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L’immaginario risorgimentale: tempo e spazio nelle opere di Verdi

Par Elena Paroli : Professeure agrégée d'italien - ATER - ENS de Lyon
Publié par Alison Carton-Kozak le 18/11/2021

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L'articolo tratta dell'uso del tempo e dello spazio nelle opere di Giuseppe Verdi come strumento politico, volto alla mitizzazione della figura dell'eroe e alla sacralizzazione della patria.

Introduzione

La produzione verdiana permane uno strumento maggiore per interrogare l’estetica e la storia del Risorgimento. Sappiamo infatti che fra le opere di Verdi e gli eventi storici italiani dell’epoca si realizza un rapporto a doppio senso, oppositivo e complementare: se, da un lato, la produzione artistica si fa cassa di risonanza dei moti unitari, dall’altro la storia sembra nutrirsi altresì della messa in scena della storia realizzata dal genere operistico. In un saggio divenuto ormai un caposaldo nel genere, Imagined Communities di Benedict Anderson (1983), l’autore teorizza il ruolo cruciale dell’"immaginazione" nella costruzione delle nazioni. Un immaginario che in quegli anni è affidato essenzialmente al genere operistico a scapito di altre espressioni artistiche che, pur non manchevoli, non conoscono un eguale successo di pubblico. Una spia di come l’opera abbia saputo intercettare il gusto popolare si trova nello scritto di Carlo Tenca, Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia (1846), in cui l’autore sottolinea come il romanzo non sia stato in grado di stabilire un rapporto diretto con il pubblico, e per ciò sia incapace di commuoverlo. Dello stesso avviso è Mazzini, che nella sua Filosofia della musica (1836) mette in luce la potenza “vivente” dell’opera musicale quale precipua caratteristica dell’arte italiana:

La musica italiana si colloca in mezzo agli oggetti, riceve le sensazioni che vengono da questi, poi ne rimanda l’espressione abbellita, divinizzata. Lirica sino al delirio, appassionata sino all’ebbrezza, vulcanica come il terreno ove nacque, scintillante come il sole che splende su quel terreno, modula rapida, non cura – o poco – dei mezzi e delle transizioni, balza di cosa in cosa, d’affetto in affetto, di pensiero in pensiero, dalla gioia estatica al dolore senza conforto, dal riso al pianto, dall’ira all’amore, dal cielo all’inferno – e sempre potente, sempre commossa, sempre concitata ad un modo, ha vita doppia dell’altre vite: un cuore che batte a febbre.

Per dare un esempio concreto della popolarità del genere operistico in quegli anni, così come del suo fungere da “creatore di immagini” all’interno di quel particolare contesto storico che è il Risorgimento, basti citare un aneddoto della storica Carlotta Sorba riportato nel saggio Musica e teatro (2011): all’indomani della messa in scena dell’Ernani verdiano, si vedevano per le strade molti "cappelli all’Ernani", segno di come il popolo si appropriasse, attraverso una mitizzazione feticistica e taumaturgica, delle apparenze del bandito e ribelle aragonese. Ma non è solo la massa a volere assomigliare agli eroi operistici: anche le grandi figure storiche del Risorgimento, a dispetto dell’aura già leggendaria che li circonda, vengono ritratti attraverso i canoni prodotti dall’opera. Basti vedere questo ritratto di Garibaldi eseguito a Roma nel 1849, ove l’eroe dei due mondi è còlto anch’egli con addosso un “cappello all’Ernani”.


M. Lorusso, Garibaldi a Roma nel 1849, Museo Nazionale del Risorgimento, Roma

Proprio l’Ernani è del resto al centro di una inattesa e tempestiva concordanza storica con il proprio tempo. L’opera, che debuttò alla Fenice di Venezia nel marzo del ’44, narra la storia di Don Giovanni d’Aragona il quale, a dispetto delle nobili origini, sceglie la via del brigantaggio per spodestare re Carlo e vendicare così l’uccisione del padre. Pochi mesi dopo, il 25 luglio dello stesso anno, i fratelli Bandiera, anch’essi nobili e veneziani di nascita (nonché ufficiali della Marina da guerra austriaca), vengono fucilati dopo aver tentato di sollevare i calabresi contro Ferdinando II. Un esempio fra tanti di come il genere operistico potesse essere rivestito anche a posteriori di ulteriori afflati patriottici.

