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Gian Franco Venè, «Mille lire al mese»

Par Bernadette Tinti : Professeure agrégée d’italien - Lycée et Collège Maurice Genevoix de Montrouge
Publié par Damien Prévost le 08/06/2012

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((Mille lire al mese)) (Mondadori, 1988) è il titolo sia di un film sia di una canzone degli anni Trenta. Il film chiariva molto bene che per guadagnare questa cifra un giovane non solo doveva essere specializzato in un ramo della tecnologia d’avanguardia, ma gli conveniva emigrare. E infatti la vicenda si colloca a Budapest. Tutto ciò proiettava la conquista delle mille lire in una dimensione da operetta. Mentre il film fu dimenticato, la canzone diventò molto popolare. Le parole di questa canzone rispecchiano le apprensioni e le aspirazioni degli italiani dell’epoca : “Se potessi avere mille lire al mese”.

 

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Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista

Il congiuntivo passato marca l’irreale del presente, vale a dire l’espresione di un sogno inesauribile che incontra proprio la dimensione irreale del film. Il cantante si dice disoccupato e tormentato dai debiti e dal fatto di non trovare i soldi necessari per potersi sposare. Le ambizioni concrete di chi guadagna 1000 lire al mese sono ambizioni piccoloborghesi : un modesto impiego, una “casettina in periferia”, una “mogliettina, bella giovane e carina”. È un argomento del tutto concreto che colpisce un po’ in una canzone. Appunto questa canzone dimostra l’ossessione dell’epoca per il costo della vita.

Insomma, Venè ha scelto questo titolo per rappresentare il suo libro, innanzitutto perché la canzone conferisce una dimensione allegra e del quotidiano (che possiamo ritrovare nello stile adottato dall’autore), ma anche perché permette di dare una dimensione quantitativa e economica (che rispecchia il contenuto del libro).

Se ci soffermiamo un attimo sul sottotitolo del libro : “Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista”, possiamo osservare che vi si ritrovano gli elementi fondamentali dello studio di Venè.

Prima di tutto, possiamo dedurne che l’autore ha osservato gli italiani durante l’era fascista, ma escludendo ogni analisi politica. Invece di fare lo studio della storia delle idee, Venè si sofferma sulle abitudini di vita, sull’intimità degli italiani. Questo punto di vista permette di mettere in luce l’indottrinamento del regime fascista che abbracciò gli italiani dalla culla fino alla tomba e l’intrusione del fascismo nella vita quotidiana.

Venè sin dal sottotitolo introduce i personaggi del suo libro. Il protagonista di questa storia è la “famiglia”, cioè il nucleo della nazione, il cuore della propaganda fascista. Il regime infatti ha celebrato la famiglia numerosa, simbolo della rigenerazione della patria. I membri di questa famiglia, i personaggi del libro, sono appunto il capofamiglia, la padrona di casa, la domestica, la balia, i figli.

Venè decide di consacrarsi allo studio dell’Italia fascista tutt’intera, sia degli operai che dei contadini, l’alta, media e bassa borghesia, uomini e donne, gli italiani che vivono in città e quelli che vivono in campagna. Srotola il panorama più vasto possibile.

È la vita quotidiana ad essere messa in rilievo, al primo piano (all’inizio del titolo) e viene per ultima la nozione politica di fascismo. Infatti, è l’intimità degli italiani nella consuetudine dei loro costumi che ha la meglio sui dettagli storici e politici. Questo libro si colloca nella tradizione della storia dei modi di vivere, della “storia qualitativa”. Afferma l’importanza della vita quotidiana per conoscere a fondo la storia. Possiamo interpretare il titolo alla luce di questo sottotitolo : qui Venè analizzerà come gli italiani percepiscono queste 1000 lire al mese. Di conseguenza, due temporalità diverse si sovrappongono in questo libro. La prima corrisponde alla diacronia della giornata, la cronologia della vita di tutti i giorni (mattina, pranzo, pomeriggio, sera) ; è una temporalità domestica. La seconda invece corrisponde al tempo della Storia ; le date rilevanti che scandiscono l’era fascista non fanno che scaturire qua e là a seconda degli episodi accennati. Non vi è uno sviluppo cronologico.

Non a caso la partizione del contenuto del libro e l’organizzazione degli argomenti seguono l’andamento di una giornata-tipo dell’italiano in epoca fascista. Incomincia con “Prima dell’alba” e si finisce con la notte e l’anticipazione del risveglio. Possiamo pensare che quest’organizzazione del libro sia una metafora della durata della vita del Ventennio : si passa dai fascisti della vigilia fino alle dimissioni di Mussolini. Il Ventennio è assimilato ad una grande giornata in cui i protagonisti non sono più Mussolini o Achille Storace, ma gli italiani stessi. La nozione di intermezzo (Cfr. titolo della terza parte) traduce bene l’idea di una grande commedia dell’era fascista, dal punto di vista dell’intimità, quello che a priori sfugge al controllo del regime.

Di fatto questo libro rassomiglia piuttosto ad un racconto fatto di ricordi che ad un libro con fonti precise e scientifiche. Come molto spesso, per quanto riguarda questo periodo buio della storia italiana, ci si impernia sui ricordi, le testimonianze personali. Non importa la precisione dei fatti, ma la percezione di questi fatti e i sentimenti degli italiani. Gian Franco Venè fa rivivere la vita di tutti i giorni di quell’epoca (i prezzi, i modi di vestire, le abitudini, i vezzi e gli umori) con ironia.

Seguiremo quindi la struttura scelta dall’autore giacché è molto originale.

A) L’alba del regime fascista

Il primo capitolo del libro s’impernia su un evento storico, datato : la partenza del direttissimo n° 17 da Milano a Roma il 29 ottobre 1922. Su questo treno viaggiava Benito Mussolini, incaricato dal re di formare il nuovo governo. L’incarico governativo fu ottenuto con la promessa di fermare la marcia su Roma.

Attraverso la descrizione del ferroviere del treno vengono descritti gli “antemarcia”, cioè i “fascisti della vigilia” come saranno chiamati dopo. Riconoscibili dalle divise difformi, ma uniti dalla loro camicia nera. Viene introdotto il testimone maggiore di questo libro, uno scrittore contemporaneo di quegli avvenimenti, Emilio Radius, diciottenne. Sono trascritte le sue impressioni all’arrivo del treno a Roma : i fascisti si sostituivano alle genti di mestiere pretendendo di saperla più lunga di loro.

Oggi sembra incredibile, ma i fascisti intervenivano a una data ora, per lo più a mezzanotte come gli spettri, anche alle feste da ballo private. [...] I primi fascisti, ecco, erano una genìa che non sapeva assolutamente asternersi da qualche cosa.”

Quel capomacchinista, primo protagonista della giornata, “uscì da una notte di storia per riprendere senza alcun ruolo esaltante la vita degli italiani nell’anno prima dell’era fascista”. Dopo questo racconto, si varca la soglia della sfera intima, e non più storica, banale, e non più stra-ordinaria.

B) La mattina del regime fascista

Questa seconda parte del libro corrisponde ai primi anni del fascismo.

1) Bagni e bandiere

Il primo capitolo dimostra come il fascismo tenta di inserirsi nelle abitudini degli italiani.

Dopo l’alba e il sorgere del sole, Venè appunto non per caso inizia il suo libro con l’argomento dell’igiene e della salute : all’epoca il sole è igiene, è salute. Secondo periodici come “La donna medico di casa”, il solo fatto di abitare in case sane e ricche di sole diminuirebbe i casi di tubercolosi. L’uomo fascista dev’essere un uomo solare. Un po’ di sole ogni giorno, leva il medico di torno.

