gennaio 1977.
FO (Dario), Fabulazzo, Milano, Kaos Edizioni, 1992.
GARBOLI (Cesare), Corriere della Sera, 21 gennaio 1977.
JACOBBI RUGGERO, Il Cosmopolita, 1° aprile 1945.
PANDOLFI (Vito), "Intervista a quattr’occhi con Eduardo De Filippo", Sipario, n° 119, marzo 1956; poi in PANDOLFI (Vito), Teatro italiano contemporaneo 1945-1959, Milano, Schwarz, 1959.
QUARANTOTTI DE FILIPPO (Isabella), Eduardo, polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1985.
QUARENGHI (Paola), DE BLASI (Nicola), «‘Le voci di dentro’, Nota storico-teatrale», in DE FILIPPO (Eduardo), Teatro. Cantata dei giorni dispari, Volume II, Milano, Mondadori (i Meridiani), 2005.
Pour citer cette ressource :
Margherita Pastore, Il teatro di Eduardo De Filippo, tra adesione al reale e intrusione del soprannaturale, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), octobre 2019. Consulté le 13/11/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/theatre/il-teatro-di-eduardo-de-filippo