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Un granellino di sabbia io l'ho dato

Publié par Damien Prévost le 16/01/2008

Activer le mode zen

Annita Malavasi è nata in provincia di Reggio Emilia nel 1921 in una famiglia contadina di cultura antifascista. Entra in contatto con l'organizzazione clandestina del PCI subito dopo l'8 settembre 1943 e partecipa alla costruzione dei Gruppi di difesa della donna; svolge dapprima il ruolo di staffetta poi entra a far parte della Brigata Garibaldi con il grado di sergente maggiore. Nel dopoguerra diviene funzionaria della Camera del Lavoro, ricoprendo incarichi dirigenziali nelle categorie sindacali.

Io interpreto la realtà attuale come un'evoluzione difficile dove la parte che dovrebbe avere un certo peso, cioè la sinistra, non ha saputo dare una prospettiva e fiducia alla gente; ma io la interpreto come un momento transitorio perchè diversamente... ci sarebbe da spararsi. Per ciò che concerne me personalmente, è l'arco dell'esistenza: a volte ti volti indietro per guardare avanti e se mi volto indietro dico che, in definitiva un granellino di sabbia io l'ho dato. [...]
Se mi volto indietro, nel bene e nel male, la responsabilità è mia e nessuno mi ha imposto niente, cioè ha pesato la realtà, però le scelte le ho fatte io e questo mi dà una certa serenità.
Credo che sia importante, a torto o ragione non lo so, però io ne sono convinta.

Tiré de Annita Malavasi "Laila", Fascismo, resistenza, emancipazione del lavoro. Storia di una donna nel 900. La fatica della libertà, CGIL - SPI, Coordinamento donne SPI-CGIL Reggio Emilia, in collaborazione con Centro studi R. 60, Bologna 2007: 75, 45-64.

Avec l'aimable autorisation du Coordinamento donne SPI-CGIL Reggio Emilia.

Introduzione

Così conclude, oggi, il suo racconto di vita Laila che ben rappresenta simbolicamente la storia di vita di tante altre ragazze nate dalla Resistenza: "si tratta della conquista di un diritto di piena cittadinanza ottenuto da molte giovani donne attraverso la partecipazione sul campo durante la Resistenza e la guerra di Liberazione. La presenza delle donne nell'organizzazione militare, così come nell'assistenza alle popolazioni, nelle azioni di comunicazione e di rete sui territori è divenuta occasione di scelta politica.

La storia di Annita Malavasi è quella di una donna di carattere, tenace e volitiva; storia di emancipazione. A partire dal mondo contadino, in cui il ruolo previsto per i figli maschi, soprattutto a livello di istruzione, è privilegiato rispetto a quello delle femmine, fino all'incontro con la Politica che trasforma la vita. Venire a conoscenza dei perseguitati politici, dell'attività clandestina e antifascista, soprattutto l'esperienza resistenziale le cambiano l'idea di sé e dell'inevitabilità di un destino dato.

Annita mette in discussione le tradizioni familiari, ruoli e gerarchie assegnate alle donne in una comunità sociale che era pure, per storia e tradizione, impregnata di socialismo e di comunismo, e con le sue scelte, anche affettive, evidenzia il significato della differenza femminile.

Lei, come altre donne resistenti, testimonia bene quel passaggio generazionale che cerca di affermare l'autodeterminazione nelle scelte essenziali della propria vita, nel matrimonio, nella maternità, nel lavoro.

L'impegno continua nel dopoguerra, nella ricostruzione democratica dell'Italia, non dimenticando l'esperienza precedente, e Laila è attiva come Consigliere comunale a Reggio Emilia e funzionaria / dirigente sindacale. Contribuisce a porre un forte accento sulla divisione sessuale del lavoro, sulle relative discriminazioni di genere, sull'assenza di una legislazione adeguata e sulla necessità di costruire apposite vertenze sindacali. Ancora testimone-protagonista della società italiana nei decenni successivi si intensifica in lei la consapevolezza che , insieme al riconoscimento della parità salariale per le lavoratrici, va esplicitato e riconosciuto un enorme "lavoro di cura", prestato gratuitamente dalle donne e non adeguatamente valorizzato.

Facendo un bilancio della propria vita, non emerge nessun rimpianto o pentimento; Annita Malavasi incarna bene il senso di responsabilità nelle scelte compiute, nella militanza di un'esistenza." (Maria Nella Casali, ibidem, 116)

La partigiana Laila

Laila è stato il nome di battaglia. Quando abbiamo aderito ufficialmente al movimento partigiano, che siamo entrati nell'organizzazione, ognuno di noi doveva avere un nome fittizio, cioè un nome diverso per impedire che tu venissi riconosciuta, scoperta. E ognuno di noi ha preso il nome che ha ritenuto opportuno: allora io avevo letto un libro dove c'era una Laila che era una ribelle indiana e la cosa mi colpì e mi presi il nome di Laila. I nomi russi erano molto di moda, il mio mi pare invece che sia arabo, una cosa del genere; siccome è un nome molto breve e facile da pronunciare, io me lo sono sempre tenuto. Nessuno sapeva che mi chiamo Annita Malavasi, anche quando andavo a far comizi oppure sulle pubblicazioni, ci mettevano sempre Laila malavasi. poi, smettendo di lavorare, sono ritornata al mio nome, anche perché in famiglia mi hanno sempre chiamato Annita.

La Resistenza

Sono entrata nella Resistenza l'otto settembre.

