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Un percorso di lettura attraverso i «Poemi conviviali» de Pascoli

Par Francesca Sensini : Professeur agrégé d'italien, qualifiée aux fonctions de maître de conférences
Publié par Damien Prévost le 14/01/2011

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Cette ressource propose une lecture du recueil les ((Poèmes conviviaux)) de Giovanni Pascoli (1904) à la lumière des présupposés esthétiques et théoriques qui sont à la base non seulement de ce recueil, mais de l'ensemble de l'œuvre et de la réflexion poétique de l'auteur. On y approfondit tout particulièrement la valeur et les implications de la notion pascolienne "d'antico" qui renvoie à la fois, à un modèle littéraire historiquement défini - dans le cas des Poèmes conviviaux, à la littérature grecque et latine - et à l'essence méta-historique de la véritable poésie, ainsi que la sémantique du "sogno"; cela en interrogeant les textes pascoliens, en vers et en prose, au delà des frontières du recueil.

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Cette contribution fait écho à un ouvrage de Francesca Sensini paru aux éditions Pàtron (Bologne, 2010) intitulé Dall'antichità classica alla poesia simbolista: i 'Poemi conviviali'

 

I Poemi conviviali

È da qualche tempo ormai che la critica pascoliana dimostra un rinnovato interesse, filologico ed interpretativo, per i Poemi conviviali. Anni fondamentali sono senz'altro il 1980, quando uscì l'edizione commentata di Giuseppe Leonelli, e il 2008, data di pubblicazione dell'attesissimo commento di Giuseppe Nava. Inoltre, le intuizioni di Giacomo Debenedetti, già a partire dagli anni Cinquanta, e i contributi decisivi di Maurizio Perugi nel corso degli anni Ottanta hanno contribuito a liberare la raccolta dalle etichette che le erano state attribuite. In effetti, sulla raccolta, accolta con entusiasmo alla sua uscita nel 1904 - basti pensare agli elogi del D'Annunzio e alla celebrazione dei Poemi conviviali, definiti "l'opera poetica più grande del nostro tempo", sulle pagine della rivista internazionale "Poesia" ad opera di Filippo Tommaso Marinetti e di Sem Benelli - gravò poi il peso della profonda erudizione classica e della ricercatezza filologica che, durante la stagione del crocianesimo, con la sua esaltazione della poesia "pura" e impressionistica, furono sentiti come apparato decorativo affascinante ma fine a se stesso, di un'esperienza poetica racchiusa nei limiti di un'arte liberty e decadente.

In realtà, l'erudizione e la filologia sono funzionali all'espressione di una poesia polisemica ed allusiva, che possiamo comprendere correttamente solo inserendo l'esperienza letteraria dell'autore nell'ambito della storia delle idee e prendendo in cosiderazione la componente antropologica operante nella raccolta. Dopo aver inserito la poesia conviviale e, più in generale, pascoliana, nella macrocornice che le compete, e che include, naturalmente, le esperienze della poesia europea dell'Ottocento e di fine secolo, fino al Parnasse e al simbolismo di Mallarmé, occorre poi penetrare nel laboratorio dell'autore e ricostruire le complesse trame di rimandi intertestuali - con le altre raccolte dell'autore e le sue opere teoriche, compresa l'esegesi dantesca, con gli ipotesti e i paradigmi a cui egli fa, più o meno scopertamente, riferimento - che interessano sia gli aspetti tematici che lessicali e che permettono di accedere a un'interpretazione autenticamente rigorosa dell'opera del Pascoli.

Nel quadro della ricerca pascoliana di una poesia veramente moderna, i Poemi conviviali rappresentano un tentativo di verifica delle possibilità di sopravvivenza della poesia stessa dopo la morte del pensiero mitico, nel presente del sapere tecnico-scientifico, segnato dall'affermazione del materialismo e del produttivismo e dal restringersi degli orizzonti spirituali. La morte del pensiero mitico coincide con la perdita dell'infanzia, coincidente con il progresso intellettuale e materiale della società, da un lato, e con lo sviluppo psico-cognitivo del singolo, dall'altro. Questa perdita segna, infatti, un radicale impoverimento delle facoltà dell'anima, prima tra tutte la "meraviglia", termine tecnico del lessico pascoliano, da cui discende la conoscenza intuitiva del mondo e la possibilità stessa della poesia.