Ma con quali mezzi, quali formule espressive, quali trovate sceniche l’opera riesce di fatto ad intercettare così intensamente il gusto popolare? Nel tentativo di dare una prima risposta – non certo esaustiva – a questi quesiti, potremmo partire da una prospettiva bachtiniana, ovvero dall’analisi della messa in scena del tempo e dello spazio nelle opere verdiane.

1. Il tempo

Verdi, da animale teatrale qual è, intuisce molto rapidamente che una delle regole per accattivarsi il giudizio popolare è quella del ritmo. Durante la preparazione del Macbeth non esita ad intimare Piave (ovvero il più prolifico fra i librettisti verdiani, con il quale il Maestro collabora per quasi un ventennio) ad usare versi brevi, che "quanto più saranno brevi e tanto più troverai effetto". L’elemento temporale è infatti uno strumento primo per assicurarsi la grandiosità della scena, per far sì che essa si trasformi, sempre citando Verdi, in "fatto storico". Se è innegabile che il principio regolamentatore dell’opera è quello dell’amplificatio (siamo davanti a sovra-eroi, sovra-sentimenti e sovra-drammi), la temporalità non vi fa eccezione. Potremmo anzi affermare che è proprio l’uso del tempo a situare le opere verdiane a metà strada fra genere epico e tragedia, facendo di esse delle vere e proprie opere storiche e politiche: se dall’èpos attingono il tono leggendario delle imprese svolte dall’eroe e dal popolo, dalla tragedia ereditano l’idea di un’azione che si svolge in un lasso di tempo breve e concitato (vedasi il concetto di "unità di tempo" che Aristotele evoca nel De poetica), ove una serie di eventi maggiori si svolgono sotto gli occhi dello spettatore nell’immediatezza dell’attimo, facendosi così specchio dell’attualità storica del tempo presente. Non solo: la brevitas in cui sono còlte le gesta del patriota acuisce una certa immagine romantica della giovinezza e del sacrificio: così facendo l’eroe, la cui vita viene repentinamente strappata nel fiore degli anni, si trasforma in martire.

 A proposito di nozioni quali “rapidità” e “attualità dell’azione” possiamo iniziare il nostro breve excursus nella temporalità verdiana osservando la messa in scena di un tempo assoluto, in cui passato, presente e futuro si concentrano in un solo istante. Prendiamo, a guisa di esempio, la Scena V dell’Atto III del Nabucco (1842). Il coro degli ebrei ha appena intonato il Va’ pensiero, quando Zaccaria annuncia la sua profezia, con la quale promette al popolo ebreo che presto sarà libero.

Del futuro nel buio discerno... /
ecco rotta l’indegna catena!...
Piomba già sulla perfida arena /
Del leone di Giuda il furor! /
A posare sui crani, sull’ossa /
Qui verranno le jene, i serpenti; /
Fra la polve dall’aure commossa /
Un silenzio fatal regnerà! […].

Con ogni evidenza non vi è soluzione di continuità fra l’evento in potenza ed in atto, nella misura in cui all’iniziale proiezione al futuro fa seguito un evento che è già in corso ("ecco rotta") e, proprio per questo, carico del prossimo avvenire di gloria storica. Notare come l’ellissi più evidente sia quella che riguarda la battaglia che li attende: dal momento in cui la profezia è pronunciata essa diviene un fatto se non, addirittura, un fatto subitamente divenuto Storia. D’altra parte, non è un caso se le numerose scene in cui si realizza tale sovrapposizione temporale siano siglate dall’uso ricorrente dell’avverbio "già": nella Giovanna d’Arco (1845) non appena la pulzella d’Orléans ha indossato l’armatura (siamo, come si capisce, alle prime battute dell’opera, e precisamente nella scena V del Prologo) esclama:

O fedele Orléans, ti consola... /
Tengo alfine una spada, un cimier; /
Sui britanni cadaveri vola /
Già l’insegna del franco guerrier.