Sono descritte le abitudini igieniche. Il bagno è definito come angolo dove assolvere igienicamente alle impellenze fisiologiche. Nel ‘31 nei capoluoghi, su 100 appartamenti, 88 non disponevano di un bagno e quindi di un wc. C’erano stanzini ricavati sui ballatoi, gabinetti alla turca (una specie di scalino di cemento in mezzo al quale si apriva un buco ; niente sciacquone ; carta igienica rudimentale : brandelli di giornale o di carta da macellaio, resistente, spessa e spugnosa). La diffusione dell’acqua corrente fu prova della nuova civiltà perché convinse i borghesi a lavarsi di più e a puzzare di meno. Durante il Ventennio la vita di tutti i giorni è migliorata da questo punto di vista.

Le prediche igienistiche del regime (Venè prende esempi di consigli di igiene intima come il mutarsi di biancheria ogni 4 giorni (dall’aggettivo verbale latino, le mutande sono ciò che va mutato)). Dopo la prima guerra mondiale si osserva un’evoluzione della coscienza igienista: si raccomanda di avere un lavabo a casa per potersi lavare le mani dopo i bisogni corporali. Appaiono secchi per i bisognini, ma sono troppo cari, cosicché molta gente preferisce frequentare i ‘gabinetti pubblici’, curati da custodi. Il ceto medio è più sensibile alle prediche igienistiche del regime: l’igiene porta alla salute, la salute permette la conservazione della razza, quindi la crescita demografica, la resistenza ad un’alimentazione ipocalorica e ipoproteica. Si sviluppa un’intensa opera di divulgazione igienica attraverso i manuali di educazione domestica, d’obbligo per le fanciulle.

Nella descrizione delle abitudini igieniche affiora una distinzione di classe e di ceto sociale. Un bagno, un wc e una casa luminosa sono un lusso delle case signorili. Si sviluppa una tutela che, se segna l’evoluzione della coscienza dell’élite, sottolinea il fatto che il popolo abbia ancora bisogno di essere consigliato. I lavoratori manuali, sporchi di sudore dopo una giornata di lavoro, si lavano integralmente la sera, mentre i borghesi si lavano sommariamente la mattina. Quindi in sostanza sono loro ad avere una migliore igiene, eppure si dice “sporco come un carbonaio”.

Sin dall’inizio, l’autore mostra di voler fare un ritratto della società fascista nei minimi particolari anche i più impudichi, proprio perché questi particolari fanno parte della vita di tutti i giorni. Possiamo intuire umorismo da parte di Venè ! Per esempio a pagnia 15, Venè ritrascrive un messaggio che veniva incollato sulle porte dei gabinetti : “Non si chiede di fare centro, mal almeno di farla dentro”. Dipinge così la promiscuità dei bagni pubblici, mira a farci entrare nel vivo dell’argomento della vita quotidiana. Anche se ci si lava di mattino, scegliere questo argomento come il primo è abbastanza ironico.

2) Attenti alle scarpe

Una volta che si è puliti, ci si veste. Venè descrive dunque le abitudini dell’abbigliamento.

La borghesia è presentata come spina dorsale del regime. Secondo Venè la borghesia si è sentita per la prima volta protagonista riconosciuta della vita nazionale col consolidarsi del regime (dopo l’assassinio di Matteotti, con la totale fascistizzazione dello Stato e degli Enti locali e la conquista dell’impero). La borghesia si sentiva marginalizzata perché i protagonisti erano i capitalisti e gli operai. I valori della piccola borghesia (Dio, patria, famiglia) erano glorificati al massimo dalla propaganda fascista.

Il modo di vestire di allora rispecchia l’intreccio di questi elementi sociologici : il piccolo-borghese non imita più nell’abito l’alto-borghese, cerca di accoppiare il necessario risparmio a qualche tentativo di invenzione. Per esempio, compra cravatte col finto nodo da allacciarsi coll’elastico senza fascia posteriore.

Il modo di vestirsi rispecchia l’appartenenza ad un ceto sociale ; per cui gli operai esibivano le toppe e i rammendi sulle maglie, le camicie e i pantaloni, mentre i piccolo-borghesi menavano per aria una canna di bambù. Venè parla della loro “spavalda compostezza”.

L’ossessione per le scarpe è forse il segno distintivo per eccellenza, per i borghesi, tra loro e il popolo. I contadini andavano a piedi nudi, tranne per andare al mercato (gli zoccoli affaticavano, le scarpe costavano troppo). Per la piccola borghesia cittadina, invece, i piedi nudi erano segno di barbarie (vi era una similitudine con i negri etiopici scalzi raffigurati sui giornali e le cartoline). Il regime non seppe far emergere un fondo culturale comune della piccola borghesia e del ceto contadino. Questi due ceti sociali davano il loro consenso al regime per ragioni opposte. Il consenso era quindi fragile. Per gli impiegati pubblici e privati, le scarpe sono le spie più impertinenti del loro patrimonio. Venè descrive le attività dei ciabattini (che costruivano e ritoccavano le scarpe) e dei lucidascarpe (categoria inferiore) fissi o ambulanti (sotto i portici, con armadietto e specchio). Una scarpa rotta dà lo stesso sentimento di trascurateza e di miseria di una macchina scassata. Le scarpe erano sottomesse ad un logorio spietato e continuo : si camminava per strade trascurate e per interi chilometri (infatti i mezzi pubblici non erano sviluppati). “Si camminava per andare a scuola, al cinema o al cimitero. Per ascoltare la messa e per fare l’amore.” Venè traduce l’incubo del consumo delle scarpe. È proprio una storia qualitativa !

Attraverso l’abito si poteva esibire un certo patriottismo : dopo l’aggressione italiana all’Etiopia, Mussolini inaugurò la politica dell’autarchia, secondo la quale l’industria nazionale avrebbe fabbricato tutte le merci necessarie. Anche se i nuovi tessuti che vengono a sostituire la seta (il raion) e il cotone erano di minore qualità, i ceti mediobassi che non erano avvezzi alla confidenza con abiti di qualità non si dispiacevano, anzi ritenevano questi tessuti come espressioni della modernità italiana. Qui possiamo osservare l’intrusione della Storia per spiegare certe abitudini.

3) Bambini in fila per due

La mattina, si va a scuola ! Tramite quest’immersione nel mondo della scuola, Venè mette in luce l’impronta del regime nell’educazione dei bambini.

L’iscrizione dei bambini all’Opera nazionale balilla e, più tardi, alla Gioventù italiana del littorio (Gil) non era obbligatoria, ma non aderire non conveniva. In più, chi possedeva la tessera usufruiva di provvidenze stabilite dallo statuto della Cassa mutua assistenza. L’Onb promuoveva ogni settore dell’assistenza sociale per i giovani, come nessun governo precedente aveva mai fatto. Per esempio, si regalavano libri e quaderni ai bisognosi ; vi erano colonie marine estive, campeggi estivi ed invernali.

Lo scopo principale dell’insegnamento durante l’era fascista è di imparare l’ordine e la disciplina. Questa disciplina, quasi militare, si trasmette tramite un vero e proprio cerimoniale della lezione scolastica.

Dalla terza in poi, un coetaneo, nominato capoclasse, obbedito e rispettato dai compagni, era responsabile della disciplina in assenza dell’insegnante. “Il capoclasse passava in rassegna il plotoncino elementare, all’apparire della maestra ordinava l’attenti e presentava la minuscola compagnia”. Venè usa appositamente un lessico militare per dipingere l’atmosfera della classe. Il grembiule nascondeva ogni appartenenza sociale, allo stesso modo della divisa unica e uniforme dell’esercito.