Nei Poemi conviviali il tentativo di recuperare l'infanzia originaria - e dunque un rapporto significante con il mondo - passa, come sempre nel Pascoli, attraverso un modello; in questo caso corrispondente al patrimonio culturale e letterario del mondo classico. Quest'ultimo  rappresenta per Pascoli una manifestazione storicamente determinata di quell'"antico" - altrove rappresentato dalle sperimentazioni pregrammaticali, dal folklore, dal dialetto garfagnino, dal medioevo di Re Enzio, dal latino dei Carmina - coincidente con la condizione ontologica assoluta della fanciullezza. Per questo è essenziale, nell'accostarsi all'interpretazione dei Conviviali, tenere sempre presente la doppia valenza, storico-letteraria e metastorico-simbolica, del materiale classico utilizzato.

Per quanto riguarda gli aspetti formali, la veste iperletteraria e genericamente artificiale della raccolta non rappresenta uno scarto rispetto alle altre sperimentazioni pascoliane, solitamente ritenute più moderne e innovative, ma risponde agli stessi presupposti estetici. In effetti, la questione dell'artificialità dei Poemi conviviali è strettamente legata allo statuto della lingua poetica che, nel Pascoli, è sempre e di necessità una lingua artificiale. Solo per gli uomini primordiali si dà perfetta coincidenza tra parola e poesia; ogni sforzo successivo implica la ricostruzione di un modello conoscitivo della realtà - nel caso della raccolta conviviale questo modello è offerto dal mito classico - che permetta di avvicinarsi con il minor grado di approssimazione possibile alla parola aurorale, la parola "che più non si sa" di CC, Addio 18.

La coincidenza perfetta resta una meta tendenziale perché la ricostruzione della parola originaria si realizza attraverso l'impiego di uno strumento logoro e inadeguato, qual'è la lingua, che occorre "vivificare" per riattivarne la funzione poetica. L'artificiale pascoliano, dunque, si oppone alla lingua convenzionale d'uso corrente e non tanto a una pretesa naturalezza dell'espressione linguistica. È dall'esigenza di plasmare un mezzo divenuto incongruo che deriva alla poesia pascoliana la sua carica simbolica; il simbolo risponde all'esigenza di rendere vivo cioè che è astrattamente concettuale, cioè morto, e di volgere il logos in muthos.

Da qui la necessità della filologia, che permette al poeta di accedere quanto più scientificamente possibile alla lettera e allo spirito dei suoi modelli, senza tradirne la specificità storica. Evocata nel suo massimo grado di alterità, la parola antica è una sorta di traccia archeologica della parola originaria, un modello da studiare e comprendere per potere rinnovare nel presente la poesia eterna. In effetti, Pascoli riconosce nella lingua la latenza di qualcosa che va al di là della lingua stessa, un'impronta, ancora vibrante di vita, dell'intuizione ed emozione che l'hanno originata. Per questo il poeta-filologo sente di poter risalire dallo studio della parola poetica dei modelli alla sua genesi psicologica, fino a poter rivivere, superando i limiti spazio-temporali, e rinnovare, l'esperienza dei poeti che l'hanno preceduto.

All'interno dei Poemi conviviali, nel percorso a ritroso alla riscoperta della poesia, è dato riconoscere il movimento da una condizione di sogno a un'implosione naturale di questo stato, e dalla perdita del sogno a una sua ricostruzione su basi rinnovate. Con "sogno" si intende l'aspirazione naturale, nel Pascoli, alla ricerca del senso, nello sforzo costante di sottrarre l'esistenza umana al potere della morte e del nulla. Il moto di allontamento dal sogno, demistificato dalla transitorietà dell'esistere e dalla violenza del reale, si consuma nella prima parte della raccolta, da Solon ad Antìclo, per compiersi nell'Ultimo viaggio, introdotto dal Sonno di Odisseo. La natura iterativa, a flussi e riflussi tematici e argomentativi, della raccolta impedisce di tracciare linee di demarcazione nette.

Dalla necessità distopica della morte e del nulla, affermata da Odisseo, discende il concepimento di una nuova utopia, fondata sulla nozione di caritas/ajga>pe di ascendenza paolina. Nella riflessione storico-antropologica del Pascoli, infatti, l'amore diventa il motore evolutivo dell'umanità e il fondamento della speranza di una redenzione dal nulla, da realizzarsi attraverso una palingenesi sociale. In questo quadro, alla poesia viene assegnato il compito di abbandonare le illusioni, ultima quella della fascinazione della poesia antica, per rivelare all'uomo la doppia necessità della morte e dell'amore. I temi morali, il destino dell'anima, la contemplazione ansiosa della storia caratterizzano Il poeta degli Iloti, I poemi di Ate, I poemi di Psyche, I vecchi di Ceo, Alexandros, Tiberio, Gog e Magog e la Buona Novella.

