Vous êtes ici : Accueil / Civilisation / XXe - XXIe / Dalla radio libera al blog. Itinerario di un giornalista televisivo italiano

Dalla radio libera al blog. Itinerario di un giornalista televisivo italiano

Par Michele Cucuzza : Journaliste
Publié par Damien Prévost le 06/07/2009
Michele Cucuzza, célèbre journaliste de télévision italien, parle dans cet entretien de son expérience professionnelle et de l'histoire des médiaux dont il a été l'un des acteurs.

Michele Cucuzza, celebre giornalista televisivo italiano, è stato invitato all'Istituto Italiano di Cultura di Lione il 4 giugno 2009 per parlare della sua esperienza professionale e della storia dell'informazione radiofonica e televisiva italiana di cui è stato senza dubbio un protagonista.

Faccio il mestiere di giornalista da oltre 30 anni, continuando a cercare - possibilmente - di imparare, di aggiornarmi, di frequentare più mezzi di comunicazione (non uno solo) e di non abbandonarmi alla mentalità impiegatizia, sempre in agguato quando si acquisisce padronanza e "ruolo sociale'" Ho cominciato scrivendo, poi sono passato alla radio, quindi al telegiornale del servizio pubblico (sia realizzando servizi e collegamenti sia conducendo le news dallo studio), per arrivare quindi a trasmissioni quotidiane di infotainment. Da qualche anno, sono tornato a scrivere libri di carattere giornalistico e, ultimamente, ho aperto un blog nel mio sito web.

Tutto è cominciato a Catania, in Sicilia, dove sono nato, come un gioco, una passione spontanea: ero bambino e, imitando e ritagliando gionali e newsmagazine dell'epoca, che mio padre - professore universitario di vulcanologia, sotto l'Etna - portava a casa, dal Corriere della sera, alla Stampa, a Epoca (che con le sue belle foto sembrava un po' Life) e poi anche Panorama e l'Espresso, creavo sui fogli di carta dei quaderni di scuola simpatici e improbabili "settimanali", che puntualmente costringevo i miei cuginetti a sorbirsi. Uno, ricordo, l'avevo intitolato Michelino varietà... Ero un ragazzino studioso, vivace, curioso, ma che si divertiva come tutti gli altri a giocare e leggere fumetti. Frequentavo le scuole private, dai salesiani, perché mio padre era convinto che si studiasse di più... ma insomma, mica tanto. Dalle mie parti, allora, la vecchia Democrazia cristiana governava tutto sommato serena e immobile, anche se ogni tanto i catanesi provavano a agitare le acque e a cambiare temporaneamente cavallo, votando in massa l'MSI, il partito neofascista dell'epoca. Falcone e Borsellino erano ancora ragazzi e, a quei tempi , il luogo comune era che a Catania la mafia non c'era.