La mia maturità politica mi viene da questa via, dove ho ricevuto tante spiegazioni, per cui al momento di prendere una decisione non ho nemmeno riflettuto: la decisione è stata spontanea, non solo per le cose che avevo capito relativamente al fascismo. Sono sempre stata avversa al fascismo proprio per la brutalità, non perché avessi una maturità politica; ma soprattutto quello che mi ha spinto a prendere la decisione che ho preso, e che ho anche pagato, è stata una profonda umanità: il bisogno di aiutare gli altri, impedire che della gente andasse in campo di concentramento, soffrisse. Parallelamente, abbiamo cominciato ad avere l'orientamento da parte del Partito comunista che diceva: mentre andare dentro la Gil con due vestiti - là ne levavamo uno e Io davamo ai ragazzi perché uscissero - cercate di portar fuori anche le armi, i medicinali. Si portava fuori di tutto e loro poi racimolavano e avevano i loro posti dove mettere queste cose. Io avevo cominciato in questo modo; chi mi ha dato il maggiore orientamento è stato il mio fratello più vecchio. Anche il più piccolo, poco dopo l'otto settembre, ha partecipato e c'era ancora il mio povero zio, che, poveretto, si muoveva male. Dentro alla ex Gil ci andavano anche dei borghesi a lavorare, e siccome noi di via Dalmazia eravamo vicini, eravamo diventati tutti dei dipendenti della Gil! Si andava là, donne, uomini, tutti quelli che potevano andare, e cercavano di tirar fuori questi soldati per impedire che venissero portati in campo di concentramento. I nostri parenti che erano stati in campo di concentramento ci raccontavano le brutalità subite nella prima guerra mondiale, dicevano: "Vanno a morir di fame! E poi con questi che sono delle bestie, vol vedete che cosa gli può accadere!".

Si andava non solo all'ex Gil, ma anche alle due caserme.

Io avevo fatto conoscenza con parecchi ragazzi dell'aviazione che venivano nel bar e si operava anche in questa direzione. Mio fratello, il più giovane, dice: "Qui, io non ci sto". Si erano raggruppati per attraversare il fronte e andare a combattere con gli americani, sono partite in tre. L'altro invece è rimasto a casa, ma era già legato ai gruppi antifascisti, allora di tanto in tanto diceva: "Dai, vieni con me che devo andare a prendere della roba". Io ho cominciato a lavorare nella Resistenza con mio fratello, mi ricordo il primo trasporto d'armi: ho fatto tutta la via Emilia con una borsa con delle bombe sips e quelle piccine, balilla, dentro alle scarole di lampadine. Io attraversai tutta la via Emilia con la borsa e mi veniva una paura delle bombe che non dico, perché secondo me se picchiavano contro la bicicletta scoppiavano! Una paura stupida; però, di fatto non ho rinunciato!

Dopo, c'era da distribuire anche i volantini. Poi, mio fratello nella primavera del '44 è andato in montagna; lui è scappato perché, siccome lavorava dentro le scuole e partecipava alla pubblicazione di un giornalino, aveva sentito che c'era pericolo che lo prendessero.

Sono rimasta a casa sola. Allora Torelli, che sapeva che ero molto intraprendente, mi ha fatto conoscere Paolo Davoli, uno dei martiri che abbiamo a Reggio. È venuto a darci qualche spiegazione, a dire che non potevamo lavorare individualmente e disorganizzati, ma dovevamo lavorare organizzati.

I Gruppi di difesa della donna, il lavoro di staffetta

Con Maria Montanari e altre amiche fnodai il primo gruppo di difesa delle donne della mia via. Una ragazza del Bloch ci portava la stampa e l'informazione, cioè volantini e cose del genere. Poi abbiamo fatto anche due riunioni, dove veniva un dirigente di questi antifascisti, che non so se era comunista, era del Comitato di liberazione, e ci parlava del ruolo che le donne dovevano conquistare nella futura società. Ci dicevano di raccogliere tutto ciò che poteva essere utile ai partigiani. Noi ci davamo da fare: soprattutto medicine, indumenti, munizioni, cose del genere. Noi le raccoglievamo, poi loro le venivano a prendere. In quel periodo, prima ancora che mio fratello andasse in montagna, ho conosciuto il fratello di Gombia, che veniva a prendere la munizione che noi racimolavamo. Mi ricordo che papà ci aveva insegnato a mettere le pallottole dentro le bottiglie che lui tappava; siccome lui lavorava il vino, in cantina avevamo delle pile di bottiglie. Ci aveva fatto un posto dove noi infilavamo le bottiglie piene di pallottole e quando questo veniva, sembrava che comprasse tre o quattro bottiglie di vino; se ne andava con le bottiglie che invece di vino erano piene di pallottole. L'ingegno, quando sei in una certa situazione, si acuisce.

Io poi andavo in quel periodo una volta o due la settimana a Cerezzola, perché c'era la mamma del mio fidanzato e noi due eravamo molto legate. Avendo un ristorante, avevo più possibilità di ottenere generi alimentari e riuscivo ad allungarle del pane, dell'olio, dello zucchero... le cose che erano indispensabili e non si trovavano. Suo genero mi presenta un partigiano, Sergio Beretti, che era commissario del distaccamento Don Pasquino del parmigiano che mi dice: "Tu hai la fortuna di venire su e giù e siccome lo sanno già, perché i fascisti sanno tutto, che ti fermi qui perché hai la mamma del tuo fidanzato, sei più favorita di altri e ti seguiranno anche meno... noi abbiamo bisogno che ci porti su della roba. Bada che tra l'altro ci sono molte armi da portare su e giù". E ho cominciato a fare la staffetta pianura - montagna.