Si può poi riconoscere poi un ordinamento più "esteriore", di tipo cronologico: all'inizio vengono collocati i componimenti omerici ed esiodei, poi quelli ispirati a Platone e alla lirica corale, per finire con gli affreschi storico-leggendari. Solon resta, in un certo senso, al di fuori di questo ordinamento, offrendo, in veste di introduzione, gli elementi essenziali per comprendere la raccolta. All'interno di questo ordinamento, si possono poi individuare i poemi più marcatamente metalinguistici: Solon, Il Cieco di Chio, La Cetra di Achile, Le Memnonidi, Sileno e I Gemelli (anche se, in Pascoli, il fare poetico implica sempre, per essenza, la riflessione metapoetica). Le coppie dialoganti di questi poemi rinviano al monologo di un io bifronte, essenzialmente doppio; attraverso il dramma messo in atto nei poemi, io poetico mira a ritrovare l'unità propria della fanciullezza originaria; in altri termini, l'armonia tra conoscenza logica ed estetica del mondo.

Presupposti estetico-teorici

L'antico

I passi che seguono sono fondamentali per comprendere il valore della nozione di "antico", intesa come categoria poetica storicamente individuata, e di volta in volta fatta coincidere con periodi storici e fenomeni culturali differenti, e metastorica.

Prefazione a Traduzioni da Alfredo de Musset, di Pilade Mascelli (1887): "il presente, non c'è per il poeta... l'attimo fuggente non si lascia cogliere": la poesia è necessariamente o memoriale o profetica.

Quaderni degli anni 1892-1983: "in noi vive inconscia la vita d'altri tempi". L'uomo moderno pascoliano è un palinsesto; l'antico è un'eredità latente che il poeta può vivificare attraverso lo studio e la disponibilità alla meraviglia.

Recensione a una raccolta di versi patriottici, Carlo Alberti. Canti, opera di Amilcare Finali (1892): "L'uomo, quando poetizza, imita il tempo...non fa altro che allontare, per virtù di profonda meraviglia, dal mondo consueto ciò che rende poetico". Il passato storico ed individuale risultano dunque naturalmente poetici

Prolusione al corso di grammatica greca e latina all'università di Bologna (1896): "non si può scindere il passato dall'avvenire". Superando la trita opposizione tra antico e moderno, Pascoli sottolinea come nulla sia autenticamente nuovo, nessuna letteratura sia autenticamente nuova "perché il pensiero antico vive, con modi appena mutati, in essa"; "[l'individuo] sente allora per quali misteriose fibre sia congiunto all'umanità che fu e a quella che sarà". Lo studio dell'antico, nello specifico delle lingue e letterature classiche, rivela ai giovani il vincolo che lega l'individuo all'umanità di tutti i tempi e sviluppa un sentimento di fratellanza universale.

Prefazione all'antologia di lirica latina Lyra romana (1894): lo studio dei classici è "amore che conserva"; esso ha la funzione di antidoto contro la morte. Nel poeta di ogni tempo, "come il cupo ronzio del mare nelle volute della conchiglia, è l'eco dei convivi antichissimi": il convivio pascoliano è un luogo storico, dove nacque la poesia lirica, e insieme archetipico, dove gli uomini si riuniscono per celebrare i momenti fondanti della loro esistenza e, attraverso la poesia, contemplare il senso del loro destino.

Prefazione all'antologia di lirica latina Epos (1897): "L'epos è la poesia degli anni migliori... gli anni passati e lontani": l'epica è il genere più antico e finisce per confondersi con la poesia in senso assoluto. Nei Poemi conviviali l'epica omerica diventa archetipo universale della Poesia primordiale.

Commemorazione in onore di Diego Vitrioli, Per un poeta di lingua morta (1898): la poesia, come la religione, ha bisogno di "parole che velano e perciò incupiscono il loro significato". Il fine della lingua poetica è di far emergere la figura poetica alla figura reale, il suo doppio, ombra e mistero.

Premessa all'antologia Sul Limitare (1899): "... il nuovo abbonda intorno ai giovinetti, o sovrabbonda...Meglio vivificare l'antico: ché da questo viene l'ispirazione, da quello non scende che l'imitazione; e l'imitazione uccide, mentre l'ispirazione crea".

Il sogno: "Quello che alla luce sogna, ricordando..."

Innanzitutto occorre distinguere tra una generica temperie onirica e sensazione di sogno che la poesia pascoliana comunica e una più specifica semantica del sogno, inteso come vero e proprio termine tecnico, le cui occorrenze nei testi sono spia di un discorso metapoetico.