Prima di sedersi si passava alla preghiera, recitata al mattino e alla sera. Per i bambini era una norma del buon vivere più che devozione. Le maestre lo facevano con molta convinzione, per spirito ugualitario, convinte di combattere l’ingiustizia per la quale soltanto i più fortunati avevano già compiuto le devozioni a casa. Un passaggio raccomandava al Signore “la cara patria nostra, i sovrani e il nostro duce”. Attraverso la finestra aperta, il canto si diffondeva nelle strade silenziose.

Mani in seconda” : schiena eretta contro la spalliera del banco, braccia sovrapposte dietro le reni, palmi all’infuori durante l’appello. Vengono elencate le varie mosse del bambino che risponde agli ordini della maestra, che poi ordinava “mani in prima”. Le posizioni erano scandite da una battuta di bacchetta sulla cattedra. “Bambini, mani sul banco” : questo era l’attimo che precedeva l’inizio della lezione.

Venè evoca un’altra lezione di gestualità : la cura del quaderno “di bella” sul quale si ricopiano a casa gli esercizi fatti in classe. Dà l’esempio della decorazione personalizzata di una prima pagina: in alto, in stampello verde, le scritta “W il Re – W il Duce”. Al centro della pagina, il fascio con i legacci tricolori, giallo con la scure azzurre. Alla base del fascio, “A noi!”.

Dopo la disciplina, il fatto più particolare della scuola sotto il fascimo è che era un luogo di disugualianze. Innanzittutto, vi era una segregazione sessuale. In un’aula i maschi, in un’altra le femmine. Nelle scuole di campagna, dove i bambini assistono alla nascita del vitello e sanno tutto della riproduzione animale, la segregazione sessuale fu tacitamente trascurata. La discriminazione così severa mise in testa ai maschi un’idea fissa e difficile da estinguersi con gli anni : le bambine avevano bisogno di classi particolari perché dovevano imparare, immaginavano, a cucire, lavare i piatti, ricamare, a diventare donne di casa ; ma anche perché erano meno intelligenti e più lente nel capire. Non serviva loro studiare, perché le più povere sarebbero state costrette a lavorare, mentre le altre si sarebbero sposate per restare in casa. Senza nessuna pressione del regime, gli scolari degli anni Trenta si appropriavano delle teorie che gli intellettuali fascisti andavano elaborando (Cfr. “Critica fascista”, 15 febbraio 1939). Si imparano a scuola i codici della società per la vita adulta. In più, vi era una disuguanlianza più concreta e più incisa nelle memorie : quella tra gli scolari urbani e urbanizzati e quelli rurali. L’utilitarismo padronale (decideva il padrone attraverso i suoi fattori o guardiani quanti figli di contadini potevano sottrarsi al lavoro ed andare a scuola). Per esempio, su 40 famiglie che abitavano in una parrocchia, solo 10 mandavano i loro figli a scuola, secondo il cronista contadino, Aurelio Presciutti.

Nelle scuole fasciste non c’era spirito critico, perché non c’era bisogno di chiarire le ragioni dell’apparire del fascismo. L’importante era che i ragazzini trovassero naturale di farlo. L’insegnamento scolastico primario dava per scontato che il fascismo fosse la naturale eredità degli antichi fasti romani, filtrata attraverso la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Per esempio, nel 1934 Musollini estese alle scuole elementari la radiodiffusione. L’apparecchio veniva istallato nell’ufficio del direttore scolastico e collegato alle aule grazie a un sistema di amplificatori a tromba. I programmi di Radiorurale per le scuole duravano mezz’ora ogni mattina, dalle 10,30 alle 11, lunedì e venerdì. Annientavano la prospettiva storica : dalla “Fondazione di Roma” si saltava d’un balzo a “Terrore rosso – radioscena imperniato sulle infamie dei comunisti durante la guerra civile di Spagna”.

Il consenso dei bambini può forse assimilarsi, in un certo senso, al consenso della popolazione dell’epoca. Il consenso a Mussolini si misura coll’azione “Oro alla patria” nel 1935 per finanziare la guerra all’Etiopia. Gli sposi furono invitati a donare le fedi d’oro e d’argento allo stato in cambio di fedi di ferro. Fu un atto simbolico : ci si sposava in un certo senso al regime, si prometteva di essergli fedele.

4) I conti della spesa

Si faceva la spesa la mattina in fretta, perché le donne possano prepare il pranzo del marito.

In questo capitolo, possiamo leggere un esempio molto parlante dell’incontro tra vita quotidiana e Storia. All’inizio del capitolo si penserebbe di leggere il racconto di una serva tornando dalla spesa e che per strada trascorre un pezzo di storia : “Un giorno di maggio 1930 la servetta milanese Tersilla Rinoldi tornò dal mercato con molto ritardo perché si era fermata a guardare l’incendio dei tram a San Siro.” : demolizioni e sventramenti facevano a quell’epoca spettacolo quanto le inaugurazioni. La serva viene nominata, messa in rilievo, come se fosse famosa.

Le due protagoniste di questo periodo della giornata sono la domestica e la padrona di casa piccoloborghese. Effettivamente, la spesa è appannaggio delle donne.

L’autore cita le parole della domestica tra virgolette, ma non dice da dove sono estratte queste dichiarazioni, cosicché la serva sembra rivolgersi direttamente al lettore del libro, come coinvolto nel discorso. In questo modo Venè rende più vivace il racconto e quell’epoca lontana e storica. Per la serva, la spesa è la vacanza quotidiana del servaggio, un riconoscimento della sua intelligenza e della meritata fiducia del padrone, giacché tocca a lei stimare la qualità delle verdure e della frutta, controllare gli imbrogli del negoziante e trattare lo sconto. Il “tira e molla” dello sconto si perpetuava, malgrado le leggi del regime sul prezzo fisso. Venè descrive l’abitudine di fare la cresta sulla spesa.

La padrona di casa piccoloborghese è la seconda protagonista di questo periodo. Fino alle soglie della borghesia medioalta, la virtù di una sposa non era nella capacità di saper cucinare bene, ma di farlo con poco e pochissimo. L’unico lavoro spettante alla donna, respinta in ogni altro campo di attività, era di contribuire alla spesa valorizzando con l’abiltà, il tempo e la fantasia, i prodotti acquistati. La casalinga aveva per modello e rappresentante un personaggio pubblico di quell’epoca : la più persuasiva delle suggeritrici, l’intrepete somma del pensiero femminile piccoloborghese in epoca imperiale, la dispensiera di consigli pratici forse più popolare del secolo, Amalia Moretti Foggia, laureata in medicina, conosciuta attraverso lo pseudonimo altrettanto celebre di Petronilla. Ella pubblicava le sue ricette su “La Domenica del Corriere” ed era considerata come la maestrina del buon vivere mediobasso.

Venè elenca le cifre degli stipendi a seconda del mestiere : oscillava tra 300 a 400 lire lo stipendio dell’operaio specializzato ; un impiegato di alto livello e laureato riceveva 800 lire al mese ; 1 000 lire in su spettavano a un capufficio avviato alla carriera dirigenziale nel settore dell’industria ; 3 000 lire spettavano ad un ufficiale dell’esercito o ad un accademico d’Italia, un “immortale” della cultura fascista. Se confrontiamo queste cifre con il favoloso 1 000 al mese del titolo, ci possiamo rendere conto del divario tra la realtà quotidiana della maggior parte degli italiani e il sogno popolare di una vita migliore.