Ho cominciato che c'eran due fratelli che avevano un negozio di macelleria a Reggio. Loro erano partigiani del Don Pasquino, un loro fratello era nella Milizia e procurava delle armi che mi consegnavano e io portavo su. Facevo la strada su e giù, se c'era il coprifuoco verso le sei, chiudevo il negozio verso le cinque e poi partivo su fino a Currada, tutto in bicicletta, e portavo a questo partigiano le armi. Le armi, per passare il posto di blocco di Ciano, me le fasciavo nel petto. Una rivoltella si nascondeva bene, ma una volta ne avevo cinque o sei da portare su e con me era venuta una ragazzina di Rivalta, giovanissima, aveva tredici o quattordici anni. Me l'aveva mandata sue padre, che era un partigiano, perché mi aiutasse. Andiamo, arriviamo su e, siccome passavo due tre volte alla settimana, sapevano che andavo dalla mia futura suocera. "Allora, c'è anche lui?"- mi dicevano, facevano le batture spiritose: "Eh, stasera chassa cosa fai..." - e io: "Ma, oggi ho anche un po' male allo stomaco perché, maledetto anche il gelato, sono golosa, ma vedete cosa succede...". Mentre dico questo, è saltato il bottone del reggiseno, sono vestita di seta e la rivoltella scivola sulla pancia e io: "Che mal di stomaco!"- e intanto ero diventata pallida per la paura... "Ma dio, che male! "e loro : "Dai, vieni dentro che abbiamo il medico! Dai, noi le belle ragazze le curiamo!" - "Sì, ma io ho il moroso geloso, voi non lo sapete! Vado a casa dalla nonna..." - "Dai, ti accompagnamo!" - "No, vedrete che mi arrangio, vi ringrazio, non vi preoccupate, mi arrangio"- ciapa al manubrio dla bicicléta e via!((Afferra il manubrio della bicicletta e via!)). Quando sono arrivata un po' avanti ho respirato, e la ragazza fa: "Adesso ti senti bene?" - "Ma sa vot c'am séinta béin! G'ho la rivoltéla insema a l'ombreghel, ostia!".((Ma come vuoi che mi senta bene! Ho una rivoltella sull'ombelico!))

In giugno c'è stato un grosso rastrellamento e mio fratello è venuto a casa, è rimasto pochi giorni, poi è tomato su in montagna. Nel periodo che era a casa, siccome i Gap e i Sap dovevano fare un'azione e avevano bisogno di una rivoltella, lui mi dice: "Vai su nel tal posto a prendere la rivoltella".

Io parto con mia cugina Sandra, e andiamo su. Prima di arrivare alla casa Roma incontro un uomo che mi ferma e mi chiede i documenti e vuole sapere dove andiamo e perché; io gli presento i documenti e dico: "Mah, io vado a prendere delle uova".

Ci voleva portare in carcere e noi chiediamo cosa rappresenta. Allora, lui ha fatto vedere il cartellino da partigiano, al ché ho risposto che dovevo prendere un'arma alla casa Roma che serviva ai Gap a Reggio. E allora dice: "Vi ci porto io alla casa Roma". Però quel fesso ha preso il mio nome e l'ha scritto assieme al numero della carta d'identità su un notes!

Quando arrivo alla casa Roma, l'arma non c'è, ed è stata la nostra fortuna. Lui, dopo una settimana Io hanno arrestato e gli hanno trovato il nostro nome in tasca, così che io e mia cugina siamo state arrestate, siamo state interrogate per una giornata intiera: sempre a negare. Per quattro o cinque ore abbiamo spiegato che eravamo andate a prendere delle uova, potevano chiederlo alle contadine che ce le avevano vendute, perché noi siamo venute giù con le uova. Il fatto che avevo il ristorante mi giustificava, ho detto: "Mi potete condannare per il mercato nero semmai, però per il trasporto di armi no". Ci mettono a confronto con il partigiano che ci aveva formate in montagna, il quale conforma la tesi della polizia. Allora io sono andata in bestia e ho detto: "Scusami veh, sei un delinquente perché non è vero che io sia venuta su a prender delle armi, tu m'hai detto che siccome ero lì tu aveva bisogno che io portassi giù un'arma! - dico - o povera meschinella cosa faccio di fronte a un uomo armato? Io ho dovuto accettare quelle che tu mi hai detto, e se vuoi saperlo, quando ho visto che l'arma non c'era, ero felice corne una pasqua. L'arma non l'ho portata giù! ".

Quando ti trovi in difficoltà, puni essere la cretina più grossa del mondo, ma riesci, Io spirito di conservazione ti fa tirar fuori le cose; se qualcheduno mi avesse detto che cosa avrei fatto, che cosa avrei pensato in quel momento, non te lo so dire, però in quel momento l'ho presa così. C'è il verbale dove noi abbiamo firmato e dove diciamo questo cose. Certo, io ho dovuto dire che l'arma doveva andare a mio fratello perché quell'uomo aveva detto cosi, però mio fratello era già in montagna e si salvava. Allora, tenendo conto del fatto che abbiamo firmato il verbale, hanno detto: "Andate a casa però non muovetevi". Io ho detto: "Ma dio buono, io ho paura dei bombardamenti, voglio andare da mia cugina!", che era segretaria delle donne fasciste di San Bartolomeo. Dicono: "Sì, allora lì ci può andare". L'altra mia cugina che era lì con me doveva andare a Roncolo da sua madre. Anche per lei dicono: "Sì, va bene, però domani mattina ricordatevi che dovete essere a Reggio". Noi, presa la bicicletta, siamo andate a casa. Mentre sono a casa arriva Mafaldo Chiessi che mi dice: "Laila - era già il mio nome di battaglia - devi andar via! Cosa credi, che ti lascino a casa? Domani vengono e ti fanno cantare, vai via subito subito!". Mio padre, quando Mafaldo gli ha detto che dovevo scappare, ha risposto: "Io sono d'accordo, ho quattro figli; uno è da un anno che non ne so niente, l'altro, è da tre o quattro mesi che non ne so niente. Quando sei nata tu i miei fratelli mi prendevano in giro perché dicevano che era una donna, io dicevo che ho fatto cinque anni di guerra, almeno questa la guerra non la fa! Invece adesso anche tu devi andare ... Però, ricordati: io penso che tua abbia fatto la scelta giusta perché a casa si muore corne topi, bombardamenti, rastrellamenti... almeno tu hai la possibilità di difenderti! Poi ricordati che tue padre ha molta stima di te!".