Si noti come l’investitura a cavaliere basti da sola a trasformare ipso facto i britanni in cadaveri; elemento, quest’ultimo, che si rifà alla lunga tradizione relativa alla mitizzazione delle armi dell’eroe guerriero e che ha avuto, dal XVI canto dell’Iliade in poi, ampia fortuna nel genere epico e non solo. Legato al concetto di ritmo vi è poi evidentemente tutta la questione della suspense. Proprio per questa ragione un’altra temporalità tipica delle opere verdiane è quella che potremmo definire come l’essere sul punto di. I personaggi principali sono sovente còlti nel momento esatto in cui si accingono a compiere un atto estremo, come quello del suicidio. Questo tempo transeunte pone su ciascuno di loro una particolare aurea legata al martirio, all’immagine del morente. Allo stesso tempo, sfuggendo di volta in volta alla morte (almeno sino al giungere dell’ultimo atto!), l’eroe acquisisce una vis di immortalità. Esempio emblematico di questo procedimento è dato dalla figura di Elvira dell’Ernani. La donna è oggetto d’amore di ben tre personaggi: di Ernani (l’unico che essa ricambia), del di lui zio (il Grande di Spagna Silva, di cui Elvira è sposa promessa) e del re Carlo. La morte sempre annunciata diviene così un’arma di ricatto per rispondere ai tentativi di seduzione degli amanti indesiderati e per cercare di trattenere dalla morte l’uomo amato. Ogni atto dell’opera è scandito dalla sua promessa di un suicidio imminente:

ATTO I, SCENA VII: non riuscendo a svicolarsi dalle avances di Carlo, Elvira gli strappa il pugnale dal fianco esclamando:  "[…] Mi lasciate, o d’ambo il core / disperata ferirò".

ATTO I, SCENA VIII: Elvira minaccia Carlo ed Ernani; al minimo gesto di scontro fra i due, lei si ucciderà: "S’anco un gesto vi sfugga, un accento / qui trafitta cadrò al vostro pié […]".

ATTO II, SCENA IV: Elvira mostra ad Ernani il pugnale con cui si sarebbe uccisa sull’altare se avesse dovuto sposare Silva, accompagnando il gesto di queste parole: "Memore / del fatto giuramento, / Sull’ara stessa estinguere / Me di pugnal volea […]".

ATTO IV, SCENA VI: Ernani ha appena deciso di morire ed Elvira cerca di trattenerlo annunciandogli il suo suicidio: "Ferma, crudele, estinguere / perché vuoi tu due vite?". Alla fine della stessa scena, non appena Ernani si è pugnalato Elvira esclama: "Che mai facesti, o misero / Ch’io mora…a me il pugnale".

Per comprendere la portata eroicizzante di questa temporalità transeunte e, con essa, della figura del morente, basti confrontare le opere verdiane con due romanzi storici di evidente stampo patriottico, quali il Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi e L’assedio di Firenze (1869) di Francesco Domenico Guerrazzi. In entrambi i casi gli autori mettono in scena l’eroe agonizzante, sospeso in una dimensione al contempo mortuaria ed estremamente vitalistica, in cui l’essere sul punto di spirare conferisce all’eroe un’aura altalenante, contesa fra il dubbio dell’immortalità e l’evidenza della prossima fine. Così spira Marco Visconti, non potendo "morire senza contrasto":