Venè passa ad elencare i prezzi dei beni di prima necessità. Dal 1936 in poi i prezzi degli alimentari cominciarono a salire senza rimedio e la qualità della merce a peggiorare. Nel 1940 il pane, ovvero il genere alimentare più diffuso nei strati sociali mediobassi, era a 2,70 lire il chilo contro 1,60 negli anni Trenta. Questi strati sociali mediobassi sono la vera base del consenso al regime, giacché dettero minor peso al blocco delle importazioni, conseguente alle sanzioni internazionali contro l’Italia, e dettero il maggior consenso al regime anche quando i prezzi aumentarono.

Le abitudini culinari persisterono malgrado diete ossessivamente e ripetutamente consigliate dal regime attraverso giornali e ricettari.

Le donne piccoloborghesi avevano spese non solamente per il cibo. Spendevano molto in biancheria intima. Per le donne, la distinzione di classe si portava sotto la gonna, perché apparire belle non era un titolo di merito per il regime, ma segno di scarsa vocazione matrimoniale. Qunidi bruttine all’esterno, le signore curavano la segreta seduzione. All’epoca si considerava la sottoveste come la vera divisa della seduzione e le righe delle calze bastavano a provocavano il desiderio maschile.

5) L'Italia va al lavoro

Venè fa una breve incursione sul lavoro nelle fabbriche italiane durante il fascismo. Siccome aveva il culto del lavoro, il fascismo si infiltrò nelle fabbriche dove impose l’efficienza lavorativa come parola d’ordine. E in ogni fabbrica vi erano rappresentanti del partito. Paradossalmente però, il lavoro era considerato per molti come un’‘evasione dal fascismo’ (Emilio Radius), giacché il partito era costretto ad ammettere anche gente non fascista. Infatti i tecnici e i veri dirigenti, cioè quelli che erano qualificati, si sapevano indispensabili e perciò rimasero autonomi e indipendenti dal regime e dalla divisa in particolare.

Venè si sofferma più a lungo sulla distinzione tra operai e impiegati all’interno della fabbrica. Venè osserva innanzi tutto la sproporzione numerica abissale tra la folla di operai e il minuscolo gruppetto di impiegati. Tra gli operai si distinguono i fascisti di provata fede, i fascisti opportunisti e i non fascisti. Venè prende posizione nel dibattito storiografico che riguarda la colorazione politica degli operai e afferma che “nella stragrande maggioranza gli operai non erano mai stati fascisti convinti anche se aderenti ai sindacati fascisti”. Gli stipendi bassi degli operai rendevano obbligatorie le ore straordinarie : il cottimo – un tanto di più sulla paga base per ogni pezzo lavorato – garantiva un livello di vita tollerabile.

Venè poi dipinge il ritratto dei capi dell’ufficio, spesso ex carabinieri, ex guardie di finanza oppure ex militari. In genere davano del tu agli operai e del lei agli impiegati. Pretendevano che gli uffici, più che l’officina, rassomigliasse ad una caserma. Venè insiste molto sulla loro autorità e intransigenza nei confronti degli impiegati e sulla disciplina tassativa e ruvida verso di loro. Per esempio, dal momento in cui era diventata obbligatoria l’iscrizione al partito (metà degli anni Trenta), erano tutti quanti messi in divisa da lavoro ; gli errori individuali e i ritardi non erano ammessi ; se si aveva un mal di denti, bisognava aspettare la fine della giornata per poter andare dal dentista, perché i capi del personale non lo riconoscevano come una malattia. Venè afferma che senza dubbio durante il Ventennio una moltitudine di italiani, come questi capi d’ufficio, si lasciò coinvolgere dalla politica fascista o almeno dai fasti di essa. Gli interessi industriali collimavano sui principi politici per gli ex carabinieri, privi di convinzione politica.

Venè oppone a questa disciplina estrema, l’aiuto reciproco dei lavoratori delle fabbriche. Alla solidarietà tra le classi operaie corrispondeva l’amicizia personale tra gli impiegati. E le amicizie finivano per somigliare sempre più a parentele, cosicché i colleghi amici diventavano testimoni di nozze, padrini di battesimo e di cresima, zii di fatto.

Poche linee sono dedicate al lavoro delle donne, proporzionalmente al posto che occupavano nella fabbrica e alla poca stima che gli uomini dimostravano loro. Le “cose” delle donne non si menzionavano, oppure suscitavano il sarcasmo degli impiegati maschili ; quindi dichiarare la sofferenza sarebbe stato considerato come un argomento in più contro il lavoro femminile. Si prescriveva il Sanadon in caso di dolori mestruali ed era considerato come un prodotto di bellezza e non una medicina, cosicché un’assenza dal lavoro per dolori mestruali sarebbe stata altrettanto ingiustificata di una visita al parrucchiere.

C) L’intermezzo per il pranzo della domenica

L’unico vero pranzo della settimana è quello della domenica. E nella giornata tipo che ci presenta Venè, rappresenta il pranzo fascista per eccellenza.

Venè prima di affrontare l’argomento del pranzo, si sofferma sull’abitudine di scrivere lettere. In assenza di telefono si scriveva molto di più, più a lungo e molto meglio di oggi, e spesso di domenica. Si scriveva ai parenti, ai figli militari, oppure ai fidanzati. Esistevano manuali per lettere d’amore intitolati “segretari galanti” (Cfr. estratti di Galateo del Novecento di Vanna Piccini). Erano lettere traboccanti di iperboli, termini ricercati per esprimere sentimenti pudichi. Il segretario del partito, Achille Starace, voleva che ogni corrispondenza si concludesse con il motto “W il DUCE”. Ma non fu mai preso sul serio e l’intimità rimase intatta. Il fascismo non si inoltrò fino in fondo al quotidiano.

Venè descrive un’immagine abituale all’epoca, quella di un gran incrociarsi di capifamiglia che rientravano a casa dopo la fine della messa per iniziare il pranzo, con il vassoietto delle paste appeso per il fiocco al mignolo.

Dopo di che passa a elencare i preparativi del pranzo : pulire la casa, lucidare i pavimenti, togliere il superfluo degli attaccapanni e riempirne l’armadio, apparecchiare la tavola, ecc. Nel rituale di ricevere, la piccola borghesia continuava a imitare le usanze dei ceti superiori. Ad esempio, il signore e la signora si riservavano il posto a capotavola e a quest’occasione, la serva assumeva il ruolo sia della sguattera che della bambinaia, della cuoca e della cameriera. Per esempio, andava a cercare il pane dal fornaio (le famiglie non avevano il forno in casa). Si chiamava la cameriera con un campanellino e non a voce e si instaurava tra la padrona di casa e la cameriera un codice : un colpo per “vieni”, due per “porta il vino”, uno lungo per “porta la pietanza” o “togli i piatti”. Tutti i minimi gesti erano previsti, regolati.

Dibattere gravi questioni private a tavola sarebbe stato da guastafeste. Per cui non c’era mai conflittualità d’opinioni tra la piccola borghesia. Si preferiva fare barzellette tra signori che spesso avevano come bersaglio il sesso femminile. E le donne erano tenute a sorridere e ad ostentare innocenza e imbecillità nel non cogliere i doppi sensi dei giochi di parole lubrichi.