Mia madre mi ha detto solo "Fa a mot!", significava che nessuno ti doveva toccare, il 'fare a modo' delle nostre madri e delle nostre nonne voleva dire quello. Abbiamo scritto una lettera dove chiediamo perdono ai nostri genitori e diciamo che andiamo a cercare mio fratello perché si presenti, perché noi non abbiamo colpe: balle di questo genere, e poi siamo scappate. Siamo scappate su in montagna. Però anche lì l'emozione! Tu per tutta la vita sei stata nella famiglia, hai vissuto la vita della famiglia, la sua protezione. Mi ricordo sempre che avevo messo la mia bicicletta sotto il letto della perpetua del prete di Roncolo, e aspettavo mia cugina che era andata a salutare la mamma. Mentre ero sdraiata sotto un pino, vicino alla chiesa, lì in mezzo all'erba, mi dicevo: "Ma che cosa troverò mai di là?". Fino ad allora ero arrivata fino a Currada, già facevo la staffetta tra Reggio e Currada, portavo armi, e ho avuto anche tante altre avventure: portavo armi da Reggio al distaccamento Don Pasquino. A Currada avevo già conosciuto quelli del distaccamento Rosselli e sapevo dove dovevo andare, però la mia conoscenza non andava oltre Canossa. Poi siamo andate su alla casa Noce, e abbiamo dormito dalla famiglia Friggeri.

Pinetti, che era un compagno partigiano, ci ha chiamato al mattino, alle tre e mezza; siamo scese nella Modolena e da lì ci siamo dirette a Cavandola, dove c'era il distaccamento Rosselli. Eravamo in mezzo a questo fiumiciattolo che saltavamo da una pietra all'altra: c'è un contadino che fa: "Ma in do' ndèv vuetri dò?"((Dove andate voi due?)). Dico: "Andiamo su a prendere delle uova e delle galline", e lui: "Ma m'sa che v'sidi persi!". Cioè, mi sembra che abbiate perso la strada; chissà che faccia che avevamo! Allora, ci ha insegnato la strada. Prima d'arrivar su c'è arrivata incontro una pattuglia partigiana, c'è venuta a prelevare. Il contadino già lavorava per i partigiani e li ha avvertiti. E siamo arrivate al distaccamento Rosselli: lì comincia l'avventura partigiana.

In montagna

Sono stata su nove mesi, sono andata su in agosto e sono venuta giù il venticinque aprile.

Quando sono tornata giù ero una persona diversa. Arrivi e il comandante Pasquino ci interroga e dice: "Da questo momento tu sei un partigiano, perciò qui non esiste differenza tra uomo e donna, tu mangi con noi, dormi con noi". A casa tu sei un oggetto di interesse da parte dell'uomo e, corne dire, alle volte ti trovavi anche in difficoltà. Lì vai a dormire sulla paglia. Nel distaccamento Rosselli il più vecchio avrà avuto sì e no venticinque anni, erano tutti ragazzi giovani. Io mi ricordo che quella sera dormii tra un carabiniere sardo e un altro ragazzo partigiano, ma abbiam chiacchierato tutta notte: ognuno raccontava le proprie emozioni, la propria vita; ma che ci sia saltato in mente, non so, di allungare la mano! Dormivamo in tre o quattro sotto un panno, perciò non è che c'erano dei grandi spazi. È lì che ti rendi conto che è una realtà diversa, cioè ti rendi conto di trovarti in un mondo diverso, in un mondo dove forse aspiravi ad arrivare, dove ti considerano un essere umano, ti rispettano, non ti mettono in difficoltà. Questa è la prima emozione. Di giorno ti insegnano ad adoperare le armi, perché io ero combattente. Mia cugina no, lei dopo è andata a scrivere a macchina, è andata impiegata. Lei aveva anche un altro carattere.

Abbiamo imparato a conoscere le armi: smontarle, montarle, pulirle, adoperarle, sparare. Questa è la prima lezione che ti fanno, poi la notte, di guardia. Sempre a Cavandola, ci avevano messo a dormire su dei letti, per toglierci dal disagio di dormire per terra, che era difficile per chi aveva sempre dormito in un letto. A un certo momento però abbiamo dovuto scappare perché era pieno di cimici, non si riusciva a dormire. Quando il distaccamento si è spostato verso Casina, sul monte Barazzone, lì abbiamo dormito per terra. Una notte, ho fatto la guardia per la prima volta. Mi ricordo che con me c'era il partigiano Saetta, facevo: "Oddio, Saetta, senti che c'è un rumore!". La prima volta per me anche le foglie erano tedeschi o fascisti. Ad un determinato momento s'è tanto stancato che m'ha detto: "Prenditi su e vai a letto perché la guardia la faccio da solo, se no te mi fai crepare!".

Avevano bisogno soprattutto dei collegamenti, perciò lì azioni militari non me ne hanno fatte fare, se non quando c'era da andare ad arrestare qualcheduno, a parlare con delle donne, avere delle informazioni. Dal Barazzone venivo giù fino a Currada, dove c'era il punto di incontro con il distaccamento del parmigiano, e ci scambiavamo le disposizioni e il materiale. Questo lavoro l'ho fatto fino ai primi di ottobre, poi venne l'ordine di togliere le donne dei distaccamenti.