- È là dentro, - gli rispose un d'essi, accennandogli un uscio, e nello stesso tempo corse in atto ossequioso ad aprirglielo. Marco senza sospetto alcuno si fa innanzi, passa la soglia, entra in un lungo stanzone; ed ecco appena vi ha posto il piede, l'uscio gli si richiude addosso di colpo, sonante di ferramenti; e in un batter d'occhio balzan fuori da vari nascondigli sei uomini armati, tutti coperti di maglia, col mariotto in capo e la visiera bassa, che lo assaliscono ad un tempo da ogni parte. Nel primo impeto gli fecer due ferite, una nella gola, una in un fianco: poi gli si strinsero addosso pigliandolo qual per le spalle, quale attraverso la persona, quale avviticchiandosegli alle gambe per farlo cadere. Egli corse con una mano al fianco sinistro cercandovi il pugnale, ma non ve lo trovò, chè uno degli assalitori avea avuto l'accorgimento e la destrezza di levarglielo nel punto che gli s'era gettato alla vita. Marco si vide perduto, nè volle però morire senza contrasto: levò in alto un pugno, che nessuno potè tenergli, e lo calò con tanta forza sul capo d'uno che gli avea data in quel punto una stoccata nel petto, che il percosso stramazzò sul pavimento come un toro colpito dal maglio. Ma gli altri continuando pur sempre a stargli serrati dattorno, lo trascinarono tutto grondante di sangue presso una finestra che dava sulla via; ivi presolo per le braccia, per la vita e per le gambe, lo sollevaron di peso, e datogli una spinta lo precipitarono a capo in giù sul selciato, dove pochi momenti dopo spirò.
Per Milano, per la Lombardia, per tutta Italia, si parlò poi in cento modi della fine di quel glorioso capitano.

E così muore Ferruccio, per un istante quasi risuscitato dall’agonia nell’aver visto per un’ultima volta il vessillo della Repubblica:

Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; - non ha parte di corpo illesa; - invano tentarono arrestargli il sangue, - prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. - Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch'egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte [...]. Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell'uomo, imperciocchè accennino la presenza della morte - o Dio [...].
La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l'animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone. Colà il vessillo della Repubblica, come se avesse senso d'intelletto, tentava svolgere le sue pieghe, che si ostinavano a rimanersi rigide a guisa di pietra; - il giglio se ne stava chiuso in mezzo di quelle non altrimenti che dentro un sepolcro, - lui pure opprimeva la inerzia della morte. Fatto segno alle archibusate ed ai sassi del nemico, - ecco finalmente cade anch'egli percosso per non rilevarsi mai più. Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con mestissimo accento: «È caduto! È caduto!». All'improvviso le porte sfasciate si disfanno, - irrompe il nemico nelle sale del castello. Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte. Entrarono e videro l'agonia del campione della Repubblica, - o piuttosto dell'ultimo fra i grandi Italiani.

A queste temporalità vibranti possiamo aggiungerne una terza, forse più fine ma non per questo meno potente. Siamo qui di fronte ad un Verdi più maturo, ormai giunto al termine della creazione della sua trilogia popolare. Nella Traviata (opera che solo ad uno sguardo poco attento può apparire priva di elemento politico, giacché vi è in gioco una lotta di classe, senza dimenticare che la difesa di un amore contrastato è sempre, in Verdi, emblema di una generale battaglia per la libertà individuale) assistiamo alla messa in scena di una corsa contro il tempo. Anche questa declinazione temporale ha un’evidente ripercussione storico-politica: lottare contro l’avanzare del tempo significa infatti, in modo più generale, opporsi ad un destino immutabile e irreversibile, più grande di qualsivoglia sforzo del singolo o della collettività. Ragion per cui, non solo coloro che intraprendono una simile battaglia si trovano ancora una volta mitizzati in uno statuto leggendario, ma è il senso della lotta stessa verso ciò che è percepito come immutabile e irreversibile e portare in sé, in filigrana, l’immagine immobile dell’Italia preunitaria, cristallizzata da secoli in quello che sembrava essere un eterno statuto di divisione, infine superato dalla lotta storica. Tornando alla nostra Traviata, sin dalla primissima battuta lo spettatore è immerso in un’atmosfera di ritardo, di tempo già irreversibilmente trascorso. Il coro degli amici, già a casa di Violetta intento a festeggiare, nell’accogliere un gruppo di ritardatari apostrofa questi ultimi affermando: "Dell’invito trascorsa è già l’ora… / Voi tardaste…". L’ingresso in scena di Alfredo, che avviene dopo poche battute, è un invito a godere dell’istante presente, conscio del tempo che s’invola nel momento stesso in cui viene evocato (Atto I, Scena II):