Però il rituale del ricevere piccoloborghese a volte riprecipitava infinitamente al di sotto di quello altoborghese : l’ospite e il padrone di casa prendono a fare la scarpetta e insistono per non cambiare piatto tra la minestra e la carne. Il sugo “finto”, cioè senza carne dentro, era uno dei primi esperimenti di una cucina piccoloborghese che si allenava ad ingannare l’appetito, sostituendo la sostanza con la forma – dato che i prezzi erano cresciuti all’inizio degli anni Quaranta, dopo le restrizioni belliche. Quella era un’ingeniosità con la quale ogni giorno, in cucina, si affrontava la “difficoltà di vivere e il gusto di sopravvivere”.

D) Il pomeriggio

Questa parte della giornata è sotto il segno dello spasso.

1) Il Sabato dell'amore

Venè incomincia con trattare dell’amore tra marito e moglie, ovvero dell’amore sacro e consacrato.

Racconta la tradizione dell’amore pomeridiano in assenza dei figli, che erano reclutati il sabato pomeriggio dalle 14,30 alle 16 per l’adunata alla Casa del balilla. Eppure anche i padri avrebbero dovuto dedicarsi alle attività sportive o postmilitari del Sabato fascista, ma mandavano avanti i bambini e disertavano. Se le assenze diventavano troppe, l’indisciplinato veniva convocato al fascio rionale dal fiduciaro. Tuttavia non veniva punito perché si capiva questo suo bisogno, anzi si privilegiava il riprodursi.

Effettivamente, il regime promuoveva massicciamente i rapporti sessuali. Si offriva agli operai che si sposavano entro il venticinquesimo anno un assegno nuziale di 700 lire ; al contrario, i maschi non sposati pagavano la tassa sul celibato. Il regime, secondo il quale il numero fa la forza della nazione, si slanciò in un’ossessionante campagna demografica – al massimo dell’intensità nel 1937 – che a poco a poco prese forma e forza di legge. Fu l’unica iniziativa del regime a penetrare nella vita coniugale. Si offrivano benefici immediati in denaro a chi aveva molti figli. Venè parla per esempio delle madri riconosciute prolifiche (con almeno 7 figli) alle quali Mussolini inviava 5 000 lire, più una polizza di assicurazione di 1 000 lire, oppure le consegnava personalmente in fastose cerimonie a Palazzo Venezia. I capifamiglia con prole numerosa godevano privilegi straordinari, come per esempio forti sconti nell’affitto degli appartamenti. La piccola borghesia e la popolazione cittadina interpretò l’ordine di Mussolini di procreare come un’autorizzazione a “peccare”. Siccome la media di 2 o 3 figli prese a diminuire anziché ad aumentare (Venè parla del “continuo, precipitante declino delle nascite”), il regime fascista e la Chiesa concentrarono i loro sforzi nell’eradicare i rapporti sessuali sterili : il preservativo era nascosto nel retrobottega, considerato una vergogna ; Gondone (da candom in inglese) diventò un insulto.

Gli amori adulteri vengono logicamente dopo. Possiamo osservare il perpetuarsi di una grande disuguaglianza tra maschi e femmine di fronte all’adulterio. Infatti, solo le donne potevano essere punite per adulterio (con un anno di carcere) secondo il codice penale fascista, e l’assassinio per onore era un diritto esteso a tutti i maschi. Perché l’uomo sia perseguitato dalla giustizia, bisognava che trasformasse la propria casa in harem, cioè che la convivenza adulterina sia costante (sempre con la stessa donna) e notevole ... Vale a dire che non succedeva mai.

Per le donne, il pomeriggio lavorativo dei mariti permetteva di evadere. Il pied-à-terre era un appartamento affittato dall’amante che la polizia politica (l’Ovra) teneva d’occhio. Si frequentava il pied-à-terre di pomeriggio, quando l’ora di cena era lontana, una volta fatta la cucina e la spesa, e mentre i figli venivano affidati alla serva oppure alla vicina di casa negli ambiti piccoloborghesi. “Paradossalmente, furono proprio la mentalità dell’epoca e la politica del regime – entrambe volte a scoraggiare il lavoro femminile per restituire le donne alla vita familiare – a creare le condizioni ottimali per lo svolazzo stagionale delle rondine verso i pied-à-terre”. Possiamo notare che la donna adultera è paragonata ad una rondine che svolazza. Venè qui riprende l’espressione popolare e lessicalizzata a quell’epoca dello “svolazzo delle rondine” e la metafora traduce l’idea della volubilità delle donne. Le signore piccoloborghesi avevano l’abitudine di uscire fino al tramonto ; avevano vari alibi, come quello di andare dalla sarta o prendere il tè a casa di un’amica. Avere la possibilità di prendere un amante era un lusso e dunque un altro criterio di distinzione sociale tra donne piccoloborghesi, e operaie e contadine che lavoravono tutta la giornata.

2) Ai giardini pubblici

I giardini pubblici erano un’altra evasione dalla monotonia casalinga per andare a spasso.

Andare ai giardini pubblici era l’occasione per le signore piccoloborghesi di divertirsi.

Le signore piccoloborghesi andavano ai giardini pubblici con i figli. Si sedevano su panchine a distanze dalle balie in divisa e facevano la maglia, oppure leggevano un libro. La lettura di un libro conservava un che di trasgressivo ; perciò usavano una sovracopertina per nasconderne il titolo. La lettura da bambine era stata loro impedita. In realtà le donne leggevano assai più degli uomini, ma, se lo facevano, non se ne vantavano. Grazie ai libri gli orizzonti femminili si distesero e non furono più delimitati alla casa angusta e alla cucina fumosa. Venè acenna al romanzo di sucesso intitolato Avventura a Budapest, scritto da Kormendi e ambientato in Europa centrale, con adulteri a lieto fine sull’Orient Express. Le eroine erano considerate come “avventurose di lusso”. Questo libro fu all’origine del genere del “romanzo ungherese”. La censura del regime fece poco contro questi libri di cultura seria. Si accontentava di modificare i testi originali dei gialli, per fare in modo che l’assassino fosse per forza straniero. Però, nei giardini le signore erano tenute d’occhio da sorveglianti che badavano alla “pulizia dei costumi”. Era per esempio vietato ai fidanzati abbracciarsi, vietato passeggiare tenendosi allaciati per la vita e baciarsi.

Andare ai giardini pubblici era soprattutto l’occasione del divertimento dei bambini. Le signore portavano il figlio al parco per farlo giocare all’aperto : vi erano piste per le automobiline a pedali, i monopattini, le biciclettine con il carrozzino a fianco. Nelle vasche dei giardini pubblici si potevano tuffare oche di celluloide legate al collo per un filo. I bambini un po’ più ricchi, invece della barca a vela, avevano i primi giocattoli a elica, modelli di transatlantici, navi di guerra e idrovolanti. Venè si sofferma abbastanza a lungo sulla descrizione dei giocattoli dei bambini, come se gli stesse a cuore dipingere il loro punto di vista autocentrato, il loro piccolo mondo fatto di dettagli.

Al divertimento dei ragazzi cittadini corrisponde il lavoro dei ragazzi di campagna. Le ore trascorse a scuola erano per i genitori un’ “oziosa stravaganza moderna”. L’equivalente del loro parco pubblico era il bosco o il pascolo. Era più faticoso l’incarico di andare a far legna nei boschi, quindi al pascolo, i più volonterosi potevano portarsi con sé i libri e ripassare la lezione. Nei paesi, i figli maschi raggiungevano il padre sul luogo di lavoro, perché non dovevano infastidire la madre in casa né andare a zonzo, e perché era bene che imparassero da vicino il mestiere paterno. Finivano col lavorare sul serio e gratis, come per esempio i figli di bottegai che ripulivano la bottega.