Chi soprattutto voleva questo erano i cattolici, le beghine, sempre per la famosa moralità e balle di questo genere. Allora ci spostarono e mi mandarono alla Volante, che aveva aggregato il carcere. Il compito non era tanto quello di badare ai prigionieri, ma di mantenere i collegamenti, di fare le indagini: un compito piuttosto di polizia.

Tra montagne e colline

In quel periodo ci fu il grosso rastrellamento tedesco dell'ottobre. Ci siamo sganciati verso il parmigiano e abbiamo attraversato l'Enza.

Da pochi giorni avevo lasciato il distaccamento Rosselli, tutti questi ragazzi erano miei amici e conoscevo un po' vita e miracoli dei loto problemi. L'Enza era in piena e i tedeschi ci sparavano addosso. Noi siamo riusciti ad attraversarlo discretamente; il distaccamento Rosselli ha perso quattro partigiani, annegati. Per attraversare, mettevi davanti l'asino o il cavallo e facevi la catena. A un bel momento la catena si è rotta e quattro partigiani sono stati trascinati dalla corrente e li hanno trovati annegati. Poi abbiamo fatto tutto il parmigiano e arriviamo fino al Lagastrello.

Sono stata alla Volante in ottobre e novembre. Il ventiquattro di novembre abbiamo avuto un grosso rastrellamento con situazioni drammatiche. Abbiamo perso molti compagne nella battaglia del monte Caio. Per ordine del comando di brigata, alla vigilia del rastrellamento io e Marusca siamo andate a Castelnovo Monti, a prendere dei documenti che dovevano arrivare da Reggio. Sapevamo che ci sarebbe stato il rastrellamento, perché avevamo le nostre spie dentro le organizzazioni avversarie.

L'appuntamento era per il mattino, ma siccome ritardavano ad arrivare, siamo ripartite al pomeriggio. Siamo arrivare a Cereggio verso l'una dopo mezzanotte e già i tedeschi erano a Ramiseto che sparavano. Ci siamo aggregate ad una parte del comando del battaglione russo e abbiamo attraversato l'Enza per andare nel parmigiano. Ricordo che a Temporia incontrammo due compagne, Kira e Barbara, che aveva la febbre alta, e dice: "Ma dio, come faccio adesso a attraversare l'Enza?". Me la sono caricata sulle spalle e ho attraversato l'Enza. Dovevi fare quello che potevi fare.

Di là, per cinque giorni abbiamo girato, la roba ti si asciugava addosso e abbiamo mantenuto il collegamento con le formazioni che operavano. Pol abbiamo raggiunto il Comando di brigata, anche perché io dovevo ritornare alla sede. Arrivata su a Miscoso, la mia formazione si era spostata in Toscana, al Castello di Comano. Al Comando di brigata ero arrivata che ero sporca, lurida, non avevo niente da cambiarmi; una donna m'ha dato un vestito di seta. Eravamo in novembre, allora mi sono levata tutto quello che avevo, e senza biancheria mi sono messa quel vestito e un impermeabile fatto in un telo di tenda, in attesa che lei, poveretta, mi potesse lavare il mio vestito e la biancheria. Al mattino, il vice comandante di brigata dice: "Attraversate e andate nel parmigiano, a vedere come stanno le cose". Arriviamo in fondo all'Enza e ci sono due donne che arrivano di corsa dai paesini del parmigiano, piangendo, dicono: "Sono venuti a Trefiumi, Rimagna, Rigoso, hanno preso tutti gli uomini, li hanno messe davanti e stanno venendo ad attaccare Succiso!". Succiso è vicino a Miscoso. C'è una salita irta dall'Enza per andare su fino al paese. Di corsa siamo arrivati su che già sparavano.

Siccome a Miscoso c'erano parecchi partigiani che erano sbandati, disarmati, perché provenivano dalla battaglia del monte Caio, il vice comandante dice: "Bisogna portarli in Toscana. Chi ci va?". Ero l'unica in grado di poter fare un viaggio del genere. Sono partita: eravamo una cinquantina di partigiani, la maggior parte senz'armi. Comandava un ufficiale dei bersaglieri che era con noi, Gian, che mi dice: "Dài, Laila, vieni tu con me". Tra di noi c'erano diversi partigiani che erano stati in guerra e c'era una certa ostilità verso gli ufficiali; invece con me Gian si trovava molto bene perché per me era indifferente che fosse ufficiale. Era una persona molto intelligente con la quale si lavorava bene. Attraversiamo il Lagastrello, a Paduli c'era una diga e c'era una nebbia fitta e spessa, e la staffetta doveva fare da battistrada, andare a vedere se c'erano fascisti o tedeschi, poi tornare indietro e ripartire con la formazione. Io ero vestita sempre con quella veste di seta e quell'impermeabile, senza biancheria. Arrivo di là, c'era un ritrovo dell'Emiliana e chiedo informazioni; m'han detto: "Sono passati, ma ora non c'è più nessuno". Torno indietro a chiamare i ragazzi, tenendomi i vestiti perché s'era levato il vento. Mi ricordo sempre che quando sono arrivata Gian mi ha abbracciato e dice: "Oddio, ma è mai possibile che una donna debba fare una vita del genere!".