Libiam ne’ lieti calici
Che la bellezza infiora,
E la fuggevol ora
S’inebri a voluttà.
Libiam ne’ dolci fremiti
Che suscita l’amore,
Poiché quell’occhio al core
Onnipotente va.

Piave, librettista dell’opera, si mostra qui attento lettore della Dame aux Camélias ove figura un identico invito a godere dell’immediatezza dei piaceri terreni ("Ne croyons à rien / Qu’à ce qu’on tient bien / Et pour moi je préfère / À ce ciel douteux / L’éclair de deux yeux / Reflété dans mon verre" ; Atto I, Scena II). Ancora più significativo è il modo con cui Alfredo e Violetta, appena conosciutisi ma già reciprocamente innamorati, si danno appuntamento al giorno successivo (Atto I, Scena III):

Violetta
(si toglie un fiore dal seno)
Prendete questo fiore.

Alfredo
Perché?

Violetta
Per riportarlo..
.

Alfredo
Quando?

Violetta
Quando /
Sarà appassito.

Alfredo
O ciel! domani...

Il carattere effimero del fiore incarna tutto l’eroismo di Violetta la quale, proprio come la galleria di eroi operistico-letterari sopra evocata, non vive la prossima fine (provocata dalla tisi) come un ineluttabile destino da accettare, ma come l’ultimo e più ampio terreno di lotta in cui esprimere la propria libertà personale.

2. Lo spazio

Di una maturità ancora più inoltrata rispetto alla Traviata è una delle più belle messe in scena dello spazio nelle opere verdiane. Si tratta del penultimo lavoro di Verdi, l’Otello, apparso nel 1887. Il Moro fa il suo ingresso giungendo da un mare in tempesta, annunciando gloriosamente di aver vinto il nemico musulmano. Il primo atto si apre pertanto, come indica il libretto, "All’esterno del castello". Via via che Otello cade nella manipolazione di Jago, l’ambiente si restringe (a far da sfondo al secondo e al terzo atto sono due sale interne del castello), sino a concludersi – in uno spazio strangolato che fa da sfondo e da preambolo all’imminente morte di Desdemona – nella camera di quest’ultima. Tali finezze, come la corsa contro il tempo di Violetta, sono forse meno evidenti nelle opere più giovanili; nondimeno, lo spazio vi gioca un ruolo essenziale nel suo essere motore e testimonianza dei moti risorgimentali. Un primo elemento va senza dubbio ricercato nella rappresentazione idilliaca della patria, Leitmotiv della letteratura “patriottica” dell’epoca, come vediamo in questo passo delle Confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo in cui Carlino scopre la piana di Firenze:

Giunto poi a Pratolino donde l’occhio divalla sulla sottoposta Toscana il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che se avessi conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato un cantico sul fare di quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tre le creste azzurrine degli Appennini e le candissime dell’Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e gloria, nelle eterne pagine della storia, nell’eloquente grandezza dei monumenti, nella viva gratitudine dei popoli, sempre apparisci sublime, sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che delle nazioni del mondo tu sola non moristi mai! [...] (Cap. XVI).