3) Pane e lardo

Nella continuità dell’argomento precedente, Venè affronta il quotidiano dei ragazzi dopo la scuola : i loro spassi e giocattoli.

Il ciclismo era lo sport più popolare all’epoca assieme al calcio, giacché tutte le classi sociali usavano la bici. Tant’è vero che i ragazzi e soprattutto i liceali volevano imitare i corridori e spesso portavano con sé le gomme a tracolla proprio come i loro modelli. Una certa emulazione, dovuta alla popolarità di certi corridori come l’antifascista Ottavo Bottecchia, traspariva nel vestirsi e nel camuffamento della bici. Il manubrio veniva girato all’ingiù per rassomigliare al manubrio colle corne di bue dei corridori. Quest’emulazione rispecchia la difficoltà per i giovani di ottenere quello che si desidera, il contrasto tra la modestia della realtà quotidiana (bici usate per andare al lavoro) e gli stimoli a vivere qualsiasi evento come un’avventura trionfale (stimoli dati dal regime).

Attraverso i loro giocattoli, i bambini maschi potevano scoprire le proprie attitudini manuali e mentali, e non certo prepararsi alla professione che avrebbero scelto (“Il destino del fascismo si sarebbe risolto in una immensa moltitudine di capitreno”).

I giocattoli più venduti all’epoca erano l’immagine dell’ideologia del regime che propugnava la violenza persino da bambino. Il giocattolo più popolare era un fucile, il cui funzionamento era identico a quello vero, tranne che la baionetta aveva la punta arrotondata. I fucili a salve facevano un botto e finiva lì ; quelli a cartucce avevano la pallottola di legno. In più, i negozi di giocattoli vendevano anche le divise dell’esercito a misura dei bambini, cosicché si potevano procurare l’elmo di latta col piumetto dei bersaglieri, e le divise con i gradi, proprio da generale. Non si tenta alcun passo in avanti rispetto alla realtà, anzi ci si riferisce al passato. I giocattoli musicali erano un tamburo da portare a tracolla come nelle battaglie ottocentesche.

Venè enumera parecchi giocattoli tipici dell’epoca, tra i quali il trenino e il meccano che esaltano la virilità del maschietto. Non c’era nessun bambino piccoloborghese che non si facesse regalare dai nonni o dagli zii il “Piccolo falegname” che era un gioco più impegnativo che divertente. Ma era condannato ad imparare i rudimenti dell’arte del traforo, l’equivalente del ricamo per le bambine. Infatti attraverso l’educazione dei bambini, ovvero attraverso i loro giocattoli e l’identità che rispecchiano, il regime detta il ruolo da assumere nella società patriarcale dell’era fascista : i maschi sono destinati a compiti virili che richiedono l’uso della forza, della virilità e della violenza.

Appunto, per le femmine non esistevano giocattoli meccanici, ma giocattoli molto più somiglianti alla realtà che esigevano minor sforzo di fantasia. Le bambine crescevano con giocattoli veridici che venivano poi sostituiti da ustensili casalinghi veri. Erano una testimonianza della continuità di orizzonti tra la vita infantile della donna e la sua vita adulta, cosicché i giocattoli a lei dati da piccola già definivano la sua identità di madre, di sposa e di casalinga. Per illustrare questo fatto, Venè evoca la vecchia bambola delle mamme piccoloborghesi che si poteva spesso trovare al centro del letto matrimoniale. A 6 anni una bambina sapeva già cucire l’abito della sua bambola, aveva già il suo ditale e l’ago di celluloide. Il regime fece sì che la scatola con gli accessori per il ricamo costasse meno di 10 lire e fosse quindi accessibile per quasi tutte le famiglie. C’erano la “cucina economica per bambola” e la macchina da cucire giocattolo, cosicché la bambina capace di usare il giocattolo, sapeva usare la vera macchina da cucire della mamma.

4) Dopo il lavoro, il dopolavoro

Il regime non solo intervenne nella sfera del lavoro, ma inquadrò anche i momenti di divertimento dei lavoratori. Non esisteva il fine settimana come lo intendiamo oggi. Il sabato era giornata lavorativa di 8 ore fino al 1935. Venè insiste sul trionfale successo dell’Opera nazionale del dopolavoro, la più attiva, popolare e meritoria organizzazione fascista insieme all’Opera balilla. Si potevano iscrivere al dopolavoro anche i non aderenti al fascio : era aperto a tutte le idee, purché non espresse in alcun modo esplicito. Accoglieva tutta la nazione, senza distinzione d’impiego, di abiti indossati (medioborghesi, piccoloborghesi, operai, negozianti e contadini). Secondo Venè, grazie all’organizzazione del tempo libero degli italiani che domandavano soltanto un po’ di spasso, il regime riuscì a creare una società corporativa al di sopra delle classi.

Le sedi assomigliavano a osterie e non a caserme. Vi erano iniziative collettive : organizzazione di tornei di qualsiasi sport, dalle gare ciclistiche alle corse nei sacchi, dal ping pong al tiro a segno, dagli scacchi alla briscola. Erano organizzate a poco prezzo gite, anzi escursioni. Non si andava mai oltre i 100 chilometri, in treno o in corriera, in bici o a piedi. Tant’è che le sedi del dopolavoro venivano considerate dagli operai come la loro seconda casa. Vi si praticava la “distensione, lo stirarsi e mettersi in libertà, l’annacquare il fascismo e il suo regime, il tornare a essere se stessi ma in tanti, collettivamente, sul piano nazionale, generalmente e totalmente come non era stato mai prima di allora. L’Italia trovò la sua prima unità spirituale nel dopolavoro, nella distrazione consentita e regolata, nella tregua quotidiana della rivoluzione.” Il clima di allegra brigata favoriva le confidenze e lo scambio di opinioni.

Questa pratica (ossia l’osservare attentamente la vita quotidiana) è molto rilevante nel chiarire il ruolo di un’ “unità spirituale” constatata nella storia dei fatti. Qui Venè mette in luce la commistione tra storia dei fatti e storia dei modi di vita, storia delle mentalità. Fu una dimensione trascurata dagli storici del fascismo e dell’antifascismo, perché non vi era traccia scritta. Eppure il ruolo di questi raduni del dopolavoro fu tanto importante quanto le fronde dei Gruppi universitari fascisti (Guf).

5) Il treno popolare

Pochissimi italiani avevano già visto il mare. Per la maggior parte degli italiani viaggiare in treno rimase sempre un lusso, visto che il prezzo del biglietto fu sempre alto. Vi erano tre classi. Si parlava del treno Ballila o della Littorina. Nei treni popolari vi era un’unica terza classe, con uno sconto di 70% sulle tariffe normali. Non erano ammessi privilegi né distinzioni. Per illustrare quest’idea, Venè cita un passo dell galateo Nuove usanze per tutti scritto da Vanna Piccini nel ’38 : “L’era di Mussolini ha abbattuto tutte le barriere che precludevano agli occhi e al cuore la conoscenza dell’Italia agli Italiani ... Le signore quando abbiano deciso di partecipare a un viaggio popolare debbono considerarsi “uno della folla” e perciò ogni idea di grado o di condizione sociale si metterà da parte. Aboliti i convenzionalismi e le differenze di classe, resta il piacere di affiatarsi in una comune gaiezza.”

Il treno popolare non diventò mai un’abitudine e forse per questo continuò a rimanere nella memoria come un’avventura a metà tra il lecito e il permissivo. La novità del viaggio e il mutato orizzonte naturale valevano una vacanza per il popolo.