Diventato più grande, ho cominciato a creare i giornalini di classe, scritti a macchina e distribuiti in copie realizzate prima con la carta carbone, poi con il vecchio ciclostile: L'Araldo letterario sugli11-13 anni (dove, oltre a fare il direttore, mi ero improvvisato anche critico teatrale), il Pinco pallino, al ginnasio, tra i 14 e i 15, e il Don Bosco, all'epoca del liceo. La mia passione per la scrittura e per la comunicazione si andava rafforzando, alimentata presto dal "vento del' 68", che dalle mie parti soffiava soprattutto da Parigi e dal "maggio". Anche a Catania vedevo scuole e università occupate, sentivo parlare di 'diritto allo studio', di rifiuto della scuola "di classe", ma anche di sessualità più libera, femminismo, marxismo-leninismo, del Vietnam che resisteva all'imperialismo, della Cecoslovacchia invasa dai carri sovietici e delle "Guardie rosse" cinesi che facevano la rivoluzione culturale. Un '"ritto misto" dove ci stava tutto: c'erano molta confusione e parecchie storture, nessuno riusciva a porre con forza il tema del rifiuto della violenza, che in Italia (e in Germania), anni dopo, avrebbe prodotto il gravissimo fenomeno del terrorismo. Tuttavia, nella versione "provinciale" e piuttosto naif della mia inesperienza politica, il "movimento" significava per me soprattutto voglia di indipendenza e autonomia, specie culturale, rifiuto dei modelli e dei cliché che proponevano una famiglia e una società entrambe piuttosto arretrate e conservatrici. Cresceva così la voglia di imparare dai giornalisti e dai giornali in controtendenza, al passo con i tempi: Panorama diretto da Lamberto Sechi (il primo newsmagazine italiano, stile Time e Newsweek, ma anche l'Obs e L'Express), l'Espresso formato lenzuolo di De Benedetti e Scalfari (il giornalista che poi avrebbe fondato il quotidiano Repubblica), che con le sue inchieste spregiudicate cominciava a sollevare scandali su corruzione pubblica e denaro illecito ai partiti, il Giorno, quotidiano pubbllico molto attento alle trasformazioni del paese e alle istanze dei giovani (a differenza del più famoso Corriere della sera, il classico giornale della borghesia milanese e lombarda). Il suo fondatore, Enrico Mattei, presidente dell'Agip e dell'Eni, alla ricerca di un ruolo dell'Italia, nel campo della politica petrolifera internazionale, autonomo e competitivo con le multinazionali dell'epoca, le famose "sette sorelle", sarebbe morto in un incidente aereo a tutt'oggi non chiarito. Naturalmente, mi piaceva leggere i nuovi quotidiani della sinistra alternativa, dal Manifesto a Lotta continua, e La giovane critica, un periodico di controtendenza, fondato dal catanese Giampiero Mughini, tornato a casa entusiasta delle manifestazioni attorno alla Sorbona. (lasciata polemicamente anni fa la sinistra, Mughini oggi è un affermato scrittore e opinionista televisivo). A casa, ascoltavo piuttosto la radio, che cominciava a trasmettere musica 'giovane' e rotocalchi per teenager, ma non la televisione, che - a parte eccezioni, come le trasmissioni di approfondimento dell'informazione, dirette ad esempio da Enzo Biagi e qualche ciclo espressamente dedicato ai giovani - mi sembrava abbastanza convenzionale e "vecchia" (destino, vero?). Mentre mi ero iscritto senza entusiasmo alla facoltà di Lettere moderne, ero riuscito a trovare le prime collaborazioni giornalistiche, in particolare su un settimanale con la veste grafica di un quotidiano: Catania sera. Facevo, manco a dirlo, inchieste sulle nuove generazioni: non mi pagavano, ma ero felice di ritrovare la mia firma sotto i titoli.

Sollecitato per la bellezza di due anni da mio fratello, che studiava ingegneria a Milano e si era messo anche lui a frequentare il movimento studentesco, decisi tutt'a un tratto di lasciare la Sicilia e di trasferirmi all'Università statale meneghina. Ero attratto dagli sviluppi della contestazione, che da quelle parti avevano dimensione ancora piuttosto vasta, nonostante il calo fisiologico, ma anche dal desiderio di riuscire , in una delle due capitali dell'editoria, oltre a Roma, a collaborare con Sechi, che - in un'intervista- aveva detto che il suo Panorama accoglieva in stage periodici i giovani desiderosi di cimentarsi con il giornalismo. L'incontro con quello che consideravo l'incarnazione del giornalismo moderno avvenne nella prima storica sede della Mondadori' proprietaria del settimanale, in via Bianca di Savoia, non lontano dal centro di Milano ( il palazzo di Segrate non c'era ancora, come non c'era l'editore Berlusconi, all'epoca imprenditore edile). Le cose non andarono bene, come avrei dovuto immaginare. Il direttore di Panorama fu gentile ma mi disse che non c'erano al momento posti liberi per i suoi stage: comunque, se volevo, potevo certamente avanzargli delle proposte di eventuali articoli. Me ne tornai a casa, da mio fratello, in tram, con le pive nel sacco, ma senza minimamente pensare di rientrare a Catania: il caso ha poi voluto che - una decina di anni dopo, quando stavo per essere assunto alla Rai, dopo una lunga militanza in una radio privata- Panorama mi abbia offerto il lusinghiero posto di caporedattore centrale del settimanale , offerta che ho rifiutato, prendendomi del 'matto' dal vicedirettore che me l'aveva fatta.