In Pascoli il sogno non rappresenta l'espressione dell'irrazionale soggettivo; al contrario, il sogno è uno strumento gnoseologico fondamentale, capace di rivelare l'essere, oltre il velo dei dati fenomenici. Nella poesia del Pascoli, il dato sognato tende a prevalere sul dato reale, per cui gli oggetti, eventi e i personaggi appaiono come duplicati, prima evocati nel sogno e poi rappresentati nella loro realtà e attuazione positiva. I dati empirici si rivelano, in un certo qual modo, metafore dell'immaginato; essi non esistono, ma sembrano avverarsi, a confermare le visioni dell'io. Il sogno pascoliano, in generale, definisce una condizione di eccesso, in senso etimologico, che può prendere due forme contrastanti: l'estasi - excessus mentis nel lessico dantesco - o l'astrazione dal reale per immergersi in un immaginario interiorizzato. Non di rado queste due valenze interferiscono e concorrono a formare la complessa e sfumata categoria del "sogno" pascoliano.

Tuttavia, lo statuto ontologico proprio del sogno - sovratemporale, aspaziale e non sottoposto al divenire - introduce inevitabilmente uno scacco: il mondo delle visioni oniriche non resiste a lungo all'urto del reale e svanisce così repentinamente come è apparso.

Alcuni passi importanti per la definzione del sogno pascoliano

Gli appunti giovanili di Foglie gialle (1877-1879): la predisposizione al sogno, propria del poeta, è definita "malattia dell'astrazione"; si tratta di un'esperienza vissuta dal soggetto ma portatrice di un messaggio di natura oggettiva circa la verità che è dietro i dati empirici:

"egli si trova in un sogno e una visione, tra il passato e l'avvenire: ma la visione è incerta e vaporosa [...] la poesia che ne esce è perciò soggettiva; ma l'oggettivo per lo più prende il sopravvento. Il poeta non afferma, non scuopre, non prova nulla. Egli rende una sensazione come l'ha subita: è la malattia dell'astrazione, che è comune ai poeti primitivi [...] io astraggo dal mondo d'oggi, come astrae chi sogna, senza mancare alla verità".

Il discorso leopardiano La Ginestra (1897): l'amor di sogno leopardiano è assimilato alla nozione di "meteora spirituale", con cui Pascoli definisce l'emozione-intuizione poetica. L'ombra che si proietta dallo scoppio della meteora è la meta del simbolo infranto che il poeta cerca di ricostruire attraverso il linguaggio.

Si possono confrontare con questi estratti i versi di  CC Mendico II 7-10

nel cuore sono due vanità nere
l'ombra del sogno e l'ombra della cosa;
ma questa è il buio a chi desia vedere,
e quella il rezzo a chi stanco riposa

PP Il cieco II 6-7

vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non so né saprò mai

Corso universitario sull'epos a Bologna (1909-1911):

"Si può dire che tutti i poeti epici sono poeti del sogno, e che un sogno sia l'epos in quanto ci fa assistere presenti a fatti lontani e ci converte in meraviglie e portenti le cose più usuali e comuni... e ci fa trovare i morti nei loro atteggiamenti di vivi".

Data la coincidenza tra epos storico e parola aurorale, è la poesia stessa ad essere assimilata al sogno.

Il discorso Sicilia in Dante (1900):

"Ché 'poesia' è rivivere ciò che fu, riviverlo improvvisamente e pienamente, avanti un tempio dalla colonne corcate a terra, avanti un poema dal linguaggio antico e disusato, rialzando con la leva del sogno quella gigantesche colonnne e ricreando, col soffio del pensiero, qual mondo immenso".

Il discorso Un uomo di pensiero e un uomo d'azione, in onore di Giuseppe Chiarini e Gian Maria Damiani (1908):

"[la poesia] è una creazione che, per dirla nostra, dobbiamo cerderla fatta come in sogno; un sogno avanti l'alba in cui può apparire al poeta nuovo il poeta antichissimo e sempre fiorente, che sparge le salse lacrime e dice le origini delle cose".

La sola via d'accesso all'inventio onirica è lo studio "che deve rifarci ingenui... togliere gli artifizi e renderci alla natura," come Virgilio, allegoria dello studio, conduce Dantea a Matelda, l'arte, che è nel giardino dell'innocenza. In questo paradosso è adombrata la coscienza di un'evoluzione irreversibile: l'uomo non può ritornare direttamente alla condizione di fanciullo, perduta per una sorta di hybris raziocinante; deve trovare una via più lunga per ritornarvi, un cammino espiatorio che gli permetta non di ritornare fanciullo ma almeno di ringiovanire. Lo studio - consapevole del proprio fine - è la fase positiva che permette di ritrovare i tasselli della poesia universale, dispersi nella tradizione; il sogno è la fase intuitiva di questo recupero, l'elaborazione della parola studiata e amata.