La vacanza durava 7 giorni per gli operai e 15 per gli impiegati : entrambi non avevano la possibilità materiale di lasciare la città durante le ferie. Invece di viaggiare, si andava a pescare o a farsi il bagno se c’era un fiume vicino casa, a giocare a bocce al dopolavoro. Per esempio, gli impiegati romani affittavano una cabina a Ostia per un mese, ma tornavano ogni sera a dormire a casa loro. La parola villeggiatura era usata dalla buona borghesia e poi discese fino alla piccola e media borghesia. I contadini e i paesani non si allontanavano dal loro luogo di lavoro. Appunto la parola villeggiatura significa andare in villa (aristocratica-borghese). Venè sottolinea l’ineguaglianza tra aristocratici e impiegati dell’entroterra, che continuarono a lungo a non sapere nuotare. Tutto ciò suscitò una specie di estraneità nel paese, per cui i villeggianti venivano chiamati “visi pallidi”. Eppure il partito permise nel ’36 a 772 000 bambini poveri di andare al mare o in montagna.

E) Sera

Possiamo interpretare la sera (che simboleggia il buio) come un momento di libertà. Il buio rappresenta sia il calar del sole, che il buio delle case (dell’ambiente chiusa e prottettiva) e il buio della sala del cinema. Dopo aver passato il pomeriggio all’aperto, a spasso, la sera gli italiani si rinchiudono : è il momento del ripiegamento su di sé, e perciò il momento in cui il fascimo forse non ha più l’ascendente.

1) I moschettieri dell'EIAR

La radio è l’arma principale del diffondersi della propaganda fascista : quando il fascismo diventò dittatura, dopo il ’25, le radio erano meno di 30 000 ; nel ‘27 arrivarono a 40 000. L’industria nazionale si sforzava di rendere la radio accessibile, però ci furono più automobili che radio. Finalmente nel ’31 ci furono più radio che automobili. C’erano pochi utenti ma molti riuscivano ad ascoltare i programmi. Venè cita l’esempio del segretario comunale che sistemava la radio sul tavolo della cucina davanti alla finestra che veniva spalancata, in modo che i passanti radunati in cortile potessero ascoltare i programmi. Così, grazie alla generosità di certi, la cultura popolare tramandata dalla radio fu accessibile a molti. La radio diventò popolare grazie alle trasmissioni di concerti, opere, operette e radiodrammi, la sera, dopo cena. La radio insegnava a ballare e a cantare. Dove il regime non riuscì, riuscirono i maestri di musica Cinico Angelini e Pippo Barzizza, i “Quattro moschettieri” di Nizza e Morbelli : riuscirono a radunare gli italiani e a divertirli. Infatti, l’Ente radiofonico, l’Eiar, intraprendeva la trasmissione in diretta delle cronache delle partite di calcio di Nicolò Carosio, ma l’Eiar era più ascoltato per le partite che per i discorsi del duce.

Il regime intervenne per ideare un apparecchio a basso prezzo da introdurre nel libero commercio : uscì nel ’37 a 430 lire e si chiamò Radiobalilla. Il regime esercitava un grande controllo sulle trasmissioni e aveva 10 minuti serali dopo il giornale radio, dalle 20,20 alle 20,30 che occupava con la rubrica di propaganda “Commenti ai fatti del giorno” dedicata alla politica internazionale (famosa per la sguaiataggine dei giornalisti). Il linguaggio dei giornalisti stonava in una radio tutto sommato beneducata.

Mentre la propaganda ufficiale di rado otteneva un auditorio spontaneo, la propaganda clandestina incuriosiva ; non per ragioni politiche ma per la sua stravaganza, perché regalava l’illusione di penetrare al di là del lecito, di imbarcarsi in un’avventura auditiva concessa soltanto a chi possiedeva la radio. Tra le 11 e la mezzanotte le voci proibite diventavano più chiare, favorite dal diradarsi dei programmi nazionali.

La fine della giornata, cioè la sera, è il simbolo della fine del regime, del suo tramonto : “in quell’ultimo scorcio dell’era fascista prima della guerra, una smania stregonesca aveva invasato decine di migliaia di italiani di media cultura : la chiarificazione dei misteri attraverso il pendolino da radioestesista.”

2) Dal focolare al bordello

Sempre in quest’idea del buio, quindi di ciò che non deve accadere sotto gli occhi di tutti e alla luce del giorno, Venè enumera le abitudini più nascoste (cioè meno tollerate dal regime) e perfino illecite degli italiani dell’epoca.

Sono quindi enumerati i luoghi di raduno popolare. Il più importante sarà sicuramente la cucina. In campagna come in città, è il luogo dove si finivano le serate. Le cucine della piccola borghesia diventarono laboratori notturni, sartorie, maglierie. Il capofamiglia impartiva lezioni di disegno e di matematica a prezzi molto convenienti. In campagna, le grandi cucine erano luogo di raduno. Ci si andava senza invito, come in piazza. Venè attraverso le testimonianze osserva il perdurare dell’ “andare a veglia” – una festa verbale – anche se quest’usanza fu snaturata dalla televisione. Le miserie della terra, i lutti, l’odio per il riverito padrone trovavano consolazione nell’effervescenza della descrizione, per cui non si capiva bene se fosse più importante il fatto raccontato o il gusto di raccontarlo. Nelle testimonianze contadine le veglie serali sono isole di felicità assoluta, popolate da figure estranee a qualsiasi epoca e perciò riducibili a tutte.

Venè si sofferma sull’usanza di andare al caffè o all’osteria del paese. Le serate trascorse lì erano malinconiche riunioni di diseredati che si ritrovavano lì per abitudine più che per divertimento. Si andava al caffè soprattutto per non restare a casa a consumare luce o legna nel focolare. In città, invece, nei giorni feriali la piccola borghesia usciva dopo cena soprattutto per trasferirsi in un’altra casa, ed era questo il suo modo di risparmiare.

Venè sottintende che il fascismo abbia avuto paura della notte, quasi la notte fosse troppo intima, interiore, riflessiva (la testimonianza di Emilio Radius appoggia quest’interpretazione). E infatti vi erano ronde della polizia, dei carabinieri, della milizia volontaria che pattugliavano il centro e la periferia. Soprattutto i gruppi di giovani (presupposti illeciti) erano sospettabili. Via via che dai locali dei signori si scendeva a quelli popolari, le ronde diventavano più frequenti e più insidiose. La gente cosiddetta normale preferiva divertirsi in gruppo, quindi i solitari erano per forza delinquenti.

L’altro luogo di rilievo della sera è senz’altro il bordello. I bordelli aprivano alle 10 del mattino e lavoravano fino all’una da Roma in giù, e fino a mezzanotte a Nord. Nel pomeriggio toccava ai signori, gerarchi, ufficiali e preti in borghese. Vi erano bordelli di prima o seconda classe a seconda della categoria sociale (signore o operaio). Dopo il lavoro e prima di cena ci andavano i garzoni, gli operai, gli impiegati di basso livello. Il bordello fu l’unica istituzione ereditata dallo stato liberale a non dover subire interventi che ne migliorassero l’efficienza e lo spirito disciplinare. In era fascista la maîtresse gestrice del casino fu l’unica figura professionale femminile insignita di un’atorità dirigenziale assoluta, imperiosa, superiore, all’interno della sua casa, a quella di qualsiasi maschio e perfino delle ronde di polizia. L’uomo entrando in un bordello si sentiva non più superiore, ma intimidito, stranito, persino ricattato. Benché tutti lo frequentassero, il bordello era considerato in modo dispregiativo come dimostrano i suoi numerosi sinonimi : casa di piacere, casa di tolleranza, casa di malaffare, casino. Eppure la gestrice del casino godeva della protezione dello Stato del quale, in un certo modo, era funzionaria e contribuente non da poco. Infatti non essere mai andati al casino era prova di perversione, perché andare al casino era un modo di rinunciare a avventure compromettenti, salvava dai guai, teneva unite le famiglie e custodiva più a lungo la verginità delle ragazze.