Tutto il giorno è piovuto e siamo arrivati a Castello di Comano con un'acqua che dio la mandava. L'acqua ti scendeva dalla testa, scivolava sulla pelle ed entrava nelle scarpe; tra l'altro il vestito di seta era rosso, quando sono arrivata là sembravo una pellerossa. Le ragazze, per aiutarmi, m'hanno messo dentro a un mastello d'acqua calda, per scaldarmi un po' perché ero diventata un ghiacciolo, perché a novembre è freddo! Io, quella strada l'ho fatta tre volte, perché tu andavi avanti poi tornavi indietro, poi andavi avanti con loro. C'era la nebbia e Gian mi aveva insegnato a riconoscere il nord tastando le piante. Dalle otto del mattino siamo arrivati a Castello di Comano all'una e mezza dopo mezzanotte, i chilometri che abbiamo fatto non lo so dire.

Esperienza partigiana e vicende "private"

Quando ho deciso di non sposarmi non fu un colpo di testa. Quando sono venuta a Reggio avevo dei corteggiatori, e mi piaceva un ragazzo che abitava vicino a me. Era un operaio, vice capo reparto alle Reggiane, era un bel ragazzo e con lui mi trovavo bene.

Io avevo i miei obiettivi: formarmi una famiglia con quest'uomo che io stimavo, gli volevo veramente bene. Quando io mi sono fidanzata con lui i miei non volevano, han detto: "Ma tu vai a sposare un operaio che dopo as toca mantgnìr tò marì s'al rmagn disocupè!"((Dobbiamo mantenere tuo marito se resta disoccupato!)). Allora la mentalità del contadino era quella: non c'è la terra, non c'è niente.

Io ho fatto l'amore di nascosto per un anno con lui, poi nel '39 va a militare, richiamato. Mi scriveva sempre e i miei lo avevano accettato. Intervenne anche mia zia che era stata emigrata in Francia ed era molto più evoluta: noi cugine correvamo da lei a chiedere consiglio, quando ne avevamo bisogno.

A un certo punto il mio fidanzato doveva essere mandate in Russia. Mio padre, siccome era un gran cacciatore, conosceva un generale col quale andava a caccia - gli curava i cani - e io ne approfittai per parlare con questo generale e l'ha fatto venire a casa corne operaio indispensabile per l'azienda, perché producevano gli aeroplani. Poi c'è stato il bombardamento delle Reggiane, e lui è finito a Varese.

Quando lui è venuto a casa, io mi sono trovata di fronte une sconosciuto: il processo di crescita tra noi era stato completamente diverso. Lui si è trovato non più con una ragazzina, ma con una donna che già pensava a quella che doveva essere la vita. Mi ricordo che una giornata io bisticciai con mia madre, perché lavoravo - avevamo un ristorante e bar, mia mamma stava in cucina e io servivo al bar - ero impegnata dalla mattina a mezzanotte, e mia madre mi dice: "Veh, pulisci le scarpe a tuo fratello!" - "Cosa? Perché lui è studente?! La spazzola la sa usare anche lui! Mi sono alzata stamattina alla cinque e adesso che ho un momento di riposo pulisco le scarpe di mio fratello!? No!". E mia madre, arrabbiatissima: "Ma come ti permetti!? La donna deve fare..." nel mentre viene il mio fidanzato e gli ho detto: "Quando mi sposerò e avrò dei figli, gli insegnerì ad aver più rispetto reciproco nella famiglia, perché la donna non deve essere considerata una serva!" - lui m'ha detto: "Quando noi ci sposiamo e avremo dei figli, tu i figli li educhi come dico io". E così cominciano a sorgere gli attriti... Un giorno, quando ero a Currada e facevo la staffetta per il Rosselli, arriva il mio fidanzato e mi dice: "Cosa fai qui? Adesso vieni a casa subito!" - "Perdinci, vengo a casa subito!? Non sai che sono ricercata per un trasporto d'armi?" - "Non mi interessa: tu vieni! Io sono a Verbania, tu vieni là, ci sposiamo..." - "No, no, se mi cercano e mi sposo fanno presto a sapere che sono là! E poi, per quale ragione devo venir via?" - "Perché se resti qui diventi una donna indegna di educare i miel figli". Io, quando ho sentito questo, mi è crollato il mondo! Già avevo delle perplessità a sposarmi perché lui era molto geloso...

Già con sua madre avevo parlato della sua gelosia. La mamma era una donna semplicissima, era semianalfabeta. Però mi ha detto: "Guarda di rifletterci, veh! prima di sposare mio figlio perché se fa fare a te la vita che suo padre ha fatto fare a me è una vita che non è degna da essere vissuta". La madre era una donna intelligente.

Ma per me non era solo il fattore della gelosia. Quando lui si era trovato in pericolo, io avevo fatto il diavolo a quattro per impedirgli di andare in Russia. Adesso io mi trovavo in questa situazione, avevo fatto quella scelta e lui mi dice: "Tu, qui non ci puoi stare, tu vieni a casa!" anche se sapeva che mi potevano uccidere. Io ho avuto la sensazione che se invece di stare li mi avessero fucilato, lui sarebbe stato più contento! Allora ho detto: " No, tu adesso te ne vai a casa, fai quel che vuoi, io ti lascio libero, non considerarmi più la tua fidanzata, io vado su e tu vai giù" - "Allora vengo in montagna anch'io!" - "No. Tu, vuoi venire in montagna? E' una scelta tua, non perché io sono in montagna. Poi quassù io ho mio fratello, io sono in un distaccamento, lui è in un altro, perché due persone legate da rapporti affettivi o di parentela sono un pericolo per tutta la formazione, anche marito e moglie li dividono, perciò se vieni su per stare con me, ricordati che le cosa stanno così". Infatti, su non ci è venuto.