Parlando dei paesaggi di Nievo, Cesare De Michelis scrive: "è un paese che già esiste nello spazio degli ideali, nell’orizzonte futuro delle idee e, al tempo stesso, nell’universo della tradizione e della memoria". Questo medesimo principio si trova nei paesaggi verdiani; giacché si tratta quasi sempre di spazi evocati nella memoria di un esiliato, essi assumono una duplice dimensione di luogo del ricordo e di strumento di proiezione verso l’avvenire (un paesaggio insomma, per riprendere le nostre note sul tempo, in cui passato, presente e futuro convergono in un solo istante!). Ciò che conta però sottolineare è il carattere onirico ed edenico che i luoghi manifestano. In questi termini si indirizza Aida alla propria patria, mentre si appresta a fuggire:

Atto III:
O cieli azzurri… o dolci aure native
Dove sereno il mio mattin brillò…
O verdi colli, o profumate rive…
O patria mia, mai più ti rivedrò.

La bellezza del luogo natìo è del resto tale da generare un vero e proprio processo di erotizzazione della patria, alla quale gli eroi si rivolgono come alla donna amata, e in cui non manca l’evocazione di una esplicita gestualità corporea. Se nei Vespri siciliani (1855) Procida non può che salutare la ritrovata terra con un bacio ("O patria, o cara patria, alfin ti veggo! / L’esule ti saluta / Dopo sì lunga assenza; / Il tuo fiorente suolo / Bacio, e ripien d’amore / Reco il mio voto a te [...]"), tanto nei Due Foscari (1844) quanto nella Battaglia di Legnano (1849) i personaggi principali evocano un contatto più sfumato e intenso con la terra natale. Jacopo Foscari, tradotto dalle carceri veneziane per presenziare davanti al Consiglio dei Dieci, rivede per un istante Venezia, ed esclama:

ATTO I, scena IV e V:
Brezza del suol natio
Il volto a baciar voli all’innocente!...
Ecco la mia Venezia!... ecco il suo mare!...
Regina dell’onde, io ti saluto!...
Sebben meco crudele,
Io ti son pur de’ figli il più fedele.

In questo amore armoniosamente ricambiato è la patria stessa a correre a baciare il patriota, con il suo soffio. E sempre di auree è questione nell’incontro fra Arrigo e la sua Milano:

ATTO I, scena I:
O magnanima e prima
Delle città lombarde,
O Milan valorosa, io ti saluto
[...] S’accese
All’ombra delle sacre
Tue rinascenti mura il foco, ond’io
Eternamente avvamperò. Divina
Cagion de’ miei sospiri,
Io bevo l’aure alfin ch tu respiri!

Nelle battute finali, chiediamo venia, ci permettiamo un piccolo calembour etimologico: potremmo infatti dire che questo precipuo modo di amare la Patria e di essere da lei riamati trova tutta la sua forza drammaturgica nella sua dimensione prettamente storico-politica: gli eroi verdiani respirano con la loro patria, sono animati dal medesimo afflato, condividono lo stesso soffio. Altrimenti detto: cospirano.

Bibliografia

Anderson B. , Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London-New York, 1983.

Grossi T. , Marco Visconti (1834), Arcipelago Edizioni, Firenze, 2009.

Guerrazzi F. , L'assedio di Firenze (1869), Treves, Milano, 1923.

Mazzini G. , Filosofia della musica (1836), in Id., Scritti letterari, Bietti, Milano, 1933.

Nievo I., Confessioni di un italiano (1867), Introduzione di Cesare de Michelis, Marsilio, Venezia, 2000.

Sorba C. , Musica e teatro, in L'unificazione italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2011

Tenca C. , Delle condizioni dell'odierna letteratura in Italia (1846), in Id., Saggi critici, Sansoni, Firenze, 1969.

Verdi G. , Tutti i libretti d'opera, Newton Compton Editori, Roma, 2009.

Pour citer cette ressource :

Elena Paroli, "L’immaginario risorgimentale: tempo e spazio nelle opere di Verdi", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), novembre 2021. Consulté le 29/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/arts/musique/l-immaginario-risorgimentale-tempo-e-spazio-nelle-opere-di-verdi