L’unità di misura per i prezzi in un bordello era la “marchetta” corrispondente a 5 minuti, il minimo del tempo e della spesa. Venè si sofferma a lungo sulla descrizione dettagliata del bordello. Il lettore scopre la sala comune, le stanze al piano di sopra, l’orinatorio per strada e altri dettagli lubrichi : “avveniva davanti al lavabo mentre la signorina (la prostituta) abbassava sulle ginocchia i calzoni e le mutande del cliente tuffandogli il pene nel catino schiumoso e strofinandolo per poi asciugarglielo con una salvietta di carta”. Si raccontano tutti i procedimenti che precedono l’atto sessuale : il lavarsi i denti e la bocca prima e dopo la prestazione, l’accompagnare il cliente per mano fino al letto una volta spogliata interamente. Lo stato fascista garantiva attraverso l’ufficio d’igiene la salute delle prostitute tesserate, che ogni due mesi dovevano sottoporsi alla Wasserman antisifilide.

3) Buio in sala, buio in città

Il cinema era discreditato : “americanate, un giocattolo per adulti sciocchi”. Malgrado molti sforzi par imbellire la sala, i proprietari di cinema durante il primo decennio dell’era fascista ebbero fama poco migliore di quella dei tenutari di bordello, a causa del buio della sala e non per la qualità dello spettacolo. La gente che ci andava aveva di sicuro fini sordidi : il palpeggio o il borseggio. Nei cinema in periferia dove si poteva tentare l’entrata a sbafo, ci andava la gente povera e popolare che non poteva permettersi di pagare l’ingresso. Per attirare la borghesia ci voleva il lusso ; le fu concesso. Il cinema sostituì il teatro quando diventò parlato e vi si ritrovarono elementi del teatro : attori che parlano e donne che vestono abiti da sera.

Il cinema entrò nella moda e nella mondanità della borghesia proprio negli anni in cui Mussolini lo scoprì come un’ “arma formidabile” per la formazione culturale e politica del popolo. Però non ci fu un gran vantaggio per la propaganda, perché la borghesia mondana, fascista o no, costituiva un uditorio poco rilevante dal punto di vista politico. Così il fascismo si contentò di controllare che i film piacessero senza disturbare i principi del fascismo.

L’arma formidabile si ridusse all’imposizione del cinegiornale Luce in coda dei film : un quarto d’ora di cronache esaltate sulle iniziative del regime, le inaugurazioni, le esercitazioni militari. Nelle campagne, arrivò il cinema ambulante : all’aperto, un camioncino diffondeva il film sulla piazza del mercato.

Venè parla di un’Italia in azzuro vista dall’alto per tradurre la paura del bombardamento. Descrive il buio innaturale delle prime notti di oscuramento. Vi è un parallelismo tra l’oscurarsi della giornata dell’Italiano e l’oscuramento dello scoppio della seconda guerra mondiale e dei bombardamenti, e in fine l’oscurarsi del regime. Si passa quindi dalla sera al buio della notte.

F) Epilogo : VERSO UN BRUSCO RISVEGLIO

A questa sera tramutata in notte succede il risveglio della coscienza, come ci si risveglia da un lungo sonno. Venè paragona la fine del regime ad una notte, come aveva paragonato l’inizio dell’antifascismo ad una giornata : la notte del 31 agosto al primo settembre 1939.

Le cucine dei ristoranti finirono sotto controllo. Gli italiani subito non si sentirono coinvolti nello scoppio della guerra, perché l’invasione nazista dell’Europa non destava grandi preoccupazioni. Fu solo nell’autunno del 1939 che la gente si rese conto che il regime cercò di interferire nella vita familiare con idee sugli stili di vita.

Saggezza e parsimonia furono sconvolte da una frenesia d’accumulo che trasformò cantine in depositi dove il cibo ammuffiva. Bisognava infatti aprire la porta di cucina a emissari del regime incaricati di sequestrare pentole di ferro e di rame per rifornire l’industria bellica. L’obbligo annullava il piacere del sacrificio : molte casalinghe nascosero padelle e colapasta. La distratta serenità all’improvviso veniva perseguitata come comportamento eversivo. Le sale da ballo vennero chiuse, fu perfino vietato di ballare a casa. Tutti gli italiani si sentivano rimproverati e puniti senza sapere perché. La piccola borghesia si rese conto che le voci da sempre intraudite e mai ascoltate sui traffici e i privilegi dei gerarchi avevano un fondo di verità. I fanatici fascisti riapparivano in pubblico nei negozi, nei caffè e dovunque provocavano. “Consapevole di essere stata la colonna dorsale del regime assai prima che glielo andassero a spiegare gli storici e i sociologi, la piccola borghesia accusava i sintomi di un progressivo malessere, di un inarrestahile indebolimento.

Venè conclude col riprovare un’idea comunemente accettata dagli storici del fascismo : “È assolutamente falso, appartiene alla polemica volgare, che la piccola borghesia abbia voltato repentinamente gabbana il 25 luglio 1943 quando, a guerra praticamente perduta, Mussolini fu destituito dal Gran Consiglio del fascismo e arrestato dal re. La “non classe” piccoloborghese accettò quell’evento storico [...] come un’operazione chirurgica compiuta sul suo proprio essere per la propria salvezza. E questo spiega perché nella mentalità piccoloborghese, contro il parere di tanti storici, l’era fascista non rapprensenti una successione inevitabile di fatti imputabili a un’ideologia e a una forma di governo dispotico, bensì una scansione di periodi, di segmenti temporali non necessariamente connessi.” Non per caso questo libro è costituito da una giustapposizione di periodi (quelli della giornata). Venè tramite quest’organizzazione traduce la percezione dell’era fascista dagli italiani stessi.

Venè parla di “non classe”, perché considera la piccola borghesia un ceto aperto sia verso l’alto sia verso il basso, e perché la considera distinguibile dalle classi per la sua capacità di ammorbidire e rifondere, riformandole, le ideologie tradizionali.

Insomma Gian Franco Venè ha osservato fino in fondo il quotidiano degli italiani e ha messo in luce l’impronta dell’ideologia fascista nel plasmare l’identità degli italiani, sia tramite la disciplina e le disuguaglianze a scuola, sia tramite i consigli di salute igienica e culinari, e le regole della buona creanza.

Tuttavia Venè insiste sul fatto che, malgrado questi tentativi più o meno riusciti d’intrusione nell’intimità degli italiani, il fascismo si è indebolito man mano che si avvicinava la guerra. Gian Franco Venè minimalizza infatti l’importanza della radio e del cinema nella diffusione della propaganda fascista e insiste sul potere unificante del sistema del dopolavoro che si scartò dall’impresa fascista. Possiamo quindi interpretare questo libro come un tentativo di mettere in rilievo l’importanza della vita quotidiana, cioè della libertà degli italiani e della loro indipendenza rispetto al fascismo.

 

Pour citer cette ressource :

Bernadette Tinti, Gian Franco Venè, Mille lire al mese, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juin 2012. Consulté le 21/12/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/bibliotheque/gian-franco-vene-mille-lire-al-mese