Io sono andata su al distaccamento come un cane bastonato perché dicevo: "E adesso che cosa faccio?". Allora una scelta del genere significava che, forse, non ti saresti mai sposata... Arrivo su al distaccamento, i ragazzi sapevano che dovevo incontrare il mio moroso: "Allora, cos'è successo?". Mi hanno visto con una faccia brutta e io ho spiegato cos'era successo.

Il distaccamento s'è diviso, perché avevamo l'abitudine di discutere tutto. Quando m'hanno visto in questo stato d'animo, ce n'era una parte che diceva: "Hai ragione, mandalo al diavolo, che te ne fai di un uomo del genere?". E un'altra invece che diceva: "No, tu devi riflettere perché è il tipo di cultura che abbiamo, la mentalità che abbiamo".

Ci sono state delle discussioni grossissime, i problemi non erano più individuali, diventavano problemi collettivi. Ad esempio, c'era un ragazzo che aveva diciott'anni, aveva la fidanzata di sedici anni in stato interessante; a un determinato momento dice: "Bah, di' che s'arrangi". Tutto il distaccamento ha preso posizione, dicendo: "No, no, ma perché, poverina, che è a casa che ti aspetta?". Anche le questioni personali assumevano questo carattere e i problemi del rapporto tra la ragazza e il giovane, allora, avevano una dimensione completamente diversa da adesso. Allora non c'era il divorzio. Tu ti legavi a un uomo. Francamente, io ho fatto la battaglia per il divorzio, ma non è che fossi entusiasta, per me il matrimonio è una cosa seria, i figli sono una cosa seria, io non è che sia molto felice quando vedo che piantano i figli.

In seguito sono stata mandata al Comando di Brigata e alla Volante, e questo fatto continuava a pesare, perché pensavo al mio futuro.

Alla volante il comandante era Fifa, un ragazzo intelligente, che aveva anche una certa cultura, pur essendo un muratore, che ha avuto molta pazienza con me, cercava di farmi ragionare, diceva: "Con un carattere come il tuo, molto positivo, molto riflessivo, devi riflettere molto seriamente prima di prendere una decisione del genere"; e ancora: "Puoi ricucire le cose quando vai a casa". Abbiamo discusso a lungo, ma io a un determinato momento, immaginando quella che sarebbe stata la mia vita con un uomo del genere, dico: "Preferisco affrontarla da sola; imparerò a lavorare indipendentemente, perché nemmeno nell'ambito della famiglia voglio vivere la vita che ho vissuto fino adesso".

Quando si è reso conto che quella era la mia decisione, ha detto: "Guarda, Laila, ci troviamo talmente bene, noi due, discutiamo, se mai bisticciamo, però troviamo sempre il momento di chiarirci le cose, stiamo bene insieme... io non ho mai avuto la fidanzata, mi vorrei fidanzare con te perché per me sei una donna molto importante...". E io, che ero appena uscita da questa esperienza, ho detto: "Senti, anche per me è una cosa importante perché per la prima volta nella mia vita incontro un uomo che discute a parità di condizione, però qui la vita è quello che è, un domani quando andiamo a casa vediamo meglio... restiamo molto amici, io e te...". Discutevamo sempre, però io capivo che lui voleva qualcosa di più e aveva ragione. La vita lì era un'incognita costante, non sapevi come andava a finire. Infatti è anche andata a finire molto male.

A fine novembre, in seguito al rastrellamento tedesco in corso, mi trovavo a Temporia per passare l'Enza e andare nel parmigiano, e lì c'è Fifa: "Ma guarda, Laila... ", mi ha abbracciata e salutata. Anche lui era venuto via dalla Volante, l'avevano messo a ricostruire il distaccamento Cervi che era appena stato distrutto. C'erano alcuni ragazzi del Cervi incontrollabili, sconvolti da quel che era successo. Un ragazzino che avrà avuto diciassette, diciotto anni diceva continuamente: "Moriamo tutti... moriamo tutti... ". I suoi amici lo avevano nascosto sotto alle fascine quando il distaccamento è stato circondato e annientato, e lui ha visto quando hanno ucciso tutti i suoi compagni che gli hanno sparato alla nuca oppure con la rivoltella in bocca. Non riusciva a fare niente e non avevamo neanche un calmante o qualche cosa per aiutarlo.

Lì ho salutato Fifa, ho incontrato la Barbara e la Kira, e abbiamo attraversato l'Enza.

A rastrellamento finito, quando sono partita per andare alla brigata, incontro vicino a Succiso mia cugina Sandra che mi dice: "Fifa è morto" - "E' morto?! Ma tu scherzi!" - "Guarda che lo cercano e non l'hanno ancora trovato...". Era difficile cercarlo per le abbondanti nevicate. Anche al comando mi dicono che non sanno niente.

Dopo poco, finito il rastrellamento, quando sono tornata dal castello di Comano e dopo quindici giorni di febbri reumatiche, mi chiamano per formare il servizio informazioni.

Vengono anche la Barbara e la Kira, una notte siamo lì che dormiamo assieme, mi sveglio di soprassalto urlando come una pazza, dicevo: "Dimmi dove sei che vengo! Dimmi dove sei che vengo!". Mi ero sognata lui, questo ragazzo che mi diceva: " Laila, vienimi a prendere! Vienimi a prendere! Ho tanto freddo, ho tanto freddo! Sono ferito a un braccio...". Dopo un certo periodo di tempo incontro Pansa, sapevo che era stato anche lui su alla battaglia di monte Caio, e m'ha detto: "Guarda che Fifa era rimasto ferito a un braccio...". Io non ho mai creduto a queste cose dei sogni, per me erano tutte balle, ma rimasi piuttosto scossa.