Intanto, mi ero avvicinato al movimento studentesco e, presto, grazie a nuove amicizie in quell'ambiente, ho cominciato a collaborare con un periodico politicamente schierato: Giorni- Vien nuove, diretto dallo scrittore e comandante partigiano, Davide Lajolo, che mi incantava con i suoi racconti sulla Resistenza e i personaggi dell'epoca, Secchia, Longo, Togliatti, Pajetta. Anche in quel caso, in collaborazione con una studentessa universitaria, ho realizzato una serie di articoli sui movimeti giovanili.

La svolta professionale avviene nel 1976: la Corte costituzionale ha stabilito che il monopolio della Rai è incostituzionale. Nascono un po' dappertutto radio e tv private, quasi sempre a ispirazione commerciale (da quel fiorire e fondersi di emittenti locali sarebbero venute fuori, anni dopo, le tre reti tv Fininvest, poi Mediaset), ma in certi casi a forte vocazione giornalistica e - anche - politicizzate, le cosiddette "radio libere". Una di queste, Radio popolare, voluta da settori del sindacato vicini al "movimento" e dalle forze della sinistra extraparlamentare, diventa il mio primo posto di lavoro stabile: a Radio popolare (o Radio pop, come dicevamo noi) sono rimasto sette anni, fino al 1983, quando ho cominciato a collaborare con la Rai; a Radio popolare sono diventato - a 25 anni- giornalista professionista e ho appreso gran parte del mio bagaglio iniziale di cronista e di conduttore, fino a essere nominato caporedattore del giornale radio.

Benché politicamente collocata nell'area della sinistra 'alternativa', l'emittente ha avuto da subito caratteristiche spiccate di notevole professionalità (grazie soprattutto alla direzione di Piero Scaramucci, un ottimo inviato speciale dalla Rai). "Non dobbiamo consolare chi già la pensa come noi", ci ripeteva, "dobbiamo convincere chi è lontano dai nostri punti di vista", il che voleva dire arrivare prima di tutti su un fatto, raccogliere più in fretta possibile le notizie, tutte le notizie, arricchendole con testimonianze dirette: insomma, fare i giornalisti. Radio popolare, in questo, si distingueva nettamente dalle antenne fiancheggiatrici dell'area estremista della cosiddetta Autonomia operaia, come Radio Alice di Bologna e Radio Sherwood di Padova che avevano scelto di far da eco alle azioni dei gruppi più radicali. – Non a caso, man mano che l'impegno di lavoro mi coinvolgeva , prendevo sempre più le distanze dalla politica "militante" dei figli del '68, fino a distaccarmene del tutto.

Le radio, non solo Radio popolare, ma tutte le altre emittenti "libere", nate nel frattempo a Milano e in decine di altre città, davano accesso diretto a chi fino ad allora era stato escluso dai mezzi di comunicazione di massa: tra i nostri corrispondenti fissi, naturalmente volontari, c'erano al primo posto gli operai e gli impiegati di livello più basso delle fabbriche maggiormente sindacalizzate, oltre agli studenti, medi e universitari. Inoltre, nelle trasmissioni a "microfono aperto" tutti avevano il diritto di dire la loro, parlando alla radio, in diretta, con una semplice telefonata. E grazie al telefono, che allora si utilizzava in strada esclusivamente con il gettone, io e tanti altri giovani abbiamo imparato a raccontare gli avvenimenti in diretta, facendo cronaca senza testi scritti e senza filtri, cercando sempre la tempestività, la ricchezza di particolari, le voci dei testimoni. Tutte circostanze che oggi, nell'epoca dell'informazione globalizzata e dell'istantaneità della comunicazione interattiva nel web, appaiono scontate, ma allora sembravano autenticamente rivoluzionarie. Non a caso, in moltissime redazioni giornalistiche di Milano, era diventata presto un'abitudine tenere accesa Radio popolare, nell'assoluta certezza di non 'bucare' mai una notizia.

Tuttavia, il fatto di essere quasi sempre senza un soldo in tasca (eravamo una cooperativa autogestita, gli stipendi erano da fame, quando c'erano...) oltre a considerare ormai un limite l'impronta ideologica che comunque Radio popolare manteneva, mi hanno spinto a cercare altri lidi cui approdare.