Il sogno nei Poemi conviviali

Nei Poemi conviviali, il tema dell'alternanza di sogno esaltante e realtà deficitaria di senso assume una funzione che potremmo definire strutturale; seguendone lo sviluppo, è possibile riconoscere due sezioni ideali della raccolta. In entrambe il sogno corrisponde alla sorgente dell'ispirazione; è il suo oggetto ad evolvere, all'interno dei singoli testi e trasversalmente nella raccolta, seguendo l'evolversi delle esperienze dell'io alla ricerca della Poesia.

L'Ultimo viaggio rappresenta una svolta: segna il momento della lucida riflessione anteriore al passaggio dal sogno della poesia-assoluto al sogno della caritas-agape e corrisponde al più spietato tentativo di risolvere l'alternanza dolorosa di sogno e realtà. Il nucleo da cui l'azione si dipana è il dissidio tra l'io e la poesia, tra il vecchio Odisseo e l'aedo Femio (non a caso rappresentato poveramente vestito, allontanato ormai dalla corte del re di Itaca): ormai incapace di contemplazione - e dunque alienatosi dal sogno - il vecchio eroe vuole tornare all'azione:

t'increbbe il detto
minor del fatto

X 18-19

lo ammonisce l'aedo. A queste parole, Odisseo risponde

sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla

X 31-32

L'eroe, infatti, vuole ritrovare in fondo all'oblio della sua vita passata "il sogno" di quella stessa vita, talmente lontana ormai da aver perso consistenza. Si tratta, in senso metapoetico, della le favole antiche che affascinano il poeta dei conviviali e cui egli si rivolge per dare senso alla sua opera. Odisseo, nondimento, vuole portare con sé Femio - il suo doppio, il "fanciullo musico" che, rigettato, diventa lacero e mendico - chiedendogli però di narrargli "il vero". Desto, l'eroe/io poetico intende dunque vivere il suo sogno, destinandosi fatalmente alla rovina (e alla consapevolezza che le belle favole antiche non resistono all'impatto con la realtà, rivelandosi inadeguate a soddisfare le esigenze dell'io). La sua battuta riprende le parole pronunciate da Femio, che lo mette in guardia contro il pericolo del disincanto: "il Tutto, buono, ha tristo figlio, il Niente". Solo il canto, e il sogno che esso esprime, sono il Tutto accessibile all'uomo; un Tutto breve, ontologicamente fragile, ma non per questo meno meraviglioso:

una conchiglia, breve, perché l'oda
il breve orecchio, ma che il tutto v'oda;
tale è l'Aedo. Pure a te non piacque

X 50-53

Ma ormai Odisseo è sbalzato fuori dalla dimensione onirica: egli cerca il Tutto nelle realtà e risponde "assai più grande il mare". Il sogno dell'amore - Circe - e della gloria - Polifemo - muoiono miseramente (e con il primo esce di scena Femio in quanto personaggio indipendente del poema) nel momento in cui Odisseo tenta di "destarli", cioè di verificarne l'esistenza nella realtà.

Malgrado lo sgretolarsi del suo passato erorico, Odisseo non accenna ad abbandonare la sua ricerca del vero, divenuto la sua ossessione:

il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero

XXI 15-16

A questo punto, la vita dell'eroe è un naufragio inarrestabile verso lo scoglio delle Sirene e la morte, ultimo vero. Tuttavia, anche di fronte all'esperienza estrema, Odisseo non si dà pace: il vero che cerca è un vero che sia diverso dal nulla. Da qui il bisogno naturalmente umano di affidarsi a un nuovo sogno, quello della fratellanza universale, capace di eliminare il male "non necessario" che attanaglia l'esistenza e di dare dignità e grandezza all'esperienza umana su terra.

La posizione intrasigente dell'io-Odisseo è già variamente annunciata nei poemi che precedono l'Ultimo viaggio e che appaiono chiaramente ispirati alla fede nella poesia come esperienza assoluta, come "Tutto".

 

Pour citer cette ressource :

Francesca Sensini, "Un percorso di lettura attraverso i «Poemi conviviali» de Pascoli", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), janvier 2011. Consulté le 28/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/un-percorso-di-lettura-attraverso-i-poemi-conviviali-de-pascoli