Com'è morto l'ho saputo praticamente vent'anni dopo. Lui è sepolto a San Bartolomeo. Io ero lì, avevo fatto il comizio del Primo maggio, mi avevano regalato dei fiori, poi avevo preso dei garofani che sapevo che a lui piacevano e stavo mettendoli sulla sua tomba. Allora, c'è un signore che viene e mi dice: "Ma lei come mai mette questi fiori?" - "Perché..." - "Ah, lei è Laila, la fidanzata... " - che mi hanno sempre considerata la fidanzata, anche la famiglia. Allora mi dice: "Sai, Laila, che sono andato io a prenderlo... è finito morto assiderato, lui era ferito a un braccio, si vede che ha perso molto sangue, si è nascosto in una buca dell'Enza, alla notte è morto assiderato". Quello che son riuscita a sapere è questo.

Questa è stata la mia esperienza.

Quando sono arrivata a casa, finira la guerra, ho avuto la fortuna di avere un padre e un fratello meravigliosi, ma mio padre in particolar modo. Lui ha capito subito che io avevo, bisogno degli spazi miei. Potevo continuare a lavorare in un ristorante ed era anche economicamente positivo, ma mi ha lasciato fare le scelte. Quando avevo lo stipendio lo portavo in casa, se non avevo lo stipendio era lui che mi dava qualche cosa perché diceva: "Fai un lavoro che è utile, è utile per te, è utile per la società". E io dico che sono molto serena della scelta che ho fatto, proprio non ne sono pentita, anche andando a vedere come sono vissute quelle della mia generazione. Eravamo in quattro o cinque amiche, proprio intime, tutte quante si sono lasciate col fidanzato. C'era chi diceva: "Oh, l'è dvinteda 'na partigiana ma chisà cos'lha fat!''((Oh, è diventata una partigiana ma chissà cos'ha fatto!)). Gente che era alla vigilia del matrimonio, si è trovata in una situazione del genere perché la mentalità era quella.

Il ritorno a casa, la scelta

L'esperienza della Resistenza è stata anche un momento di grossa presa di coscienza della condizione della donna; un po' per le mie origini, un po' a causa della lotte di Liberazione, quando sono tornata non era più la stessa cosa.

In montagna, ero considerata alla pari dell'uomo e, se fai le stesse cose dell'uomo, vieni valutata per quello che vali e non perché porti i pantaloni o la gonna. A un determinato momento poi mi hanno chiesto di assumere il comando delle staffette del servizio informazioni e io mi sono assunta questa responsabilità; questo porta a una valutazione di te stessa. La stima di cui godi, ti fa fare delle riflessioni: se fino a ieri dipendevo, qui ho avuto questa possibilità, è ovvio che posso esprimere me stessa anche in un altro modo. Riuscire ad esprimere fino in fondo le tue capacità, avere le amarezze e le soddisfazioni, ma che sono tue e non date dagli altri. È un grande passo di qualità che poi ti ritrovi nel momento che devi abbandonare la montagna, quando ti dicono: "Prepara la formazione che dovete andare giù". Ecco, allora in quel momento ti rendi conto che le cose cambiano completamente: hai rotto con il passato, non hai più la prospettiva del matrimonio. Sai che giù incontri la mentalità che hai lasciato, che non è cambiato niente giù. Ecco perché come sono entrata in casa, dopo aver abbandonato la montagna, ho sentito una grande tristezza per un mondo dove tu hai vissuto un momento molto importante della tua esistenza e ne sei profondamente cosciente; un mondo dove hai lasciato degli amici carissimi che hanno dato tanto per te e tu hai dato tanto per loro e che sono morti; amici che avevano un ideale e che ti parlavano di questo ideale come se fosse l'apertura di una vita migliore, cioè la grande speranza di migliorare la propria esistenza, di vivere serenamente, perché non chiedevano poi tanto: si chiedeva di lavorare, di poter formare la famiglia e di vivere serenamente, di avere la possibilità di essere libers, di poter esprimere il proprio parere, corne avevamo fatto fino a quel momento.

Tu avevi vent'anni e andavi a casa, e portavi a casa delle casse con dentro i cadaveri di quelli che erano morti in montagna. Queste cose ti rimangono profondamente e allora fai delle riflessioni e dici: "Devo face una scelta della mia vita, quale deve essere la scelta?". Ovviamente, la riflessione più spontanea che mi è venuta senza proprio nessuna fatica è stata quella: "Io devo continuare delle cose per loro; loro non ci sono, adesso faccio io". Questo è stato il primo discorso che io ho fatto con la mia famiglia.

Ricordo il ritorno dalla montagna e l'impatto con la famiglia: arrivo in casa e mio padre e mio zio mi abbracciano, mia madre mi guarda, dico: "Beh, ma insomma, sono tua figlia!".

Poveretta, è rimasta folgorata, non m'ha conosciuto. Prima di andare in montagna io sono sempre andata piuttosto elegantina, sempre molto ordinata. Gli arriva giù una figlia con i capelli lunghi pieni di pidocchi, un cappello in testa, due pantaloni tutti strappati, mi ha detto che avevo due occhi che sembravo una pazza. A me non pareva, ma lei mi ha visto cosi. Poi ha detto: "Adesso quale sarà la tua vita? Hai piantato il moroso, ma chi ti vorrà adesso, dopo cinque anni di fidanzamento?". Mentre mio padre ha detto una cosa molto importante: "Qui il lavoro c'è per tutti, tu fai le tue brave scelte e io ti appoggerò".

Note

Pour citer cette ressource :

"Un granellino di sabbia io l'ho dato", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), janvier 2008. Consulté le 20/04/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/fascisme-et-seconde-guerre-mondiale/un-granellino-di-sabbia-io-l-ho-dato