Avevo cominciato a simpatizzare (erano i primi anni '80, il terrorismo per fortuna era stato sconfitto ) per il PSI di Craxi, da poco nominato Presidente del consiglio: mi sembrava l'unico in grado - in Parlamento - di dinamizzare la situazione italiana, bloccata dal continuo reciproco corteggiarsi e poi separarsi, per ricercarsi di nuovo, di Democrazia cristiana e Partito comunista. E' stato grazie alla segnalazione di un ex compagno di movimento, passato nel frattempo ai socialisti, che ho avuto la possibilità di firmare il mio primo contratto a termine, di appena tre mesi, con la Rai, sempre a Milano. Un passaggio piuttosto casuale, ma - come si è visto - all'insegna della politica, come avviene ancora oggi di fatto per il grosso di nomine e promozioni nel servizio pubblico.

Dopo due anni di precariato, con 'fermi' di alcuni mesi, nel 1985 arriva la sospirata assunzione. Ero diventato, con altri colleghi come Antonio Di Bella, oggi direttore del TG3, e Maurizio Losa, che per un periodo avrebbe condotto 'Uno mattina' , uno dei redattori di punta della Rai di Milano: i miei servizi e collegamenti in diretta sulla massoneria deviata P2, sul fallimento del vecchio 'Banco ambrosiano' e la morte misteriosa a Londra del suo Presidente Roberto Calvi, sui processi ai terroristi rossi e neri, sul clamoroso arresto del presentatore televisivo Enzo Tortora, rivelatosi poi una bufala, sulla disastrosa alluvione in Valtellina del 1987, andavano regolarmente su tutti e tre i telegionrali del servizio pubblico, oltre che nei giornali radio Rai.

Ecco perché, in quello stesso periodo, mi sono arrivate quasi contemporanemente due proposte di trasferimento nella redazione centrale di Roma dei principali telegiornali: Tg1 e Tg2. Ho scelto quest'ultimo perchè mi proponeva – di sperimentarmi nella conduzione del notiziario, ma anche - ecco la politica che ritorna, con la cosiddetta "lottizzazione" Rai - perchè lo sentivo più affine, in quanto vicino alle posizioni di Craxi.

In quegli anni, si andava stabilizzando in Italia il cosiddetto 'duopolio' televisivo, un caso più unico che raro nella comunità internazionale: tre reti televisive al servizio pubblico e tre a un privato. In quello stesso periodo, dandomi da fare, per un decennio, fino al 1998, nella conduzione di tutte le edizioni del Tg2, ho avuto il privilegio di raccontare il grande cambiamento che, in modo stressato, inatteso, stava per subire il paese: mani pulite e la fine della cosiddetta "Prima rerepubblica'" oltre naturalmente alle tragiche stragi di mafia degli anni '92-'93.

Nel 1998, il passaggio alla Vita in diretta, il racconto quotidiano della cronaca e dello spettacolo: per ben 10 anni, programma leader del pomeriggio televisivo italiano, imitato da alcuni, criticato da altri, amatissimo dal pubblico, quello che davvero guarda la tv e non ne parla soltanto. Nel 2008, arriva Uno mattina, un'altra striscia quotidiana su Rai 1, questa più di servizio e con taglio più giornalistico, attento ai prezzi e alla qualità del cibo, ma anche pronto a dare per primo le notizie quando Obama diventa Presidente, i terroristi fanno strage a Mumbay e il terremoto scuote l'Abruzzo. Perchè lasciare il telegiornale, alla volta di territori apparentemente più "infidi", quali quelli dell'infotainment? Per curiosità, per la voglia di cimentarmi in modalità e linguaggi nuovi, convinto che - mettendosi in gioco, rischiando magari qualcosa - si abbia l'oppurtunità di comunicare e dialogare con tutti: un dovere, nell'epoca in cui i nuovi media rischiano di accresce le distanze tra gli addetti ai lavori e chi è rimasto alla sola tv generalista, ma anche un vantaggio, lo stesso che continuo a perseguire con la scrittura, di saggi e nel blog, quella stessa scrittura con cui ho cominciato e che mi ha portato fin qui.

 

Pour citer cette ressource :

Michele Cucuzza, "Dalla radio libera al blog. Itinerario di un giornalista televisivo italiano", La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), juillet 2009. Consulté le 19/03/2024. URL: https://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/dalla-radio-libera-al-blog-itinerario-di-un-giornalista-televisivo-italiano